Sanremo, agosto 2020
Marino Magliani (Dolcedo, 1960) è uno scrittore e traduttore ligure. Collabora con varie case editrici, tra le quali Exorma, per la quale ha tradotto Sudeste di Haroldo Conti, Miraggi, Amos, Nutrimenti, Del Vecchio e Il canneto editore. Traduce per Arkadia dove cura la collana di letteratura ispanoamericana, Xaimaca-Jarama, con Alessandro Gianetti e Luigi Marfé. Ha tradotto anche con Riccardo Ferrazzi, Giovanni Agnoloni e Alberto Prunetti. Cura inoltre la collana Appennica per Tarka.
Siamo «nella Liguria costiera, dei palmizi e dei cartelloni pubblicitari». In Prima che te lo dicano altri (Chiarelettere, 2018), il protagonista, Raul Porti, dice: «Tutto quello che vedi da Dolcedo, Ripalta, Asinelli e Isolalunga e fin qui e poi fin giù al mare, un giorno sarà una scalinata di case». Appare chiaro un riferimento alla speculazione edilizia, a quelle “selve di cemento” che, come diceva Biamonti, «fanno male agli occhi». Qual è stata la sua percezione della Liguria costiera da bambino, poi crescendo e tornando?
Mi identifico molto con ciò che Italo Calvino scrive in quello che per me è un libro fondamentale: La strada di San Giovanni. Il padre, Mario Calvino, noto botanico, e al contempo contadino, cercava di portarlo con sé nella campagna di San Giovanni. Lo stesso faceva mio padre. Provengo da una Liguria non costiera come quella di Calvino, ma da un profondo fondovalle, una terra dove il mare davvero non c’è. Per cercarlo devi inventarlo o andare sulle pietraie e salire abbastanza. Sono sempre stato abituato a questa negazione del mare: l’ho sempre considerato più dei turisti e dei cittadini che nostro. Ci sono una serie di battute che mi hanno sempre commosso, quelle della gente del mio paese che diceva:
«Sei già andato al mare?»
«Guarda se trovo il costume o i soldi per comprarlo, qualche giorno ci vado».
Loro ci vanno un giorno all’anno, è una goduria, un paesaggio che non si concedono. Mio padre mi portava in campagna e mi diceva: «Marìn bisogna faticare». Io a quel punto ero il ragazzo che preferiva il mare esattamente come Calvino preferiva la parte costiera e luccicante. Ecco quindi che la mia frontiera era davvero quella che Biamonti, o forse Calvino, chiama la separazione fra la Liguria ridanciana e la Liguria sofferente, la Liguria della sofferenza come lavoro, la Liguria muta, aspra, che è quella dell’uliveto. Dal momento che sono figlio di contadini –mia madre era ancora più contadina di mio padre – io ho quindi sempre vissuto il mare come senso di colpa: è ciò che mi sono sempre concesso da ragazzo al posto di quello che avrei dovuto fare, cioè andare in campagna. Mio padre lavorava in un ristorante sulla Costa Azzurra, a Sainte-Maxime, e io andavo con lui d’estate. Il mare per me era più quel mare oltre la frontiera che questo mare e ne parlo nel L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exorma, 2017). Questa parola che noi usiamo, frontiera, non l’ho mai capita bene. Non sono di quelli per cui la frontiera è davvero un taglio, ma è una terra pulsante. È una zona che sfuma, così l’Italia può arrivare fino a Mentone e la Francia fino a Bordighera, anche se non ho mai vissuto la frontiera come Biamonti che era della frontiera e che aveva una grande considerazione per la cultura francese…
Biamonti aveva infatti uno sguardo proiettato verso ovest, verso Marsiglia, l’Esterel…
E verso quella luce che lui credeva insuperabile che era la luce della Liguria fino ad Arles, Nîmes, che poi si trasforme in luce africana andando giù verso la Spagna.
Ma la mia Liguria è quella di chi non l’ha vissuta. Io me ne sono sempre andato. Ho passato molto tempo in Spagna e Argentina e ora da trent’anni vivo in Olanda. Solo adesso che ho sessant’anni mi sto accorgendo che davvero non sono più di qua, non lo sono mai stato…Ora più che mai sono considerato uno straniero, un furesto, e questo mi dispiace. Possono dire che non ho combinato niente tutta la vita ma dirmi che non sono di qua è davvero come strapparmi quella specie di identità che al di là di tutto è come un tatuaggio, non la puoi cancellare…
Costiera ligure di Ennio Morlotti
Cosa l’ha portata a evadere, ad andarsene dalla Liguria?
