Nato a Pamplona nel 1979, laureato in Comunicazione Audiovisiva presso l’Università di Navarra, ha conseguito un Master in Giornalismo e un diploma universitario in Letteratura e Comunicazione presso la Complutense di Madrid. Collabora con diversi supplementi culturali come giornalista e critico letterario e ha intervistato scrittori e artisti come Herta Müller, Eduardo Arroyo, Belén Gopegui e Pablo d’Ors. Insegna scrittura creativa a El Tayer e dirige “Coverture”, un’agenzia di contenuti. Vive a Madrid dal 2005. Tra i suoi libri Cartoline di un naufrago digitale (2008), Luce di novembre, di sera (2011), L’Avana (2009), cronaca di viaggi durante il regime castrista, La tavola (2015), romanzo sulle avventure di un marinaio, Diari (2015-2016) e Barojiano e tutto il contrario (2018), oltre a una delle migliori biografie di Franco Battiato pubblicate in Spagna, En presencia de Battiato (2021). Con Arkadia Editore è uscito Tempo ordinario (2024), tradotto da Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi.
“Il mondo è più stupido che tondo” (Guillermo Fadanelli, Hotel DF, Arkadia).
La sorte italiana di certi scrittori è un po’ come quella di certi cantanti, specie quando sono di lingua spagnola e provengono dal Sud America: non sfondare il confine, non riuscire ad aprirsi un varco, per quanto famosi possano essere nella propria terra. È il caso, per esempio di Guillermo Fadanelli, messicano, che da noi arrivò sulla scialuppa della Tropea Edizioni, miseramente naufragata frattanto, e con due bei testi quali Fango e L’Altra faccia di Rock Hudson, in ciò dimostrando che nel Belpaese non basta avere talento, bisogna pure conquistarsi i favori dei nostri connazionali – e nessuno ha mai capito la ricetta per riuscirci. Questa volta, a prendersi la briga di provarci, sperando per loro in miglior fortuna, è la cagliaritana Arkadia che ha appena fatto arrivare sugli scaffali Hotel DF, un testo di poco più di 200 pagine fitte come una sparatoria in un vicolo cieco e dense come una pietanza straniera di quelle che, poi, fanno lavorare alacremente stomaco e intestini. La trama, è presto detto, ruota intorno ad un Hotel, in quel di Città del Messico e racchiude al suo interno tante storie minime di persone dei più disparati tipi, dal giornalista o artista mancato, che dir si voglia, al venditore di torrone, passando per criminali e puttane. Nelle parole dell’autore “Anche gli uomini grigi meritano di raccontare la propria storia e se nelle loro vite non ci trovate nulla di attraente o eccitante, forse è perché sono buoni, e la bontà non vale niente ai giorni nostri. Possiamo interrogarci sulle ragioni della loro opacità: perché questi uomini non attirano l’attenzione se occupano uno spazio che nessun altro potrebbe occupare senza infrangere le leggi della fisica?”. Naturalmente, il grande protagonista, entro la cui carcassa si svolge tutta la vicenda, misteriosa come i processi di un organismo, è la metropoli, Città del Messico, “un paradiso romantico, un campo di cadaveri felici”, in cui “il verbo più usato dopo ‘rubare’ è ‘dimenticare’”.
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La strategia narrativa è quella dell’intreccio di destini a cui, per esempio a livello cinematografico, ci aveva ben abituato con la sua maestria Alejandro González Iñárritu, l’autore di capolavori come Amores perros (2000) e 21 grammi (2003). Fadanelli aggiunge a tutto ciò la sua profondità da guascone, quella di chi non ha bisogno di prendere la vita sul serio per dire il dramma dell’esistenza umana (“Che piacere ascoltare dei vecchi che inveiscono contro qualsiasi cosa, le loro lamentele sono legittime. Perché li costringono a partire di cattivo umore verso l’aldilà? L’inferno è pieno di uomini amareggiati, non di uomini cattivi”). I suoi personaggi, autoctoni o cosmopoliticamente vari, sono infatti tutti dannati che danzano tra le fiamme con passo leggero (“Si considera un uomo morto a cui restano ancora troppi anni da vivere”), umani, senza mai scadere nella maschera tragica (“Come ogni uomo che respira, porta in tasca qualche speranza”). La migliore descrizione di tale variegata galleria ce la fornisce proprio lui: “Quante facce importanti su un marciapiede pieno di miserabili!”. La prosa è bella soda come gambe di donna scattanti, abituate a salire scale sui tacchi. C’è sempre un punto in ogni pagina che emerge alla vista, che ti si pianta nell’occhio come uno spillo, che chiama alla necessità di ricorrere all’evidenziatore (“Ascolta ragazzo, alla tua età devi concentrarti sul non venire, ma se ti sposi, dopo cinque anni dovrai concentrarti sul fartelo drizzare per cinque minuti. Non dirmi che non ti ho avvertito”). Un romanzo si diceva di variegata umanità, di donne e di uomini, entrambi interessanti. A proposito delle prime, non si può certo dire che l’autore non sappia far venire a galla la sensualità di ognuna (“Gloria Manson e il suo sorriso apparentemente ingenuo avrebbero indotto qualsiasi uomo, primate o mammifero, a pensare a un letto”). Sia lodato il cielo, a ogni modo, non si tratta di un libro costruito intorno a un femminismo spicciolo dei buoni sentimenti oggi tanto in voga. Ogni personaggio, a prescindere dal genere di appartenenza, e dall’orientamento sessuale, non si fa mancare la sua dose di miseria quando serve (“opporre una certa resistenza è il primo dovere di una donna arrapata”).
Hotel DF è assolutamente da leggere, bisogna soggiornare nelle sue stanze a buon mercato, seguire il fitto andirivieni delle camere, sbirciare attraverso i buchi delle serrature. Speriamo che questa volta il pubblico italiano si faccia tentare da questo viaggio transoceanico. Poco ma sicuro, se vi avventurerete, non vi verrà nostalgia di casa.
