A proposito di “Sin Rumbo”
Lo Spleen di Cambaceres
Alla riscoperta di Eugenio Cambaceres, scrittore argentino del secondo Ottocento, attento agli sviluppi del naturalismo francese ma con una forte connotazione latinoamericana delle origini
Grazie all’intraprendenza e alla lungimiranza della giovane casa editrice Arkadia e alla competenza e alle abilità linguistiche di Marino Magliani e Luigi Marfè finalmente è stato pubblicato in Italia Sin Rumbo (Senza rotta) di Eugenio Cambaceres. Lo scrittore, nato a Buenos Aires nel 1843, appartiene a quella generazione degli Anni Ottanta che ha assistito e spesso partecipato al consolidamento politico, sociale ed economico dell’Argentina, dopo le lotte civili tra federali e unitari. Sono gli anni di una massiccia immigrazione che non sempre riesce a integrarsi e finisce col sovrappopolare le città costiere, mentre aumenta a dismisura il potere economico delle oligarchie rurali, di coloro, cioè, che lavorano la terra e allevano il bestiame. Gli intellettuali sono espressione di questa élite che governa il paese e hanno un bacino di utenza molto limitato perché il tasso di analfabetismo supera l’ottanta percento della popolazione.
Essi, quindi, riflettono nelle loro opere i loro stati d’animo che variano dall’euforia e la soddisfazione per i privilegi ottenuti alla delusione e la frustrazione quando le loro aspirazioni escono sconfitte da una realtà che, nel passaggio dall’isolamento e dall’immobilità di una vita semicoloniale a uno stato moderno e organizzato, continua a essere complessa e problematica. Accanto a Lucio Victorio Mansilla, che può essere considerato l’archetipo dello scrittore di questa generazione, e a Miguel Cané, dobbiamo citare appunto Eugenio Cambaceres, un avvocato che dopo essersi occupato attivamente di politica, si dedica alla Letteratura aderendo, almeno a livello programmatico, al Naturalismo di Zola che rappresenta, in maniera spesso truculenta, il degrado fisico e morale di una società malata, da studiare come un corpo infetto.
Sin rumbo, scritto nel 1885, è la storia di un uomo, Andrés, proprietario di una vasta hacienda a 20 Km da Buenos Aires, nella pampa argentina, magnificamente descritta: «… come un riflesso verde nell’azzurro del cielo, indifesa, sola, spoglia, splendida, che mostrava la propria bellezza, come una donna nella sua nudità». In questa hacienda si allevano ovini e bovini ed è proprio con la pratica della tosatura e della marchiatura, talvolta brutale per l’insipienza o la durezza dei peones, mentre dalla finestra aperta, sdraiato su un’amaca, Andrés osserva impassibile la scena, che si apre questo romanzo. L’incipit mostra quanto Cambaceres sia stato influenzato nei temi e nello stile, ruvido e scabro, dal naturalismo, e questa impressione viene confermata, nel corso del romanzo da altre situazioni che vedono il protagonista in lotta contro gli elementi della natura, penso al nubifragio che si abbatte su di lui, sui suoi uomini e i loro cavalli, mettendo a repentaglio la loro incolumità, nel viaggio di ritorno a casa. Anche la scena conclusiva con l’improvviso aggravarsi della malattia della sua bambina che spinge il giovane medico a praticare con mezzi di fortuna una tracheotomia sembra uscire direttamente, per la crudezza e la drammaticità della situazione, dalla narrativa di Émile Zola.
Ridurre, però, Cambaceres a un seguace del grande scrittore francese mi sembra schematico e riduttivo. Volendo, infatti, rimanere nell’ambito del realismo della II metà del secolo diciannovesimo, riterrei più corretto accostarlo a Verga per quel senso di fatalismo, di ineluttabilità che grava sui suoi personaggi che non riescono a modificare la propria situazione di partenza, né in campo sociale né in campo sentimentale. Sono dei vinti, costretti a subire il loro destino e, nonostante gli sforzi e le energie profuse, vengono risospinti dalla marea sulla riva. La loro lotta contro la natura è destinata alla sconfitta perché le leggi della natura si possono violare, trasgredire ma non modificare. Inoltre non c’è quello slancio verso il futuro (Andrés è sempre rivolto al passato, anche quando sembra allontanarsene) né c’è quella fiducia incondizionata nella scienza che è proprio dei positivisti. Non basta, a differenza di Zola che si fa portavoce di un’esigenza di progresso, politico e sociale, che nasce con lui e intorno a lui, a Cambaceres come a Verga manca un reale interesse per le classi sociali subalterne e si limita, talvolta, a guardare verso di loro con un atteggiamento di umana compassione. Infine nel romanzo in questione c’è, come nella vita dell’autore, un amore profondo per il teatro e la vita mondana che ci richiama alla mente il giovane Verga, quello, per intenderci, dei romanzi giovanili tardo-romantici (Eva, Eros e Tigre reale).