Me ne sono andato via di casa da bambino, ho vissuto molto a lungo in collegio. Uno dei temi de L’esilio dei moscerini è il collegio. Da noi chi aveva le terre lontane andava la mattina a lavorare e tornava la sera a casa: ciò significava non poter star dietro ai figli a scuola. Mia sorella era andata in collegio e non si era trovata bene. Per me è stata, quindi, una sorta di sfida. Ricordo che quando sono andato in collegio, al Col di Nava, avevo una nostalgia tremenda. Ma sapevo che mia madre aveva fatto delle spese, aveva persino messo il numero 66 su tutti i capi della biancheria, e allora mi sono fatto forza e non sono più tornato a casa… Sono uscito dal collegio che avevo 15 anni, mi hanno mandato via per eccesso di tempo. Da Nava ero andato a Mondovì e poi a Roma dove avevo fatta tutta la trafila in prima magistrale… Poi laggiù, grazie a Dio, uno di questi frati mi ha detto: «Guarda non sappiamo se tu sarai un buon padre di famiglia ma sicuramente non sarai un buon frate», anche perché ero un ragazzo, la carne bruciava e si erano resi conto che non sarebbe stata quella la mia strada.
Alla fine dopo essere tornato e dopo aver girato tanto in Spagna e Sud America mi è successo qualcosa che era successo a Gabriel García Márquez: quando ha scoperto i racconti di Kafka ha pensato che se quello era scrivere lui di storie del genere ne aveva tante. La stessa cosa è capitata a me: ho cominciato a leggere, però il mio italiano era molto sporco. Fortunatamente ho conosciuto Gian Giacomo Amoretti, un professore dell’Università di Genova, che è stato molto disponibile. Dopo aver letto le mie cose mi disse che avrei dovuto migliorare la lingua, poiché passavo in continuazione dallo spagnolo all’italiano. Ho dovuto quindi ripossedere/riappropriarmi di una lingua che non mi apparteneva più. Probabilmente la mia prima lingua, l’unica lingua che io abbia mia davvero considerato mia, è stato il dialetto. Sono arrivato in prima elementare che non sapevo una parola di italiano, quindi ho dovuto scrivere molto.
Mi ricordo che quando vivevo in Costa Brava ho tradotto i menu per i ristoranti con un argentino col quale dividevo la casa, che era molto furbo come tutti gli argentini, la viveza criolla.
Era il 1982. L’argentino mi aveva detto: «Marino, senti un po’, se noi traduciamo i menù spagnoli in italiano e poi li vendiamo a tutti i ristoranti, tanto sono gli stessi, cliente per cliente possiamo fare dei soldi: 2000/3000 pesetas o mille più pasti». E in effetti abbiamo fatto un pacco di soldi. È stata la mia più grande impresa con la traduzione.
Quindi il suo primo approccio con la traduzione ha riguardato il cibo, tradurre menù, prima di approdare alla traduzione letteraria…
Sì, poi dopo ho iniziato un po’ a tradurre letteratura. Tradurre non è facile… Pian piano mi hanno assegnato una collana. Non ho mai tradotto per grandi editori, ma per piccole case editrici, seppur di buona qualità, come Amos, Pellegrini, Lo Studiolo, Nutrimenti, Miraggi, Del Vecchio, Arkadia, Quodlibet (Compagnia Extra), Exorma…
Com’è arrivato a tradurre Robert Artl?
Attraverso Adrián Bravi, un autore, mio coetaneo, arrivato dall’Argentina circa trent’anni fa, col quale siamo diventati amici. Lui mi faceva da consulente, mi ha passato tra le altre cose il nome di Haroldo Conti, e mi aveva detto che le Acqueforti di Buenos Aires di Robert Arlt non erano state ancora tradotte. Quindi l’ho tradotto per Del Vecchio con Alberto Prunetti, un autore che si occupa di narrativa sociale, del lavoro.
Il primo libro che ha tradotto?
Ho tradotto per una piccola casa editrice di Treviso (Anordest edizioni) La moglie del colonnello di Carlos Alberto Montaner, un cubano, giornalista dissidente, secondo Cuba un membro della CIA.
Prima avevo comunque tradotto molte altre cose, ma magari andavano in rete o si trattava di cose tecniche. Si dice sempre che la traduzione sia una professione solitaria, ma a me piace dividermi il lavoro, l’ho fatto, dicevo, con Riccardo Ferrazzi, Giovanni Agnoloni, Luigi Marfé, Alberto Prunetti, ma ultimamente è successo con Alessandro Gianetti e succederà con Piero Dal Bon.
«Esule su altre rive», così si definisce Calvino in una lettera a Biamonti. Come si sente in Olanda? Si sente in esilio?