Matteo Fais
Il link alla recensione su Il Detonatore: https://bitly.ws/3dtgb
Due settimane sull’onda della nuova narrativa, ma anche della saggistica e dei memoriali. Libro #copertina a Michel Vieuchange autore di “Smara. Taccuini di viaggio” (Edizioni Settecolori): a quasi novant’anni dalla prematura morte si narra l’alternativa vita dell’esploratore francese tra deserti e voli pindarici. La controcopertina invece è per l’ecologista Stefano Apuzzo, autore di “Eco guerrieri. Storie di battaglie ecologiste” (Mursia). Gli altri titoli che consigliamo, per le prossime due settimane, sono tutti di editori indipendenti, quali Bibliotheka, Töpffer, Il Saggiatore, Gruppo Santinelli Poetica, Fides, Mursia, Arkadia, Fanucci, Graphe.it e Les Flaneurs Edizioni che chiude col capolavoro dedicato ai Guns N’Roses. Da non dimenticare il flashback del 9 febbraio dell’etneo di adozione laziale Francesco Randazzo con un volume encomio a Goffredo Mameli, uscito per Graphofeel.
Buona scelta e buona lettura. Arrivederci al 27 febbraio.
Già in libreria
Francesco Randazzo, Freme la vita. I sogni di Goffredo Mameli, Graphofeel
“Quel ragazzo è un simbolo!” gridò uno mentre lo portavano via. “Salvate almeno lui, se non per questa Repubblica sotto assedio e quasi vinta, per la Repubblica che verrà!”. La biografia romanzata di Goffredo Mameli, patriota e scrittore, ragazzo entusiasta e pieno di gioia di vivere, morto a soli ventuno anni durante la difesa della Repubblica romana. Vissuto tra Genova, Milano e Roma, fu una vera star del Risorgimento, ed ebbe grande influenza nella cultura del suo tempo. Amico di Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini, amato dalle donne e venerato dagli amici è l’autore del testo dell’attuale Inno d’Italia che fu musicato da Michele Novaro.
Le uscite di martedì 13 febbraio
Nicolino Sapio e Valerio Evangelista, KM 21. Dove le ciliegie tacevano, Töpffer edizioni
La genesi di questo libro affonda le sue radici in una notte intorno agli anni duemila, dopo la visione di un documentario trasmesso in tv: l’immagine di un camion militare serbo, carico di prigionieri bosniaci, e di un adolescente terrorizzato hanno acceso il desiderio di svelare quella storia. Una ricerca durata anni, in un intricato labirinto di indizi frammentari e testimonianze lacunose. Con i pochi dettagli identificati sono stati ricavati alcuni punti fermi, tentando così di seguire le orme del camion attraverso i villaggi della Bosnia nordoccidentale; ed ecco così le voci di coloro che hanno vissuto sulla propria pelle gli orrori dei campi di concentramento e delle pulizie etniche. Insieme a loro, si è cercato di ricomporre i frammenti di un puzzle complesso e straziante. E lentamente, con tenacia e dedizione, sono affiorati i contorni di questa storia, accaduta nell’estate del 1992 nelle comunità rurali attorno a Prijedor. Al protagonista è stato dato il nome di Adem, variante turco-araba e balcanica dell’uomo primordiale di tradizione biblica. Le testimonianze rielaborate in queste pagine sono un timido, ma dovuto, tentativo di restituire una goccia di memoria alle storie che ancora rimangono senza nome né volto, soppresse dalla follia suprematista resa possibile dall’indifferenza.
Le uscite di mercoledì 14 febbraio
Libro copertina, Smara. Taccuini di viaggio di Michel Vieuchange, Edizioni Settecolori
«Smara: un terrificante pellegrinaggio nel regno del Nessun luogo! – lo ha definito lo scrittore inglese Paul Bowles, l’autore di “Il tè nel deserto” -. Per quanto abbia letto ormai mezzo secolo fa il diario di viaggio intitolato a quel nome, ricordo ancora perfettamente ogni terribile momento di quella partita a scacchi che ha luogo fra Michel Vieuchange e il suo destino»
Notti passate nella profondità del deserto, accampamenti spazzati via dal vento, oasi, incontri inquietanti intorno a un fuoco di sterpaglie, la scoperta piena di meraviglia della città proibita… Ma anche, la sete bruciante, le ferite lente a cicatrizzarsi, la dissenteria che sfianca i corpi, le minacce dei predoni e dei cattivi compagni di strada, gli uni e gli altri pronti a sgozzare o a vendere l’inerme viaggiatore…
E infine, la spossatezza estrema, la malattia, la morte. Mai il deserto è stato descritto e celebrato con una simile asprezza, una simile violenza e così tanta poesia. Che questo racconto meteorico, salutato al tempo della sua uscita, il 1932, da Paul Claudel, Louis Massignon, Emile Bienveniste, sia rimasto a lungo dimenticato in Francia, e in Italia del tutto sconosciuto, ha qualcosa di misterioso. Arthur Rimbaud aveva dunque un fratello: Michel Vieuchange!
L’autore
All’età di vent’anni, Vieuchange si laureò in letteratura e scrisse il suo primo romanzo, “Hipparète”, che rimase inedito, nel quale espose il suo fascino per la cultura e la storia dell’antica Grecia. Fu fortemente influenzato dalle letture di Antoine de Saint-Exupéry, André Gide e Paul Claudel e sviluppò una passione per il cinema. Senza essere sicuro della posizione esatta di Smara e con conoscenze limitate dell’arabo e del berbero, Vieuchange partì il 10 settembre 1930, vestito da donna berbera. Attraverso forti difficoltà raggiunse il suo obiettivo e tornò alla civiltà il 16 novembre nella città marocchina di Tiznit, situata a quasi 400 km da Smara. Vieuchange morì pochi giorni dopo, a causa di una dissenteria.
Le uscite di venerdì 16 febbraio
Anna Macrì, Gli amori malvagi. Dieci storie di ordinaria violenza, Bibliotheka
«Se lo lasciassi sarei persa, non so fare altro che la bestia da soma di un uomo. Non so che cucinare, rassettare, stirare, rammendare e aprire le gambe quando vuole»
Gli amori malvagi. Dieci storie di ordinaria violenza dell’attrice calabrese Anna Macrì, in libreria il 16 febbraio per le edizioni Bibliotheka (96 pagine, 16 euro, edizione ebook a 4,99) è il risultato di una ricerca sul campo durata tre anni in vari centri antiviolenza. Il libro raccoglie dieci testimonianze (sulle oltre cento ascoltate) di donne violate da fidanzati, mariti, presunti amici. Le protagoniste si raccontano con onestà e crudezza, dopo percorsi spesso segnati da rassegnazione, istinto protettivo nei confronti dei figli, denuncia dei carnefici, sensi di colpa, timore del giudizio altrui e depressione. Cristallizzato in un istante infinito di dolore, il racconto della violenza subita punta il dito sull’incapacità manifestata da molti uomini, e spesso in situazioni considerate normali e ordinarie, di costruire con le loro compagne rapporti maturi e di reciproco rispetto. «L’ho scritto a mano, sotto gli ulivi della mia campagna o in riva al mare», spiega l’autrice. «E di notte, nel silenzio del mio studio, con la musica come compagna».
