“Tra le cose e gli altri” su Cabaret Bisanzio
Tra le cose e gli altri di Ivan Ruccione
Un paio di giorni fa ho inciampato su questo libro letto lo scorso anno. Non è un romanzo, non è nemmeno un racconto, è un deposito di micro-narrazioni che hanno l’autonomia delle storie strutturate e finite, quelle storie che vivono di vita propria e che, messe insieme, creano un vortice di immagini di vita quotidiana, provviste di tutte le emozioni che la stessa è in grado di riservarci. Ivan è un Mago del micro-racconto, con la M maiuscola. E il suo stile è, a mio parere, esplicito già dalla dedica, “al vuoto”. Il giovane autore prospetta a noi lettori una scrittura senza sconti, senza remissione, “antiepifanica” (cit.), si potrebbe dire, addirittura, una scrittura senza futuro. Ma è proprio qui l’inganno, perché la scrittura di Ivan ha un futuro, ha un preciso obiettivo, quello di interrompere l’illusorio fluire della vita e di restituire autonomia e dignità alle nostre micro-esperienze. È attraverso il suo stile, infatti, che ogni occasione diventa un’esperienza che, in quanto tale, è potenzialmente un racconto. E non è necessario sciorinare il proprio bagaglio culturale: questo rappresenta piuttosto la base su cui edificare questi spaccati di vita, i quali sono morti prima ancora di essere raccontati, e il compito dell’autore è quello di farli tornare in vita. È questa la funzione della scrittura di Ivan, loro, le micro-esperienze, se non venissero traslate in parole scritte, sarebbe come se non fossero mai esistite. La scrittura di Ivan è, quindi, una lotta contro la morte. L’autore esorcizza la consapevolezza di cui è equipaggiato attraverso la lingua scritta. Trascurando la Storia, mette a fuoco il dettaglio, mette a fuoco, proprio come se avesse in mano un “mirino”, il più piccolo particolare dove è stato protagonista diretto o indiretto o che sente fortemente la necessità di “fermare”. Da qui, grazie a questa scelta singolare, nasce l’unicità del micro-racconto, con uno stile apparentemente semplice, ma in una scrittura che spesso ti sorprende, addirittura ti destabilizza. Scarna ma diretta e immediata, ti colpisce per la sua apparente (perdonate se mi ripeto) semplicità. E allora io le estraggo, le parole, e conferisco loro un’ennesima possibilità, quella, appunto, di sorprendermi: «L’amore è uno psicofarmaco» (p.27); «La marmitta bucata smette di grugnire, sferragliando sotto di noi» (p.30); «Mi odio quando dimentico chi sei» (p.52). Ma Ruccione, non si ferma all’esperienza e a ciò che la stessa, man mano, gli suscita, lui trascende la prassi e raggiunge i sentimenti: «Perdonami, amico» (p. 29); «Perdonami, amore mio» (p.31). Come ha scritto Andrea Inglese nella prefazione, non è detto che la vita ci riserverà l’occasione di «un qualche versante raccontabile». Quindi, è la misura breve la giusta misura, quella che ci permette di rendere questi segmenti di vita irrevocabili e, al contempo, unici e indimenticabili, corredati di considerazioni personali che, come vere e proprie rivelazioni, a volte lasciano letteralmente senza parole: «Esco di casa e un ragazzo mi chiede d’accendere, una donna con il passeggino attende il mio transito sul marciapiede stretto, un’auto rallenta per farmi attraversare la strada. Mi meraviglio di essere visto» (p.60). Traspare sempre, da ogni racconto una, a volte sottesa, a volte invece esplicita, consapevolezza. Quel tono laconico che non lascia spazio ad alcuna salvezza, e che al contempo non vuole fare scena, non dà luogo a spettacolo: «Le mie sciagure, invisibili, non spargono sangue» (p.28); «I pugni che ogni tanto si abbattevano sulla tavola erano i detriti di qualcosa molto tempo prima» (p.35); o, ancora, «Quei figli che non ho voluto, sapessero la felicità che mi debbono» (p.47). Ci sono poi racconti, a parer mio, geniali, come “Appunti per un romanzo autobiografico” (p.37). Ce ne sono altri che mi hanno commosso, come “Padri”: «La porta della camera da letto è socchiusa. Mi affaccio. Papà è di spalle, davanti all’armadio aperto. Sta respirando un maglione di suo padre» (p.17). Ma ci sono racconti, pure, dove penso di avere ritrovato Ivan, non l’autore ma l’Ivan uomo: «Accedo giornalmente solo per cancellare i ricordi, correggere gli anni, edificare una persona migliore», “Facebook #1”, (p.23). A cavallo tra il Sette e l’Ottocento ha vissuto in Russia un autore, Petr Andreevic Vjazemskij, il quale scrisse, tra le altre cose, un libro dal titolo molto eloquente Briciole della vita (Adelphi, 2022). Anche lui, come Ivan, avvertì la necessità di “mantenere” in vita il proprio vissuto; anche lui, come Ivan, lo fa mettendo a fuoco dettagli e particolari che altrimenti non avrebbero mai visto la luce. Si tratta di micro-narrazioni, folte di aneddoti, riflessioni, brevi ritratti, storie che in gran parte figurano nei taccuini che raccolse per più di sessant’anni. Vjazemskij scrisse di questi suoi taccuini: «Tutti noi diamo importanza ai grandi numeri, ai grandi eventi, alle grandi personalità, e trascuriamo le briciole della vita».
Ditemi se è poco!
Riccardo Sapia