No, in Olanda mi sento a casa anche se non frequento nessuno e forse è per questo che ci sto bene… Lavoro e per il resto ciò che faccio è andare nel bosco due ore al giorno o lungo la riva del mare a camminare. Più che sentirmi esule mi sento quasi un disertore, questa è la mia condizione. Anche perché disertore forse lo sono davvero e un po’ quando sono in Italia mi sento un clandestino. Non che sia un problema ma anche l’Olanda stessa non è che sia la mia patria. L’olandese è una lingua incredibile con la quale non riesco però a comunicare. Gli olandesi stessi non ti capisco se non parli perfettamente la loro lingua. Dal punto di vista del linguaggio l’Italia è la mia terra, da quello della creazione artistica è l’Olanda, solo lì riesco a lavorare.
Ho appena terminato un romanzo dove riesco a scindere le due figure, il traduttore in Olanda, il pellegrino/camminatore solitario e malinconico in Liguria.
Come mai ha scelto il Sud America e nello specifico l’Argentina?
Il Sud America è la mia vita con gli argentini in Spagna, vivevo con loro, lavoravo con loro, ho assorbito la loro cultura e sono ancora in contatto con loro. Dopo la parentesi iberica ho vissuto quasi un anno laggiù, nel 1983 – il colpo di coda della dittatura – nella Pampa a Lincoln e poi a Carlos Paz.
E che mi dice della Costa Brava?
Che era una specie di costa di plastica ed io da quelle parti ero un altro animale, un animale notturno, vivevo sempre d’estate e sempre di notte. Sono cose che lasciano i segni e bei ricordi. Era la fine degli anni ’70 quando sono arrivato e me ne sono andato una decina di anni dopo.
In Prima che te lo dicano altri è ricorrente il tema della luce. Nella parte ambientata in Argentina, ad esempio, si parla di una luce diversa: «la luce della pampa ingannava, esplodeva in un istante e spariva lentamente». Nella parte ambientata in Liguria, si può parlare quasi di un’assenza di luce. Mi viene in mente un Racconto di Calvino, Uomo dei gerbidi, dove è messo in risalto il contrasto tra luce e ombra, ma anche la luce biamontiana, una luce quasi creatrice di confini, in contrasto con le masse d’ombra, e i tramonti “color genziana”. Che ruolo ha la luce nei suoi romanzi?
Io vivo nel fondovalle, in un luogo talmente avaro che non ha neanche concesso un tramonto ai suoi abitanti. C’è il giorno e c’è la notte, è un po’ come la frontiera: o sei di qua o sei di là. Lì allora quella luce è soprattutto l’opaco. C’è il contrasto con quei tramonti lunghissimi e bellissimi che io ricordo dell’Argentina e del Mare del Nord d’estate.
Il link all’intervista su Tre Sequenze: https://bit.ly/35Gk5TY
José Luis Cancho è uno scrittore spagnolo che alle sue spalle ha un vissuto intenso. Aveva solo 22 anni quando quattro poliziotti al servizio del regime di Franco lo buttarono giù dalla finestra del commissariato di Valladolid.
Oppositore del franchismo, ha conosciuto la tortura e la galera. Membro di un partito di estrema sinistra con la militanza politica nel cuore negli anni è diventato scrittore. È alla letteratura ha affidato la sua testimonianza di uomo che fa i conti con la sua esperienza. Ha pubblicato quattro libri. Adesso I rifugi della memoria, uscito in Spagna nel 2017, viene pubblicato in Italia da Arkadia. In appena settantacinque pagine siamo davanti a un piccolo gioiello, oserei dire un grande capolavoro. Come Stig Dagerman, Cancho cerca, o almeno ci prova, nella scrittura il suo personale bisogno di consolazione. Affida alla memoria per scrivere il suo autoritratto frammentario: «Il mio proposito è andare in fondo quell’io segreto nel quale neppure a me stesso risulta facile penetrare. In parte perché, alla mia età, credo di averlo perduto». Una passeggiata nella memoria e nei ricordi con l’intento di svelare ciò che nella sua vita è occulto, con il cuore sempre nella realtà. Così José Luis Cancho si è fatto scrittore e attraverso la scrittura è riuscito a riconciliarsi con tutti i mondi che si era lasciato alle spalle, come se la scrittura fosse il punto d’incontro fra tutto ciò che è stato e quello che è oggi. I rifugi della memoria è un libro di poche e sorprendenti pagine in cui il suo autore si attraversa (ricorrendo anche alle parole della poesia), si affida ai ricordi per aprire i cassetti della memoria e mettere nero su bianco con una prosa senza filtri, senza artifici, senza travestimenti, senza retorica per cercare la traccia perduta della sua esistenza, l’orma che si era lasciato alle spalle, il luogo delle origini, la terra primigenia. La scrittura non come vocazione ma come la decisione consapevole di imparare a vivere dentro la finzione della letteratura e soprattutto scavare senza fare sconti nel proprio io che attende sempre di essere rivelato. La memoria è il motivo dei quattro romanzi che Cancho ha pubblicato. «La maggior parte dei miei ricordi li affido alla memoria. Ogni volta che ho cambiato casa mi sono disfatto di ciò che avevo accumulato: lettere, libri, vestiti, mobili…
La povertà è in intimo rapporto con l’oblio. Non esistono oggetti che aiutino a contrastarlo. Mi piace essere inafferrabile. Mi piacerebbe sparire in un paese dove nessuno mi conosce. Di tanto in tanto divento cupo».