Clelia Marchi, Gnanca na busia. Il romanzo di una vita scritta su un lenzuolo, Il Saggiatore
“Gnanca na busia” è il racconto dell’esistenza, semplice eppure straordinaria, della contadina mantovana Clelia Marchi, che decise di cucire i ricordi di settant’anni di vita su un lenzuolo. La testimonianza unica di un mondo rurale oggi così remoto e incomprensibile, racchiuso nelle parole della più umile dei suoi esponenti. «Care persone fatene tesoro di questo lenzuolo che c’è un po’ della vita mia.» Così si apre la storia narrata da Clelia Marchi, sette decadi, molte fatiche, un solo grande amore. Una storia che la donna inizia a scrivere dopo la morte del marito, prima su quaderni e fogliacci e quindi con l’ago e il filo su un lenzuolo bianco del corredo, per poi donarlo all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano perché ne trattenga e tramandi la memoria. Una storia fatta di miseria e guerra, di polenta e lavoro nei campi, di muri crivellati da proiettili e paura del nemico e del padrone, ma anche di amore: per gli otto figli, quattro cresciuti e quattro perduti, e soprattutto per un ragazzo dagli occhi azzurri, conosciuto a quattordici anni e sposato a diciotto. Una storia di piccole cose e grandi avvenimenti, di grandi passioni e insuperabili lutti, narrata tutta di fila lungo 185 righe numerate attorno a un solo imperativo: gnanca na busia, non dire mai nemmeno una menzogna. Arricchito dalla postfa-zione di Vinicio Capossela, questo libro è diventato negli anni un classico contemporaneo: un racconto di sé che si fa terapia e, insieme, racconto di un’epoca. Traccia scritta del desiderio di ognuno di noi di essere letti, infine, nella nostra essenza più sincera.
Allan Bay, Elogio del mangiare con le mani, Il Saggiatore
Elogio del mangiare con le mani è un invito aperto a tutti ad assaporare l’esistenza in modo più leggero e intimistico: ad accarezzarla e maneggiarla, toccarla e soppesarla, invece che masticarla frettolosamente. Molti anni fa, quando eravamo semplici bipedi e cercavamo di sopravvivere tra bestie inferocite e intemperie, noi umani godevamo di un grande privilegio: quello di riunirci intorno a un fuoco per mangiare quel poco che avevamo con le mani. Era una necessità, ma anche un modo per affrontare la realtà in modo diret- to e allo stesso tempo poetico. Oggi, quell’antica gestualità sopravvive, minacciata tuttavia dall’avanzare delle lucenti forchette. Come gazze ladre, negli ultimi secoli ci siamo lasciati sedurre da quel che brilla, e abbiamo così sacrificato la bellezza del leccarci le dita in virtù del comandamento più brutale: «Non sporcarti».
In queste pagine Allan Bay decide allora di celebrare questa usanza «antica e bella» indagandone il passato, il presente e il futuro con giocosità e charme, sempre convinto che ogni indagine gastronomica finisca per mescolarsi alla biografia; dietro ogni fetta di pizza margherita o ogni spiedino ricoperto di fonduta mongola si annida infatti spesso il racconto di un’amicizia, un incontro d’amore o la memoria di un viaggio. Questo libro è un viaggio storico e antropologico, un racconto fotografico e molto altro: un’opera che ci permette di riscoprire il piacere di trasgredire, di sporcarci, di dire sì alla vita.
Le uscite di lunedì 19 febbraio
A cura di Eliselle e Gianluca Morozzi, Il dio del rock è severo ma giusto, Les Flaneurs Edizioni
«The most dangerous band in the world, no? I Guns non si sono certo conquistati questa definizione in pochi anni di attività perché si comportano da chierichetti in fila a prendersi l’ostia consacrata: no, l’hanno conquistata perché sono sporchi, ribelli, menefreghisti, violenti, orgogliosamente drogati e scrivono canzoni feroci, ma i fan li adorano per questo. I detrattori li odiano per lo stesso motivo. Dunque, nessuno ha ragione o torto. Sono divisivi: o dentro o fuori»
Sex, drugs and rock’n’roll è il cliché del rock, e i Guns N’ Roses sono i padri fondatori di questo cliché: selvaggi, esplosivi, senza mezze misure. Questi venticinque racconti, dalle penne di diciassette autori, ne illustrano il mito, rispettando un unico filo conduttore ma diversi punti di vista. E così possiamo metterci nei panni di un fan della prima ora, che sia lo zio intento a spiegare il rock al nipotino oppure una groupie ossessionata da Axl Rose, e subito dopo immergerci nelle vite degli stessi membri della band: conoscere le ambizioni e le paure di cinque scapestrati in attesa di sfondare, seguire Duff o Slash durante un bad trip, empatizzare con uno Steven stravolto da droga e rimpianti, chiederci dove sia finito Izzy. Ogni racconto aggiunge una sfaccettatura da cui guardare i Guns e la loro parabola, dall’esordio all’ascesa, dalla vetta all’autodistruzione, dai traumi infantili alla loro sublimazione nel dionisiaco. Benvenuti nella giungla.
I Guns N’Roses a Londra nel 2017
Paolo Cavallone, Suoni ulteriori, Gruppo Santinelli Poetica
Si intitola “Suoni ulteriori” il nuovo libro del compositore Paolo Cavallone. L’opera, edita dal Gruppo Santelli Poetica, contiene 46 testi poetici che l’autore ha composto nell’arco di 24 anni. L’opera si arricchisce della presentazione del giornalista e scrittore Giuseppe M. Gnagnarella e della prefazione del musicologo Renzo Cresti.
