Voci & Parole

Noi e loro

«Non è la stessa cosa.» continuano a dire mentre stanno seduti davanti ai loro schermi. «Noi e loro, vuoi mettere? Non è proprio la stessa cosa.»
Io non so se è o non è la stessa cosa. So solo che un giorno la nostra casa non è stata più nostra, la nostra terra nemmeno. So che non volevamo partire ma abbiamo dovuto. Siamo saliti su una nave tutta bianca in un pomeriggio grigio. Ci hanno fatto scendere scale a non finire, oltre le suite, oltre le cabine di prima classe, giù, giù fino alla terza, quella dei grandi cameroni con i letti a castello su cui le vecchie non volevano salire. Gli uomini stavano da una parte, le donne e i bambini dall’altra. Mi sono arrampicata in alto. Temevo che qualcuno mi vomitasse addosso. Toccavo i bulloni bianchi del soffitto allungando appena la mano. Mi mancava l’aria, ma avevo un posticino tutto per me, lontano dai pianti e dai lamenti, caldo e avvolgente come un utero. Bastò chiudere gli occhi per sciogliere un po’ – giusto un po’ – l’oppressione che stringeva la gola. E adattare il respiro al ritmo della nave che beccheggiava, guscio di noce smarrito nel mare grosso di gennaio. In obbedienza cieca a quel movimento attraversammo il mare fino a Napoli e agli sguardi di commiserazione, di curiosità, di distanza, che d’improvviso ci fecero miserabili, strani, altri.
E venne il campo profughi con il vento glaciale dei monti della Ciociaria, una stanzetta per nucleo familiare, uno scaldino minuscolo sopra la porta, gli spifferi crudeli e ostinati. E i maglioni di lana uno sull’altro, di giorno come di notte. Le coperte non bastavano. La minestra sciapida non scaldava. Chissà se anche allora qualcuno lucrava sulla nostra miseria lesinando sul cibo e sul riscaldamento.
Venne anche il tempo di Bologna, dello stupore della gente. Esistevano allora due categorie di umani: loro e i marocchini che in altre parti d’Italia chiamavano terroni. Loro erano la maggioranza, erano quelli giusti, quelli che rispondevano: «Altro!» all’ultima domanda del negoziante. I marocchini rispondevano: «No, grazie, basta così!» con accento pesante e i soldi contati in mano. Il negoziante tollerava, le massaie anche, purché si rispettasse la fila. In fin dei conti, erano qui per lavorare, puvrett anca laur. Loro si distinguevano dagli altri che camminavano a testa china, ma ai nostri occhi erano molto simili. Forse non mangiavano le stesse cose, ma vestivano e pregavano allo stesso modo. Noi eravamo più altri degli altri. Eravamo una scheggia conficcata in un deserto di uniformità.
Venne il tempo duro della conquista della lingua. Indicavamo con il dito puntato quello che volevamo, acquistando a volte, per timore di contraddire il negoziante, cibi che non conoscevamo. Scoprimmo le mele asprigne e il radicchio amaro come l’esilio. Imparammo con pazienza a nominare ogni cosa, a fare dialoghi cantilenanti, a sibilare l’esse in modo insospettabile.
Così, con gli anni e la pazienza, venne il tempo del mimetismo. Loro non saranno mai come noi. Noi siamo anche come loro. Solo ci rimane piantata nel cuore la freccia acuminata della nostalgia. Sempre nella nostra vita cammineremo su un doppio binario, con un piede ben saldo su questa riva e l’altro conficcato in quell’altra. È come una pena segreta che nessuno capirà, nemmeno i nostri figli.
Forse hanno ragione quelli che dicono: «Noi e loro, non è la stessa cosa.» Hanno ragione, non è la stessa cosa. Abbiamo la pelle bianca e nessuno può spararci a vista.

 

L’autrice di questo contributo è Marinette Pendola. Nata a Tunisi da genitori di origine siciliana, docente di lingua e letteratura francese, vive a Bologna e fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria” istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi negli anni Novanta, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui “L’alimentazione degli italiani di Tunisia” (Tunisi, Finzi, 2005), “Gli Italiani di Tunisia. Storia di una comunità” (Editoriale Umbra, 2007). I suoi studi hanno ispirato anche “La riva lontana” (Sellerio, 2000), romanzo autobiografico che ripercorre l’infanzia tunisina nel periodo coloniale. Per Arkadia Editore ha pubblicato i romanzi “La traversata del deserto” (2014) e “L’erba di vento” (2016).

 

 

 


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