Nella brevità di queste poche pagine intense troviamo le intuizioni di uno scrittore autentico che giustamente non sopporta le persone incapaci di esprimersi in modo sintetico e quando parlano non distinguono ciò che è importante da ciò che è secondario.
I rifugi della memoria è un piccolo libro che contiene tutta la grande letteratura. Ci auguriamo anche noi che questo piccolo gioiello riceva l’accoglienza che merita.
Nicola Vacca
Xaimaca como una isla bonita. La letteratura sud americana firmata Arkadia Editore
Xaimaca è il nome di un’isola, un fazzoletto di terra capace di contenere al suo interno un universo. Xaimaca è il titolo di un romanzo che Ricardo Güiraldes ha scritto nel 1923 nel quale amore e disillusione narrano la storia di un viaggio in uno stile ricco e immaginifico. Xaimaca è collana editoriale di Arkadia Editore dedicata agli scrittori di lingua spagnola provenienti da un’America meridionale dotata di grande potenza narrativa.
Nata due anni fa da un’idea di Marino Magliani, romanziere ramingo, autore tra gli altri di Quattro giorni per non morire e Prima che te lo dicano altri (Premio Selezione Bancarella 2019) con la collaborazione di Luigi Marfè, ricercatore universitario e traduttore, la collana propone al pubblico italiano autori sudamericani importanti come César Vallejo, Ricardo Güiraldes, Eugenio Cambaceres. Magliani era alla ricerca di uno spazio editoriale nel quale condividere letture accumulate durante i suoi vagabondaggi spagnoli e sudamericani e Arkadia è stata la casa editrice giusta ricettrice di questa proposta. Comincia così la pubblicazione di testi che si caratterizzano per una certa agilità narrativa, raramente si superano le cento pagine, e per la presentazione di un mondo, quello della metà del secolo scorso, che pare non esistere più. Un continente che ha dato vita al realismo magico, a opere di straordinaria importanza nella letteratura mondiale.
Abbiamo chiesto ai curatori cosa troviamo una volta giunti sull’isola di Xaimaca, e tra i nomi più riconoscibili e quelli meno noti rintracciamo il motivo che accende l’avida curiosità di noi lettori. “Nel microcosmo di Xaimaca, si possono incontrare assaggi di autori molto noti, come ad esempio César Vallejo, poeta peruviano, autore anche di prose meravigliose, che abbiamo raccolto in Guerra verticale (1944). Altri nomi, come Enrique González Tuñon, di cui abbiamo pubblicato Letti da un soldo (1903) potrebbero a prima vista suonare nuovi al pubblico italiano, ma si riveleranno subito indimenticabili per chi li vorrà scoprire.”
Un’occhiata alle prossime uscite.
Ernesto Herrera, scrittore uruguaiano vissuto tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 pubblicò nel 1910 una raccolta di racconti nella quale i suoi personaggi picareschi vivevano ai margini della società: poeti, prostitute, derelitti dalle vite inquiete in quotidianità fatte di linguaggio crudo e azioni brutali. Con un titolo potentissimo, Sua maestà la fame l’autore viene riproposto 110 anni dopo, con tutte le caratteristiche narrative di un racconto intatto che funziona perché pone l’uomo in quella lotta, spregiudicata e visionaria, per soddisfare l’istinto ancestrale per antonomasia: el hambre, la fame appunto. La povertà e il sentimento, la rabbia e l’idealismo convivono in questi racconti senza tempo.
Molti saranno anche gli autori che approderanno sulle rive di Xaimaca e della costola “Xaimaca-Jarama”, che ospita i testi di autori viventi come Laura Freixas (nata a Barcellona nel 1958), Gli altri sono più felici, Fernando Velazquez Medina (nato a L’Avana nel 1951), Caribe, José Luis Cancho (Valladolid 1952), I rifugi della memoria.
Laura Freixas era già approdata lo scorso anno in Italia in occasione del Salone del Libro di Torino, quando il filo conduttore era la lingua spagnola e il gioco della Rayuela dell’argentino Julio Cortázar aveva segnato la sua cornice meravigliosa.
Fernando Velazquez Medina, con la sua Última rumba en La Habana, è considerato come il poeta simbolo del realismo sporco cubano. In questa opera, a mezzo di una protagonista appena uscita dal carcere l’autore crea un gioco di flashback grazie ad un misto di linguaggio crudo, citazioni colte e osceni doppi sensi. Anche Caribe non ci deluderà, ne siamo certi.