È difficile separare la poesia dalla musica perché in Paolo Cavallone prendono vita contemporaneamente: non vi è un prima e un dopo, un distacco, ma si formano insieme. Potremmo azzardare il termine “poesica”, poesia/musica contratte in un’unica parola, arti che pur conservando le loro naturali caratteristiche si penetrano attraverso il suono e il ritmo, indistinguibili e imprescindibili l’una dall’altra. Dal suono di una vocale o di una frase nasce la musica, la quale è già contenuta in quella parola e in quel verso. Non è una questione di creare una poetica o una drammaturgia, il fatto è che poesia/musica sono connaturati alla sensibilità, alla forma mentis di Cavallone o meglio egli diviene la sua poesia/musica. Un suono senza tempo (“Spirali”), intrasonico polifonico (“Madrigale”), ci regala Cavallone, corpo dello spirito (“Corpo”), vivo raro (“Sorriso”). “Per onestà / nella purezza dell’intenzione / dell’immaginazione” (“Ero Dandy e non sapevo”), ci dona la dolcezza delle emozioni (Stanze), in “Rivelazioni” meditate e fulminee, in un percorso di vita e d’arte più unico che raro, profondo e originale. Il libro si arricchisce della copertina tratta dall’opera “Il vento dell’ovest” della pittrice Emma D’Alessandro.
Michelina Buono, Quadri senza chiodi, Fides
«Rivedeva, come in un quadro di Renoir, le loro tre figure sedute su un tronco trascinato a riva dal mare…»
Durante gli ultimi atti del secondo conflitto mondiale, la giovane Nennella sfida la mentalità tradizionalista del suo piccolo paese del sud Italia, rifiutando di adattarsi all’esistenza già programmata per lei dalla sua famiglia tanto benestante quanto patriarcale. Vittoria, figlia di Nennella, è fra le prime a indossare la toga di magistrato, e in particolare si dedica alle indagini sulla morte di suo marito, un giornalista televisivo ucciso dalla mano armata della Brigate Rosse. Beatrice, figlia di Vittoria, ha subito una violenza sessuale da parte di un sacerdote, e ora deve cercare di affrontare il trauma per rinacciare dalla trama della sua vita. Ambientato fra la Capitale e un Meridione italiano sospeso fra consuetudini arcaiche e consolidate, in un arco temporale che va dal 1943 agli anni Novanta, Quadri senza chiodi è una saga familiare che si offre come un inno all’autodeterminazione e all’emancipazione femminile.
Le uscite di giovedì 22 febbraio
Diego Brasioli, Il caffè di Tamer, Mursia
«E dopo ogni guerra, pensava Dori, dopo ogni battaglia, non una, ma due, tre, dieci, cento versioni. Chi ha ragione, alla fine? Ciò che appare sembra una cosa, ma poi ne sembra un’altra, e poi ancora cambia di prospettiva. Alla fine, cosa conta chi ha ragione, se la ragione stessa è andata persa?»
Questa è la storia dell’ebreo Dori Goldman e del suo amico arabo Tamer Hammoud che aveva un locale senza nome né insegna negli antichi vicoli di Gerusalemme. Era un luogo di pace che tutti chiamavano, semplicemente, il caffè di Tamer. Un tragico e delicato romanzo che trascina nel cuore della terra promessa, dove niente è ciò che sembra, dove la morte e l’amicizia camminano fianco a fianco. Uno spaccato di vita mediorientale lucido e tragico fatto di rapporti umani sempre più difficili tra arabi ed israeliani, di istinti omicidi superiori a qualsiasi voglia di riconciliazione, ad ogni accordo realmente ragionato e quindi possibile. Ogni emozione, ogni dialogo, ogni speranza confina sempre con una pesante atmosfera di morte, di resa dei conti che pesa come una spada di Damocle sulla sofferta quotidianità di intere popolazioni. Il finale tragico fa riflettere e non lascia certo grande spazio ad ipotesi di definitive risoluzioni non violente dei conflitti mediorientali.
Claudio Chiaverotti e Pierluigi Porazzi, Il re delle fate d’autunno. In fondo alle filastrocche è sempre buio, Mursia
Gli autori: “Dall’incontro di due anime creative e da stima e ammirazione reciproca è nata prima un’amicizia vera e in seguito l’opportunità di scrivere insieme una storia, e questa storia è diventata “Il re delle fate d’autunno”
«Dolcezza, un puntino quasi dimenticato su qualunque mappa stradale, qualche migliaia di abitanti, poche anime rimaste, la maggior parte vendute per molto meno di trenta denari. Tutti invece conoscono la fabbrica di prodotti chimici che dà lavoro alla maggior parte degli abitanti del paese, l’Ekta». Adolescenti, belle e con qualche segreto di troppo: sono le vittime di un serial killer che si fa chiamare il re delle fate d’autunno e semina terrore nello sperduto paesino di Dolcezza, in Friuli. Al caso lavora l’ispettrice Foscari che, con il suo vice Chiarloni, scava tra le torbide ombre di una provincia solo all’apparenza tranquilla. Chi è l’assassino? Perché uccide? E ha qualcosa a che fare con l’Ekta, la fabbrica che tutti in paese detestano e temono?
Questo l’incipit del romanzo: “A occhi chiusi, il tepore dell’ultimo sole dell’estate sulle guance le accende un lieve sorriso sulle labbra. Ha sempre amato l’estate, il caldo, le maniche corte, le corse da bambina nei prati della casa di montagna, le libellule. Sembravano piccole fate, le libellule. Amava vederle volteggiare intorno a lei, restare immobile finché una si posava sulla sua mano, e osservarle da vicino. Avevano occhi enormi, il corpo oblungo e quasi sgraziato, le ali così sottili e delicate che sarebbe bastato un tocco delle dita per distruggerle. In un istante, la sua mente è tornata a un passato simile alla felicità, allora inconsapevole, di una ragazzina che aveva davanti a sé infinite strade, infinite possibilità. Le sembra quasi di sentire ancora l’odore di erba tagliata dei campi”.
Libro controcopertina, Eco guerrieri. Storie di battaglie ecologiste di Stefano Apuzzo, Mursia
«La nostra casa è in fiamme (…) eppure la politica parla, discute, finge di prendere provvedimenti ma continua a essere ostaggio di quelle lobby che la casa la stanno incendiando. (…) Non c’è più tempo per le parole. Urgono azioni concrete. E, se necessario, azioni dirette»
Il racconto di un’avventura collettiva e d’avanguardia nelle lotte degli anni Ottanta, Novanta e Duemila, per il pianeta, il clima, l’ambiente e la giustizia sociale. Pagine di azioni e blitz di forte impatto simbolico, “illegali”, di autodifesa. Un manuale utile per le lotte di oggi e delle nuove generazioni per conquistare un futuro che sia vivibile. È ancora possibile salvare il pianeta, ma abbiamo poco tempo e le azioni, dal basso, devono essere sempre più incisive e radicali, per smuovere i gerontocrati e i fossili che stanno in alto e ci governano. Un’avventura nella Politica, quella vera e d’azione, alla conquista delle città e per abbattere muri e confini.
