“Viviana Viviani” su La poesia e lo spirito
La parola ai poeti. Viviana Viviani
A chi mi chiede cosa sia la Poesia non ho mai saputo rispondere, per me la Poesia non esiste, la poesia sono le poesie e soprattutto sono le poesie che mi piacciono, mentre le poesie che non mi piacciono, se pur dotate di elementi caratteristici – la rima, la metrica, la disposizione nello spazio – saranno per me un po’ meno poesia, progressivamente fino a non esserlo affatto. Credo quindi che definire qualcosa come poesia sia di base un fatto legato al piacere, definiamo poesia quello che ci piace, anche quando in modo evidente non è poesia in quanto è tutt’altro, ad esempio diciamo questo film è poesia, questa canzone è poesia, questa torta al cioccolato è una vera poesia. Parlando strettamente della poesia in quanto produzione poetica scritta posso dire che per me è qualcosa che è partito da Rodari, passato per Leopardi e Ungaretti e approdato a Vivian Lamarque, Wislawa Szymborka e una lunga lista di altri contemporanei, in un percorso sempre guidato dal piacere oltre che dallo stupore, dal turbamento e dall’inquietudine, che del piacere sono forme diverse e forse più alte e complesse. Per quanto riguarda le mie poesie spesso, anche se non sempre, nascono da qualcosa che mi è piaciuto, quindi una poesia altrui che ho riconosciuto come tale, su cui si va a innestare qualcosa che ho vissuto in prima persona. Per rendere questo processo meno astratto vorrei portare due esempi di mie poesie nate da poesie da me molto amate, con la mediazione di esperienze personali al contrario non per forza gradevoli ma profondamente legate al reale
Il primo esempio è la poesia di Ennio Flaiano, “Il lamento del tabaccaio”
Stammi a sentire, da bambino ero un paggio.
Tu non mi credi? Ero buono e cortese.
Schiudi le orecchie, da bambino ero saggio,
credevo in Dio, amavo il mio Paese.
Guardami in faccia: ero serio e gentile.
Rispettavo le piante, i gatti. Ero vile.
Da vecchio, sarò l’onta del quartiere.
Da vecchio, tutte le voglio vedere.
Da vecchio, solo le puttane e il bere.
Perché mi guardi? Da bambino ero bravo.
Mi devi credere, ero savio e ubbidiente.
Da bambino, perdio, mi ti mangiavo
nello studio. Da bambino ero prudente.
Tu ridi, stronzo? Ero ben pettinato,
rispettavo le aiuole, i cani. Ero ordinato.
Da vecchio, sarò l’onta del quartiere.
Da vecchio, solo le puttane e il bere.
Da vecchio, darò via pure il sedere.
Questo testo di inarrivabile ferocia e arguzia si è compenetrato nel tempo a quel che ho osservato della vecchiaia, a pertire da quando andavo a visitare mia nonna in casa di riposo, luogo in cui fuori da ogni previsione nascono ancora amori teneri e spregiudicati, incuranti ormai delle remore sociali, e ascoltavo i suoi e altrui ricordi, notando che per lo più le donne anziane raccontano sé stesse da giovani come le più belle e corteggiate del paese, gli uomini anziani come seduttori incalliti e irresistibili, e mi domandavo, quanto sarà vero e quanto mediato dal ricordo? Se sono bugie, lo sono in modo consapevole? Come mi ricorderò e racconterò io un domani? Così è nata “Da vecchia”
Da vecchia non ballerò il liscio,
non giocherò a carte, non cucirò,
da vecchia mi farò
di botox come eroina
truccata da vecchia gallina,
mi butterò nel vizio
lolita dell’ospizio,
da giovane ero bella, dirò.
Da vecchia, mentirò.
Qualcosa di analogo è avvenuto con una poesia anch’essa da me molto amata di Vivian Lamarque, Il condòmino
Cammino piano, qua sotto
al terzo piano dorme un condomino
morto. È tornato morto stasera
dall’ospedale, gli hanno salito
le scale, gli hanno aperto la porta
anche senza suonare, ha usato
per l’ultima volta il verbo entrare.
Ha dormito con noialtri condomini
essendo notte sembrava a noi uguale
ha dormito otto ore ma poi ancora
e ancora e ancora oltre la tromba
mattutina dei soldati, oltre il sole
alto nel cielo, ora che noi ci muoviamo
non è più a noi uguale. È un condomino
morto. Scenderà senza piedi le scale.
Era gentile, stava alla finestra
aveva un canarino, aveva i suoi millesimi
condominiali, guarda gli stanno spuntando
le ali.
L’immagine poetica di questo inquilino morto che attende il suo ultimo viaggio si è contrapposta nella mia mente alla ferocia di certi reportage giornalistici, privi di pietà nel raccontare i dettagli meno rispettosi del ritrovamento di persone morte nelle proprie case, magari sole e rinvenute molti giorni dopo, senza risparmiare alla cronaca dettagli morbosi, macabri o imbarazzanti. Queste considerazioni, unite all’antica paura trasmessami da mia madre di morire con la casa in disordine, hanno fatto nascere la mia “Le case dei morti”
Ci vorrebbe un servizio speciale
a riordinare le case dei morti
che non fanno in tempo
a prepararsi
per l’ultimo appuntamento
render tutto decente
profumare l’ambiente
arieggiare le stanze
buttar via
certe strane sostanze
sollevare i tappeti
far sparire i segreti
le residue
debolezze carnali
prima che qualcuno scriva sui giornali
era uno strano, usciva di rado
viveva in uno stato di degrado
Così, senza pretesa di eguagliare in bellezza i testi che mi hanno ispirato, ho voluto raccontare come una poesia può nascere da un’altra poesia, interpolandosi con l’esperienza reale e umana del nuovo autore e diventando qualcosa di completamente diverso, che mantiene con il testo originale un filo quasi invisibile che potremmo chiamare tradizione. Questo è quanto per me si avvicina di più a una possibile definizione di poesia, e della mia poesia in particolare.
Fabrizio Centofanti
Il link all’intervista su La poesia e lo spirito: https://bitly.ws/38maa