Quello di Cancho è una opera autobiografica che si è aggiudicata il Premio de la Crítica de Castilla y León nel 2018. Attesissima anche questa.
Non vediamo l’ora di scoprire tutti questi autori, nuovi e meno nuovi. E voi?
¡Preparados, listos, ya!
Angela Vecchione
Sin rumbo. La vita senza rotta di un uomo solo
Sin Rumbo, senza rotta, è il titolo di questo libro di Eugenio Cambaceres, pubblicato dalla sempre attenta Arkadia nella collana Xaimaca, dedicata alla letteratura sud americana. E senza rotta ci appare davvero la vita di Andrés, protagonista di queste pagine di Cambaceres in cui, a tratti, ci sembra di ritrovare tracce della vita dello scrittore stesso. Nato a Buenos Aires nel 1843 unì a lungo scrittura e vita politica, nel cui agone si trovò come deputato e come vicepresidente del Club del Progreso. Come il protagonista di questo Sin rumbo, Cambaceres ebbe una relazione con una cantante lirica, motivo di grande scandalo a cui si aggiunse la mancata sfida a duello con il di lei marito, che poi, decise di scappare in Europa.
Europa che vide anche lo scrittore, a Parigi esattamente, soggiornare lungamente e qui far suo l’amore per la letteratura francese, in particolare Zola, al cui naturalismo dedicò studio e ammirazione tanto da introdurlo in Argentina insieme a quegli scrittori con cui diede vita a quella che fu chiamata Generaciòn del ochenta.
In queste pagine seguiamo la vita e legesta di Andrés, ricco possidente, che vive in una meravigliosa estancia nella pampa argentina, non molto lontano da Buenos Aires. Qui la sua hacienda agricola gli garantisce ricchezza e benessere e un’esistenza fatta di viaggi, di donne, di gioco. Eppure. Eppure, novello erede dell’insoddisfazione shopenhaueriana, Andrés annega nella noia, in quella mancanza di senso, e di rotta, appunto, che lo conduce in quel limbo fatto di irrequietezza e rabbia. Verso sé stesso e gli altri. Il sentimento della solitudine non lo abbandona mai, soprattutto quando essa viene riempita da cose che non gli offrono appiglio alcuno.
Con la stessa pesante leggerezza con cui affronta i suoi giorni, Andrès affronterà la notizia che Donata, figlia di uno dei suoi braccianti, aspetta un figlio da lui. Indifferente tanto quanto insofferente parte per Buenos Aires, lasciando la donna e lo stesso desiderio animalesco per lei provato fino a poco prima. È questo solo uno dei repentini cambiamenti che nell’animo di Andrés sono la rappresentazione della sua insoddisfazione, del suo rifiuto di pensare e di soffermarsi su cose e persone che, per lui, altro non sono che momentanee tappe verso il nulla. A Buenos Aires comincia il consueto girotondo tra donne, scandali mondani, gioco d’azzardo, fugaci seduzioni. Fino a quando, con la subitaneità apparente che hanno le cose che, in realtà stanno scavando un solco da molto tempo, Andrés capisce che non è quella la vita che vuole. Ancora l’inquietudine lo guida anche se, questa volta, sembra guidarlo verso un ritorno che vorrebbe essere una nuova partenza. Andrès vuole conoscere suo figlio che, scoprirà essere una bella bambina, rimasta orfana della madre, morta pochi giorni dopo il parto. Ma il destino sembra avere in serbo per lui ben altro. Una sorta di maledizione, una impossibilità di trovare quiete.
Cambaceres ci regala un libro pregno di quelle atmosfere sudamericane in cui la realtà è talmente complessa da poter benissimo assumere i connotati della magia, anche quella nera, quella plumbea di un destino che sembra non trovare pace, condannato a pagare colpe che, in fondo, colpe non sono ma, semmai, umane debolezze.
In questo Sin Rumbo, Cambaceres ci consegna pagine in cui lo stesso stile accompagna e si distende sulle diversi parti di cui il libro si compone. Se, nella prima, un’attenzione quasi chirurgica ci immerge nella pampa, esso scivola poi nella languidezza e quasi decadenza della vita nella rutilante Buenos Aires e nei suoi amori carnali e fugaci. Ma poi, nella seconda parte, quella del ritorno e della disperata ricerca di un senso, lo stile diviene quasi una slavinante disperazione, una violenta, e tenera al contempo, entrata nel mondo della responsabilità di padre con la conseguente entrata in scena, nella vita di Andrès, della paura per il futuro. Solo allora si accorge, Andrès, che il futuro è un’ipotesi, un orizzonte degli eventi con cui fare i conti. Anche quando arriva troppo presto. Dando così ragione a Shopenhauer, ricordato nel libro, quando scrive: “Ci accorgiamo del tempo solo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. La nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo.” E per Andrès il tempo sarà la scoperta del dolore.