L’autore
Giornalista e scrittore, collaboratore di diverse testate giornalistiche, Apuzzo è laureato all’Accademia di Belle Arti di Brera. È stato presidente di Amici della Terra Lombardia, ProAfrica Onlus e Associazione culturale “M’Arte”, Portavoce Gaia Onlus, Direttore Associazione Laboratorio Ambiente e EcoRete, rete Ecologica della Lombardia, è stato autore di diversi libri e testi su ambiente, sicurezza alimentare, diritti dei consumatori, animali (Stampa Alternativa, Kaos edizioni, Edizioni Mediterranee, Costa&Nolan, “I Libri di Gaia”), tra cui “Farmakiller”, “Quattrosberle in padella” e “Bimbo bio”, “Foglie di Fico”, “Anche gli animali vanno in Paradiso”. Da giovanissimo ha militato nella Federazione giovanile comunista italiana del Pci. Aderisce fin dalla loro nascita ai Verdi, con i quali nel 1990 viene eletto consigliere comunale a Opera (carica che manterrà fino al 1998). Nel 1992 viene eletto deputato coi Verdi. Da parlamentare ha fatto approvare come promotore due leggi in difesa dell’ambiente e degli animali: la modifica dell’art. 727 del Codice penale, con l’inasprimento delle pene per i maltrattamenti e il diritto all’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale per gli studenti e le studentesse universitari. Rimane in carica a Montecitorio fino al 1994. Dal 2004 assessore all’Ambiente, cooperazione e protezione civile del Comune di Rozzano, occupandosi anche di innovazioni tecnologiche, lavoro, parchi, verde e animali. Dal 2010 è iscritto al Partito democratico. Rimane assessore fino al 2019.
Le uscite di venerdì 23 febbraio
Maddie Mortimer, Mappe dei nostri corpi spettacolari, Il Saggiatore
Mappe dei nostri corpi spettacolari è la storia di un essere inafferrabile che, lento e inesorabile, si aggira in un paesaggio affascinante: il corpo umano.
Si ferma al suo interno, ne esplora gli organi, si moltiplica tra le cellule. Una creatura che racconta la topografia di un corpo, da cui assorbe energia vitale tappa dopo tappa; avanza lungo gli argini delle sue vene, si riversa nei tessuti, si nasconde nelle anse dei capillari. Sfiora la trachea come i tasti di uno xilofono. Si diffonde implacabile.
Ma è anche la storia di Lia, una giovane donna sposata con Harry e madre di Iris, alle prese con i cambiamenti dell’ado- lescenza. È la loro quotidianità che questa creatura raccon- ta, perché conosce tutti loro: i segreti nascosti del passato, le verità non dette del presente e l’inevitabilità del futuro. Mentre Lia affronta quella che potrebbe essere la fine, i ricordi della sua infanzia e una storia d’amore nascosta portano alla luce paure profonde. Sotto attacco da dentro, Lia cerca di trovare un equilibrio e di tracciare i confini di un’instabile felicità.
Ma il tempo e i corpi sono porosi e imprevedibili. Maddie Mortimer si muove tra diversi stili di scrittura e stati d’ani- mo, in una vera e propria catabasi attraverso il corpo uma- no che si fa racconto di luoghi spettacolari e al contempo spaventosi; una discesa in un abisso profondo che si trasfor- ma in una celebrazione assoluta della vita.
Eduardo Laporte, Tempo ordinario, Arkadia
Dopo la pubblicazione di Diari (2015-2016), Eduardo Laporte pubblica la nuova puntata del progetto Diario a ninguna parte (Diario verso il nulla). In questo caso, coprendo gli anni dal 2017 al 2020, compone un insieme di pillole letterarie dall’aspetto talvolta aforistico, in parte legate ai social network, ma allo stesso tempo incapaci di esaurirsi in quel contenitore frenetico e aggressivo. Il diario emerge come un deposito di idee di maggior spessore, che superano il setaccio del virtuale e si guadagnano il privilegio della permanenza su carta. Un tentativo di catturare il tempo, quello individuale, intimo, ma anche quello degli altri, il tempo comune. Da qui il titolo, un gioco di parole con la bellezza dei giorni normali, senza feste, attingendo al gergo del calendario cristiano, ma anche un tempo che coincide con il mandato di un politico come Donald Trump. Il testo cerca di essere proprio un rifugio dal sovraccarico di informazioni. Attualità e politica sono assenti, al di là degli inevitabili accenni alla pandemia e ai suoi effetti nella sezione finale.
Justin Cronin, Il traghettatore, Fanucci Editore
Fondato dal misterioso genio noto come il Designer, l’arcipelago di Prospera è nascosto dagli orrori di un mondo esterno ormai in declino. Su quest’isola paradisiaca, i fortunati cittadini godono di vite lunghe e appaganti fino a quando i monitor incastonati nei loro avambracci, destinati a misurare il loro benessere fisico e psicologico, scendono sotto il 10%. A quel punto si ritirano, imbarcandosi su un traghetto per l’isola conosciuta come Nursery, dove la loro memoria viene cancellata e i loro corpi deteriorati vengono rinnovati in modo da ricominciare una nuova vita. Proctor Bennett ha una carriera soddisfacente come traghettatore, accompagnando le persone nel processo di pensionamento. Ma c’è qualcosa che non va in lui. In primo luogo, sogna, cosa che si suppone sia impossibile a Prospera. In secondo luogo, la percentuale sul monitor incastonato nel suo braccio ha iniziato a diminuire in modo allarmante. E nel giorno in cui viene convocato per traghettare il proprio padre, quest’ultimo gli consegna un criptico messaggio dai risvolti inquietanti. Nel frattempo, il personale di supporto, uomini e donne comuni che forniscono la manodopera necessaria al funzionamento di Prospera, ha iniziato a mettere in discussione il proprio posto nell’ordine sociale. Con i disordini aumentano, si diffondono sempre di più voci su un gruppo di ribelli che potrebbe scatenare una rivoluzione. Ben presto, Proctor si ritrova a mettere in discussione tutto ciò in cui credeva, invischiato in una causa molto più grande di lui e in una missione disperata alla ricerca della verità.