Per mettere a fuoco il personaggio di Andrés è indispensabile riportare l’inizio del V capitolo: «Immerso nel suo pessimismo, scavato dai più grandi demolitori meccanici moderni, affondato nel più profondo nulla delle nuove dottrine, trascinava la vita nella più nera solitudine». E più avanti: «…niente e nessuno veniva risparmiato al cospetto della legge amara e inesorabile del suo scetticismo. Nemmeno l’affetto della madre, figlio unico com’era del suo dolore; nemmeno dio, un assurdo spaventapasseri inventato dalla stupidità degli uomini».
Questo suo stato di inquietudine profonda, di malessere esistenziale, di noia perenne è, per molti versi, riconducibile allo spleen baudelairiano e ci conferma quanto approssimativa sia l’attribuzione di istanze e stilemi naturalistici a Cambaceres che ha personalità così complessa ed eterogenea da sottrarsi a una definizione univoca. In lui ritroviamo tutti o quasi gli aspetti contraddittori di quella temperie culturale, complessa e variegata, che si respira in Europa nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Non riuscendo a trovare pace, tormentato da questa assurda inquietudine, da questo umor nero, Andrés decide di recarsi a Buenos Aires e non desiste dal suo proposito neppure quando Donata, la figlia di un suo dipendente, con la quale ha intrecciato una relazione, gli confida che sta per mettere al mondo una sua creatura. Giunto nella capitale Andrés si dà a una vita di bagordi, frequenta teatri, locali alla moda e case da gioco, passa dalle braccia di una donna a quelle di un’altra. Si trascina per le vie e i locali di Buenos Aires, pigro e distratto, come un flâneur (evidente ancora una volta l’influenza baudelairiana) senza lasciarsi coinvolgere emotivamente, neppure quando instaura una relazione erotico-sentimentale con l’Amorini, un soprano non eccelso ma sensibile, a dispetto del suo stato civile di donna coniugata, alle attenzioni e alle premure maschili. Anche quella vita, dopo non molto, però comincia a stancarlo e l’attrazione nei confronti della cantante si tramuta ben presto in un’invincibile antipatia. Le stesse rappresentazioni teatrali che tanto lo avevano affascinato gli sembrano riflettere la farsa della vita sociale, mentre la vita politica gli ha «sempre suscitato il più cordiale disprezzo». Andrés si sente sempre più: «Disperato, abbattuto, esausto, andava alla deriva, senza rotta, nella notte nera e gelida della vita». Accarezza, persino, l’idea del suicidio. Poi, però, prendono il sopravvento, il desiderio di tornare alla sua hacienda e la nostalgia della pampa, di quella vita libera, lontana dalla corruzione della città e dal putridume sociale. A ciò si aggiunga, in un rigurgito della sua appannata coscienza, cosa per lui del tutto nuova, l’immagine del figlio di Donata che lo aspetta e… allora prende la via di casa.
Non credo che sia opportuno continuare a raccontare la storia, sarebbe un pessimo servizio, non tanto per l’autore, morto di tisi nel 1888, quanto per l’editore e soprattutto per i lettori, per cui ci fermiamo qui evidenziando non solo l’autobiografismo che connota il romanzo, dal momento che Eugenio come Andrés viaggiò molto, amò il teatro lirico, ebbe una relazione con una donna sposata che poteva finire tragicamente e soprattutto fu afflitto dalla noia di vivere o spleen, ma anche la qualità di una scrittura densa, icastica, aderente alle cose e agli stati d’animo. Si pensi alla quantità e alla precisione di termini botanici e zoologici che si rilevano nel romanzo e al linguaggio che varia da personaggio a personaggio a seconda dello stato sociale a cui appartiene.
Un libro, a dir poco, interessante e coinvolgente e ci si rammarica che sia stato tradotto in Italia soltanto ora a 133 anni di distanza dalla sua pubblicazione. Fatti e misfatti dell’editoria.
Francesco Improta