Cambaceres ci regala un personaggio che è figura dell’uomo solo e inquieto, così presente in molta letteratura del secolo successivo. Portatore di una domanda che è quella che porta a chiedersi se la felicità sia possibile anche solo per attimi fugaci.
Geraldine Meyer
Era il più piccolo di undici fratelli, meticcio, la mamma era india ed è stato il più grande poeta e scrittore peruviano ed uno dei più importanti del Sud America, secondo solo a Dante a parere di Thomas Merton. Parliamo di Cesar Abraham Vallejo Mendoza, che conosciamo in Italia per un recente agile volume che offre un esempio articolato del suo contributo alla letteratura internazionale. L’inedita pubblicazione in Italia è merito della casa editrice cagliaritana Arkadia. A fine 2018 è andato in stampa e nelle librerie “Guerra verticale e altri racconti” (126 pagine, 14 euro), che raccoglie due testi: un romanzo breve, “Verso il regno degli Sciri” e una raccolta di racconti, “Scale”.
Tra i due, il testo narrativo più ampio, sebbene incompiuto, è quello che avvicina di più i lettori a Vallejo, i racconti infatti sono disomogenei per natura e si prestano meno ad offrire un valido biglietto da visita dell’autore andino.
Inquadriamo intanto questo protagonista della cultura mondiale, che ha lasciato una traccia della sua presenza nel Novecento europeo, durante il soggiorno in Spagna e in Francia, con una parentesi anche in Russia. Era comunista e la fede politica gli creò problemi col governo francese. Fu ben accetto invece dalle Sinistre spagnole e a Madrid affiancò Pablo Neruda nella redazione di una rivista antifascista, ma la sua permanenza in terra iberica ebbe bruscamente termine per l’esito infausto della guerra civile. Con la vittoria dei nazionalisti di Franco, riparò in Francia, dove morì prematuramente nel 1938, in totale povertà.
Cesar era nato a Santiago de Cucho nel 1892, sulle Ande. La madre, Maria Rosa, era di etnia india, come le nonne, il padre faceva il conciliatore di liti giudiziarie. Da ultimo nato, era destinato al sacerdozio, ma il ragazzo preferì il laicato. Studiò lettere e riuscì a laurearsi nel 1915, dopo avere alternato gli studi al lavoro, per mantenersi. Nelle piantagioni di zucchero, poté così constatare il cinico sfruttamento della mano d’opera indigena da parte di proprietari terrieri e manutengoli. Sovversivo e per un altro verso bohemienne, per il sodalizio stretto con altri giovani letterati, si trasferì a Lima e intraprese l’insegnamento. Contemporaneamente, si dedicò alla scrittura, in versi.
Cinque anni dopo, la nostalgia lo riportò a casa. A contatto di nuovo con le vessazioni subite dagli indios, manifestò atteggiamenti che misero in guardia le autorità. Un processo farsa, con l’accusa infondata di avere appiccato un incendio doloso, lo costrinse a mesi di carcere. Una condizione kafkiana, fa notare il curatore di questa prima edizione italiana, Luigi Marfè.
Guerra verticale, spiega, è un’espressione che mette in risalto come un conflitto, ancora prima di scatenarsi, sia già divampato nella mente di chi lo ha provocato o non efficacemente contrastato.
“Hacia el reino de los Scires” è stato un progetto avviato all’incirca nel 1924 e in realtà mai condotto a termine. Ebbe una gestazione travagliata questa sua riflessione storica sulle campagne di conquista condotte dal decimo re inca, Tupac Yupanqui, poco prima dell’arrivo dei conquistadores in Perù.
Il romanzo non è lungo ed è stato redatto a strappi, tra il 1924 e il 1928, in uno spagnolo che risente notevolmente degli echi della lingua andina. Ne autorizzò la pubblicazione solo in parte nel 1931. È uscito postumo nel 1944.
Nel passato inca, Vallejo vede le radici del popolo peruviano. Tupac vive una realtà prettamente incaica, ma la sua sensibilità politica sembra molto moderna. Comprende che la guerra è distruzione e che le responsabilità ricadono su chi l’abbia determinata.
I suoi guerrieri rientrano in Cuzco taciturni. Li guida il principe ereditario Huayna Capac, messo ancora adolescente alla testa di una spedizione di conquista, con l’obiettivo di occupare territori e soggiogare popolazioni. Una parte delle operazioni ha riscosso successo, una città ha spalancato le porte, tra lo spavento per l’ardore degli attaccanti e la corruzione degli anziani con elargizioni segrete, ma non c’è stato verso invece di piegare i fieri Chachapoya. Le perdite e il gelo sono risultate insopportabili. Da qui la ritirata a Cuzco.