Il prologo del libro: “Sta per spuntare l’alba quando lei sguscia via di casa. L’aria è calma e fresca; gli uccelli cantano sugli alberi. Ovunque, il suono del mare, il grande metronomo del mondo, che sbatte sotto un cielo vellutato di stelle evanescenti. Attraversa il giardino, con indosso la camicia da notte chiara. Il suo passo non è esitante, semplicemente pacato, quasi compiaciuto. Come somiglia a un fantasma, questa figura solitaria che fluttua tra le aiuole, le fontane gorgoglianti, le siepi affilate come lame taglienti. Dietro di lei, la casa è scura come un monolite, anche se presto le finestre affacciate sul mare si riempiranno di luce. Non è cosa facile, lasciare una vita, una casa. I dettagli scavano trincee dentro di noi: profumi, suoni, associazioni, ritmi. Le assi scricchiolanti del pavimento al piano di sopra. L’odore che ti accoglie all’ingresso a fine giornata. L’interruttore della luce che la mano trova in automatico anche al buio. Potrebbe muoversi senza problemi tra i mobili con una benda sugli occhi. Vent’anni. Resterebbe altri venti se potesse”.
Le uscite di lunedì 26 febbraio
Gianfranco Lauretano, Questo Spentoevo, Graphe.it edizioni
Nel cuore delle parole c’è un’armonia nascosta, un flusso musicale che solo pochi poeti riescono a catturare. Gianfranco Lauretano rivela come l’arte della poesia possa essere un atto di imitazione e trasformazione, portando il lettore in profondità nell’universo sonoro delle parole. Lauretano segue le orme di Giorgio Caproni, sfidando l’audacia di provocare questo meccanismo, e portando in scena un’opera poetica che affonda le radici nell’arte di un maestro e, allo stesso tempo, si distingue come un’entusiasmante esplorazione dell’universo poetico. Questo spentoevo non è solo un libro di poesie: è un’esperienza, un viaggio nella musica nascosta delle parole, un tributo a un faro del Novecento. Un’opera che affascina, sorprende e incanta.
Il poeta agisce per eversioni di senso e per sonorità limpide offrendo al lettore un verso asciutto, lineare ma allo stesso tempo denso di nitore, figlio di un linguaggio che poggia le sue solide basi su un messaggio sia evocativo, e dunque spirituale, che civile, e dunque umanistico. Ciò che si sviluppa, in questa “crasi” letteraria, specie nella sua ultima opera che qui presentiamo, è la verosimiglianza del reale alla resilienza dello spirito, in una fusione tra elegia e provocazione che rende unica questa esperienza poetica sempre in bilico tra l’omaggio e la ricerca di un significato altro, di una cifra più aderente alla verità che spesso ci sovrasta ma non ci salva. Il risultato che ne consegue è una poesia fresca ma audace, che ha nei suoi picchi tutta la lezione novecentesca e però non disdegna il presente, ridisegnandone le mappe interne e andando contro le mistificazioni di un tempo che sembra continuamente mettere a dura prova gli esseri più sensibili che lo abitano. (Antonio Bux)
Aurelian Silvestru, Attore Anonimo, Graphe.it Edizioni
Dopo molti anni, due amici si ritrovano in una trattoria del centro di Chișinău, capitale della Repubblica Moldova, a ricordare il loro passato e la scomparsa, prematura e tragica, di Florin Montana, pittore di grande talento e loro carissimo amico. Improvvisamente dal racconto del vissuto riemergono amori, sogni, invidie e misteri irrisolti, che li obbligano a vivere un’avventura giocata tra diverse capitali europee e in vari ambiti umani e artistici. I due allestiscono una pièce in bilico tra finzione e realtà. Paradossalmente, il filo conduttore di questa insolita esperienza sarà l’imperatore Nerone, uomo di potere, artista e, soprattutto, anima complessa, travagliata da conflitti e infiammata da feroci ambizioni. Tra i capitoli dai titoli suggestivi, ne incontriamo alcuni ambientati nell’antica Roma, poiché Tudor intende raccontare di un inedito Nerone in un testo a lui dedicato. Tuttavia, come spesso accade agli amanti della scrittura, il personaggio finisce per guidare la mano dell’autore e lo stesso Nerone diviene parte tangibile della storia, materializzandosi.
È infatti proprio Nerone ad aiutare Tudor a conoscere meglio se stesso parlandogli della loro somiglianza, della stessa sete e perseveranza, di quel talento che preme per uscire e mostrarsi: sono divorati dalle medesime passioni – dipingere, scrivere, fare teatro – ma anche differenti nelle ambizioni… “Io offro l’ispirazione, incoraggio loro a commettere dei crimini. Io sono l’ideatore dei grandi incendi” dice Nerone compiaciuto. L’incontro con san Pietro completa il quadro dello stile visionario e interessante di Aurelian Silvestru, ma ciò che accadrà nei capitoli finali di Attore anonimo metterà ordine, non senza momenti travagliati tra i tanti nomi e i fatti, mai utilizzati senza uno scopo preciso e ben congegnato. Fin dalle prime pagine, l’autore esalta l’arte in tutte le sue forme, compiendo suggestivi collegamenti con la natura, il mare, la vita stessa. Riflessioni sull’amicizia, sulla solitudine, sul vivere, sulla disperazione e sul rialzarsi cercando le più semplici motivazioni per farlo, che stanno là a portata di mano in attesa di esser viste. E poi la personalità degli attori, quel saper fingere o immedesimarsi che rischia di insinuarsi nella vita reale, ma anche la storia che abbiamo studiato sui banchi di scuola è in questo libro capace di insegnarci qualcosa: Seneca, Nerone, Agrippina, l’antica Roma, hanno un posto d’onore nell’originale costruzione del romanzo e lasciano segni interessanti…
Salvatore Massimo Fazio
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La poesia di Francesco Cusa, Valerio Mello e Roberto Piumini inaugurano la doppia settimana del nostro blog: il primo per Robin, il secondo per Ensemble, il terzo per Scalpendi. Interessante il primo volume del 2024 per Giazira che per penna di autori vari presenta le storie e i racconti del mondo scout. Il Saggiatore si impone con diversi titoli: dal sociale e psichiatrico con “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin” di Franco e Franca Basaglia a Vincenzo Levizzani, autore di “Quando fuori piove. Storia e futuro della pioggia” a Julio Llamazares con “Diversi modi di guardare l’acqua” e Federico Maria Sardelli che onora il genio musicale con “Vivaldi secondo Vivaldi. Dentro i suoi manoscritti”. Deborah Levy con “Cose che non voglio sapere” (NN Editore) è la sorpresa da scoprire. Il 9 febbraio gli scelti in copertina: Arkadia conquista il #librocopertina con “Hotel DF”, di Guillermo Fadanelli. Aldo Nove con “Pulsar” e “Woobinda”, per Il Saggiatore, si aggiudica la controcopertina. Debutta nel nostro blog CN, il nuovo marchio editoriale del gruppo Oligo, con “Giacomo Leopardi e la cultura inglese” di Silvia Girometti.
Che ve ne pare di questo passaggio a febbraio? Buona lettura a tutti e arrivederci a martedì 13!
Le uscite di martedì 30 gennaio
Francesco Cusa, Il giusto premio, Robin
“Finire. Si muore nel buio dei secoli con gli ultimi respiri pietrificati e le iridi spalancate d’azzurro nel ricordo silenzioso del mare”
Dodicesima opera del Maestro Francesco Cusa, musicista col “vizio” letterario tra racconti e poesie, quinta silloge dove i versi demarcano un momento cruciale del recente vissuto del poliedrico artista, musico, poeta e scrittore etneo.
Valerio Mello, Hypsas, Ensemble
Srive Andrea Carnevale: «Il fiume scorre, trascina, pulisce, conduce ciò che conserva e lo porta in offerta. Il denso e mirabile poemetto di Mello fa diventare le antiche divinità – a cominciare da quella fluviale a cui è ispirato e dedicato – incarnazioni stesse della Poesia e del suo attraversare la storia. Un fluire che conserva e innova a ogni svolta le sue origini (il mondo greco e l’acume virgiliano), che travolge una lingua che non sa più dire per offrirla in sacrificio nel suo andare, con una voce che “abita a ritroso”, verso la sorgente di ogni domanda».
AA.VV., Mamma che rover! Storie, racconti e visioni da un campo scout, Giazira
Le storie nascono da un atto d’amore. La vita di un personaggio, i luoghi che attraversa, le avventure che vive, tutto si sviluppa da un atto d’amore. Quello del narratore, che coltiva la sua storia con una dedizione tale da donarla al mondo nel momento in cui tutto nella sua testa diventa bello al punto da essere incontenibile. Da qui viene l’esigenza di condividere una storia ed è così che il mondo diventa più ricco: grazie alle storie che i narratori concepiscono, amano e condividono. Ecco perché questo libro è un dono prezioso che ti offrono i tanti autori di queste storie, giovani rover degli Scout Cngei che, guidati da Cristiano Marti (editore ed esperto di scrittura creativa) hanno unito i loro immaginari e coltivato le trame che ti appresti a leggere. Fallo senza fretta. Prenditi il tempo necessario. Quello che serve allo stupore.
Le uscite di venerdì 2 febbraio
A cura di Franco e Franca Basaglia, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Il Saggiatore
“Morire di classe”, pubblicato originariamente nel 1969, è un’opera eccezionale. Criticando attraverso immagini inequivocabili le condizioni in cui si trovavano gli ospedali psichiatrici italiani dell’epoca, fu un importante fattore nella battaglia di Franco Basaglia per far chiudere quegli istituti. Insieme un libro fotografico, politico e so- ciologico; un libro da guardare – o da cui distogliere lo sguardo – tanto quanto da leggere. Gli scatti in bianco e nero di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin – due dei più rappresentativi fotografi italiani – dove si alternano muri, porte, chiavi, corpi, materassi, alberi, camicie di forza, sguardi vivi in corpi imprigionati, furono realizzati in quattro ospedali diversi. Nel manicomio di Gorizia diretto da Basaglia i criteri di contenimento tradizionali erano stati abbandonati, mentre la reale situazione dei manicomi era evidente a Colorno, Ferrara e Firenze, dove i fotografi poterono andare solo una volta e non furono ben accolti. Le foto e i testi, selezionati da Basaglia stesso (tra gli altri sono raccolti brani di Erving Goffman, Michel Foucault, Primo Levi, Jonathan Swift, Rainer Maria Rilke e Peter Weiss), impongono al lettore una presa di coscienza inevitabile: perché la società e la psichiatria sono molto cambiate, ma la domanda sul rapporto tra follia e società e sulla funzione della cura e delle istituzioni non ha perso di senso.
Roberto Piumini, Panegimo e altri poemi, Scalpendi editore
C’è un luogo felice della letteratura, in cui scrittura poetica e narrazione sono rimaste unite. Lì, la voce (fiato/suono/corpo/ritmo) non si limita alla cronaca lirica, all’avvenimento del sé, ma racconta storie, allarga il gioco all’avventurosa diacronia del mondo. Dopo i suoi sonetti (nostrani ed elisabettiani) raccolte di canti, parodie (il Melangolo, Interlinea, Feltrinelli) dopo la traduzione dei Sonetti e di Macbeth di Shakespeare, di Paradiso perduto di Milton, di poemi di Browning, de l’Aulularia con finale apocrifo di Plauto (Bompiani, Einaudi) e i poemi de “Il piegatore di lenzuoli” (Marietti1820) Roberto Piumini propone ai lettori adulti l’oralità ricca e soddisfacente della poesia narrativa. A Panegìmo, nella prima storia, accade di scrivere una poesia di tre versi, diassoluta perfezione. Per pubblicarla degnamente, intraprende un lungo viaggio, durante il quale i primi due versi perdono tutta la loro bellezza: nel primo caso salvandolo da una condanna a morte, nel secondo facendo innamorare una persona. Panegìmo raggiunge infine le Edizioni Stellari, dove l’ultimo verso incontra l’incresciosa avidità dell’editore, e sacrifica la perfezione che aveva conservato in un ultimo dono. Nel secondo poema, il solitario traghettatore Nemau trasporta di qua e di là del fiume, a lunghi intervalli, una viaggiatrice, diretta ogni volta a nuovi amori. A ogni passaggio, silenziosamente innamorato di lei, il traghettatore vede diminuire in lei la bellezza, l’entusiasmo e la vitalità: fino a quando, con decisione sapiente ed efficace, lui risolve la questione. Nel terzo poema, uno straordinario mascheraio è ingaggiato da una duchessa per un carnevale, in cui Bamberto cade vittima innocente di un atroce scherzo di cortigiani, ed è condannato alla decapitazione. Nel buio della cella, con l’inconsapevole aiuto del mite carceriere Sciapignac, il mascheraio prepara quello che, insieme a certe cipolle e a un fedele cavallo, lo porterà a salvezza.