L’inca è contrariato, ma non manca di considerare che quanto accaduto sia la volontà degli dei. Se non quella, è comunque la sua: il principe è stato sconfitto, i sacrifici vani, è tempo di rinunciare a combattere.
Basta conquiste, ci si dedichi alle fatiche della pace.
Questo vede Tupac ed è sincero quando dichiara di voler mettere fine alle guerre. Ma altri presagi e qualche catastrofe gli faranno cambiare opinione: l’esercito del Sole riprenderà la marcia verso la Cordigliera, pronto a mietere altre vite.
Nelle prime pagine dei primi racconti di “Scale”, riuniti nel capitolo “Cuneiformi”, lo scrittore rivede la vita in prigione, il rapporto con gli altri reclusi. Ogni brano prende il titolo da un muro del carcere. La presenza delle sbarre che bloccano la finestra della cella diventa un muro ulteriore, che delimita un micro universo claustrofobico.
“Coro di venti”, la seconda raccolta di racconti – altro capitolo della sezione “Scale”, spazia a sua volta su temi diversi uno dall’altro, decisamente meno omogenei.
Felice Laudadio
Strano destino quello di César Vallejo: enormi difficoltà per farsi riconoscere in vita, quando pubblicò solo un centinaio di poesie, poi una fama in rapida ascesa, già avviata con i postumi Poemas Humanos e via via sempre più larga. Non fu tanto l’incomprensione dei contemporanei a causarne la sorte, quanto il sistematico sperimentalismo della sua scrittura, i libri concepiti come laboratori sempre aperti, la lingua sottoposta a tensioni estreme, come in Trilce (del 1922), il libro più radicale della poesia del Novecento in lingua spagnola.
Anche la prosa mostra una serie di tentativi nelle direzioni più diverse, sospesi tra la ricerca di un’estetica soggettiva e l’inseguimento di un’estetica rivoluzionaria, entrambe sorrette da un grande rigore etico. Se si includono i libri di viaggi e le cronache, la produzione in prosa di Vallejo occupa forse anche più pagine di quella poetica, ma le traduzioni e gli studi critici l’hanno lasciata molto più in ombra, nonostante la sua rilevanza: lo dimostrano i due testi proposti nel volume della coraggiosa editrice sarda Arkadia, Guerra verticale (a cura di Luigi Marfé, pp.126, € 14,00), due esperimenti paralleli, sfide diverse ma non del tutto separate.
Il primo è un breve romanzo storico – quasi un abbozzo – sul quale Vallejo tornò più volte, senza concluderlo, e in cui racconta l’epoca di Tupac Yupanqui, monarca inca del Peru prima della Conquista. Scelto il tema, l’autore si chiede se sia possibile raccontare il mondo incaico prima dell’arrivo degli spagnoli, quando le uniche fonti disponibili sono quelle dei conquistatori o degli storici meticci tardivi; ma la domanda successiva sarà se davvero sia possibile colmare la distanza culturale che divide gli eredi andini dei popoli originari dai bianchi e dai meticci del Peru. In quegli anni si ponevano la stessa domanda José Carlos Mariátegui, José María Arguedas, Gamaliel Churata, senza trovare una risposta definitiva. Vallejo si cimenta dunque in una narrazione piena di parole in quechua, lunghe liste iterative alternate a descrizioni liriche, imita antichi modi narrativi, ma lascia l’impresa a metà per consegnarci un racconto che proprio in questa sfida al- la storia conserva il suo fascino.
Il secondo testo si gioca, invece, tutto sulle note dell’avanguardia narrativa: composto nello stesso periodo di Trilce, presenta non poche convergenze con quel libro fondamentale. Il titolo, Scale, nella prima edizione era seguito dall’aggettivo melografiadas, che ne rivelava la natura di esperimento musical-narrativo. L’incontro tra le due forme d’arte, vecchio sogno ottocentesco, si realizza qui grazie a un lavoro sulla lingua di grande complessità e il titolo sembra proporre uno spazio di incontro intorno alla materia della scrittura, in cui l’allusione al linguaggio musicale fornisce la simultaneità che articola l’esperienza del soggetto narrante su piani alternativi a quelli meramente lineari.
Come le scale musicali, i testi presentano una notevole graduazione dei toni e cercano di captare sulla carta tutte le sfumature di uno strumento, per riprodurne le più diverse espressività. Sono testi che appartengono, dunque, alla frontiera tra i generi letterari, esplorata non solo con gli esperimenti formali delle avanguardie, ma anche grazie alle trasformazioni del genere fantastico, dagli inizi dell’Ottocento fino agli anni in cui scrive Vallejo.
Due le parti, apparentemente non collegate: la prima, intitolata Cuneiformi, è una successione di quadri statici in cui l’io narrante intende trasmettere la sua esperienza del carcere, cercando di renderla più oggettiva possibile: marcato dalle «quattro pareti della cella», prova a trasformarla in uno spazio che oscilla tra le espansioni e le contrazioni dell’Io.
I sei racconti della seconda sezione hanno invece una architettura narrativa più lineare, dove l’Io narrante si presenta alternativamente come testimone e come protagonista, mentre la scissione dell’Io si accorda a volte al registro fantastico, altre volte evoca personalità malate o segnate dalla follia. Il mondo di queste pagine appare, allora, come un teatro di marionette senza più un centro ordinatore, in cui dominano i temi della visione, del doppio e della follia: vi si racconta l’incontro allucinato con la madre morta, la disavventura di un uomo che crede di amare una donna, (ma poi risulterà che le donne sono due) il timore paranoico di un carcerato di morire avvelenato, la triste storia di un platonico innamorato, morto fulminato dopo aver baciato l’amata per una sola volta, l’ossessione zoomorfica degli abitanti di Cayna che si trasformano in scimmie, e al termine, l’alienazione ludopatica del cinese protagonista dell’ultimo straordinario racconto, che si gioca la vita in una partita a dadi dove la coppia d’assi con cui dovrebbe vincere segna però anche la sua con- danna a morte, in un finale in crescendo che il Vallejo poeta aveva già prefigurato nei «dadi eterni» di uno dei suoi memorabili poemi giovanili.
Stefano Tedeschi
La locanda dei perdenti nella Baires degli anni ‘30
Amico di Roberto Arlt, aderente anch’egli al gruppo letterario Boedo – che nell’Argentina degli anni Venti si contrapponeva, ma sempre nella reciproca stima, al Florida guidato da Borges, a sostegno di una letteratura sociale anziché fantastica – Enrique González Tuñón è prepotentemente schierato dalla parte degli emarginati, dei perdenti, ne segue la vita nella sua attività di giornalista, ne canta le gesta nei racconti. Ad esempio questi, raccolti in Letti da un soldo (Arkadia, traduzione di Ferrazzi e Magliani) e superbamente aperti dal suo testo forse più emblematico, “I cinque”. Lo scrittore argentino descrive la lotta per la sopravvivenza di cinque scansafatiche che vivono alla giornata, cinque “cialtroni”, come li definisce Adrián N. Bravi nella prefazione, che si muovono nei bassifondi della città e si compiacciono della propria condizione di emarginati, contrabbandieri, papponi. González Tuñón è un maestro della giusta distanza, conosce perfettamente la tragicomica realtà nella quale vivono i suoi personaggi, non cede mai al pietismo o alla condanna. La sua prosa è secca, tirata come una di quelle vite miserabili. I “cinque” hanno tutti un passato, ma non vedono un futuro. La sera rientrano in una locanda-bettola, “La pignatta misteriosa”, gestita da un tizio uguale a loro, soltanto che sta dall’altra parte del banco, un uomo senza capelli che vende il diritto a un lenzuolo sciupato nel suo “ospedale di casi disperati” dove il dilemma principale è se credere o non credere in Dio.
(r. d. g.)
Con Tuñón una mappa narrativa di Buenos Aires
Tornano i racconti di Enrique González Tuñón (1901-1943). Torna il mondo di un artista che amava la sua città quanto la scrittura, e che disse: “quando morirò non piantate un salice, piantate una macchina da scrivere”. Letti da un soldo, uscito nel 1932 con il titolo Camas desde un peso e ora proposto da Arkadia, è una raccolta di racconti che narra di amici perdenti, e della città che morde e annienta. Enrique González Tuñón (1901-1943) gioca a confondere i confini tra realtà e finzione, tragico e comico, rappresentando l’angoscia del vivere e la sua stranezza. Letti da un soldo, la sua opera più riuscita, propone una mappa narrativa di Buenos Aires, in cui la città reale si sovrappone a quella immaginaria, come nell’opera del suo amico Robert Arlt, o in altri grandi scrittori argentini: Jorge Luis Borges, Oliverio Girondo, Roberto Mariani, Raúl Scalabrini Ortiz. I personaggi di Tuñón sono disperati, innamorati, ubriachi, affamati, sognatori: malinconici scheletri del passato, dietro un vetro da museo, che aspettano la visita di qualcuno. Questa edizione italiana comprende anche una scelta degli altri racconti di Tuñón, appartenenti a El alma de las cosas inanimadas (1927) e La rueda del mulino mal pintado (1928). Sono i racconti dell’assurdo, per così dire lunatici, di un narratore che appare nei racconti dicendo di possedere “uno sguardo a raggi x”, incline a “vedere sempre lo stesso malinconico paesaggio di anime” e ad “affrontare la vita da un punto di vista grottesco”, col sorriso di un pazzo docile (“un loco dócil”). Il mondo di Tuñón è il mondo di un artista che amava la sua città quanto la scrittura, e che disse: quando morirò non piantate un salice, piantate una macchina da scrivere.