Oltre ai tre poemi, il libro propone un particolare gioco. Generoso è il gioco della lettura di poesia, in cui alla vastità-intensità-intimità della parola, risponde, con risonanze, ardimenti e movimenti, la visione di chi legge. A qualcuno piace prendere appunti, scritti a bordo pagina o in spazi tipografici vuoti, su foglietti inseriti fra le pagine, persino in quaderni di lettura, straordinari libri paralleli, preziosi e personali libri-risposta. In questo libro si dà spazio, nelle pagine di sinistra, ad alcuni dei tanti possibili giochi di lettura come la scelta del verso preferito, o meno apprezzato, la modifica, soppressione o aggiunta di un verso, tra quelli della pagina a destra. Lo stesso può farsi per più versi, in libero esercizio del gusto: avendo l’accortezza di accettare la scommessa metrica, rispettando il ritmo in endecasillabi del poema. Al di fuori di questi (o altri possibili) interventi sul testo, lo spazio di sinistra può servire a osservazioni linguistiche, critiche, riferimenti narrativi, notazione di ricordi o sviluppi di fantasia, e così via, in un’agenda operativa, linguistica e emotiva, pagina dopo pagina, del libro. Un’agenda che, oltre ad arricchire il contenuto espressivo del libro coi suoi momenti di gioco e memoria, lo renderebbe enormemente più ricco in quella situazione che, per un libro di poesia, è tra le più preziose: essere prestato, o regalato, a una persona amica o amata.
Vincenzo Levizzani, Quando fuori piove. Storia e futuro della pioggia, Il Saggiatore
Dopo averci accompagnati all’interno delle nubi e averci insegnato a riconoscerle, Vincenzo Levizzani ci porta ora alla scoperta di uno dei fenomeni più rilevanti non solo per la vita stessa del pianeta, ma anche per i sistemi culturali, religiosi e artistici di tutta l’umanità: la pioggia. Dal diluvio universale biblico alle danze sciamaniche per invocarla, dal culto di Giove Pluvio agli dèi precolombiani: l’umanità ha sempre avuto consapevolezza dell’importanza e del fascino della pioggia. E anche del suo potenziale distruttivo. Partendo dalla cultura e dall’arte per arrivare alla scienza e alla meteorologia, Levizzani racconta tutto quello che possiamo desiderare sapere sulla pioggia. Sul suo passato e sul suo futuro, su cosa significano siccità e temporali per il domani della Terra, su come si generano e come cambiano il mondo intorno a noi.
Julio Llamazares, Diversi modi di guardare l’acqua, Il Saggiatore
“Diversi modi di guardare l’acqua” è il romanzo di un malinconico ritorno a casa, il racconto corale di come la memoria attraversi sempre le generazioni. L’anziano contadino Domingo è morto con un desiderio in- compiuto e i suoi familiari si incontrano per provare a esaudirlo, almeno postumo: la moglie, che con lui ha condiviso tutto; i figli, che hanno abbandonato progressivamente la casa di famiglia per lavorare in città; i nipoti, così distanti dalla sua concezione di vita eppure ancora capaci di comprenderla e ammirarla. Si radunano tutti davanti a un piccolo lago racchiuso dalle montagne, sul cui fondo giacciono invisibili agli occhi degli estranei le rovine di villaggi abbandonati e i ricordi dei vecchi abitanti come Domingo, al quale un giorno qualcuno ha ordinato di andarsene e farlo subito; la loro città sarebbe stata sommersa per la costruzione di una gigantesca diga, e loro avrebbero dovuto ricominciare la loro vita da un’altra parte. Gli eredi di Domingo si riuniscono sulle sponde di quel la- go per restituire il defunto al luogo cui è sempre appartenuto con lo spirito, ognuno di loro costretto nel mentre a confrontarsi su quella riva con il trauma che ha segnato la storia della famiglia. In questo romanzo Llamazares raccoglie le loro voci e i loro ricordi, la loro malinconia avvolta dallo stesso silenzio che circonda il paesaggio, disegnando così i contorni di una figura ingombrante e carismatica, un uomo duro ma gentile, saldo ma fragile, simbolo di un’epoca giunta alla fine, che non per questo è concesso dimenticare.
Federico Maria Sardelli, Vivaldi secondo Vivaldi. Dentro i suoi manoscritti, Il Saggiatore
Antonio Vivaldi è stato forse il compositore più oggetto di equivoci di lettura e deliberati fraintendimenti tra quelli del suo tempo. Riscoperto relativamente di recente rispetto a Bach o Händel, infatti, la sua musica ha subito per decenni letture estremizzate e approcci superficiali. Ancora oggi ci si inganna credendo che sia un autore facile o leggero, e le sue partiture poco più di tracce stenografiche da integrare con ornamentazioni, improvvisazioni, effetti speciali e ogni tipo di licenza interpretativa. Federico Maria Sardelli, tra i più autorevoli studiosi e interpreti del maestro veneziano, con quest’opera ridà il giusto valore alle intenzioni di Vivaldi. Grazie a una ricognizione minuziosa sulle sue istruzioni musicali manoscritte, Sardelli rivela come le partiture siano, in genere, già complete di molte indicazioni utili all’esecuzione. Al contrario della vulgata, infatti – e sebbene Vivaldi non abbia mai scritto un solo rigo sulla sua musica, la sua poetica, il suo modo di comporla o eseguirla –, queste carte lo rivelano come il compositore italiano barocco più prodigo d’informazioni tecniche e musicali. Guidati da Sardelli, entriamo per la prima volta in intimo contatto con i suoi manoscritti, rivelatori di un’impressionante mole di notizie, cruciali per ricostruire il suo modo d’intendere e d’interpretare le sue creazioni.
A metà tra saggio speculativo e manuale pratico, questo li- bro, che si impone anche per la brillante vena scrittoria, ci permette di avere accesso come mai prima a un universo musicale, in cui ogni effetto risulta perfettamente calibrato e ponderato per emozionare l’ascoltatore.
Le uscite di venerdì 9 febbraio
Libro copertina, Hotel DF di Guillermo Fadanelli, Arkadia
Tutto ruota attorno a un hotel nel centro di Città del Messico e ai personaggi che vi transitano: due turisti europei, un giovane artista in fuga dal successo, una ragazza benestante e un manipolo di sicari. Pare che l’hotel sia anche la base di una banda criminale, ma non è molto chiaro di quali crimini si tratti. Nonostante le premesse, tuttavia, Fadanelli ci porta da un’altra parte. Al grande autore spagnola non interessa il thriller e la violenza rimane sullo sfondo. In realtà ecco emergere un anti-thriller, in cui il vero protagonista è il caseggiato, le vite che ospita e, in senso più largo, la metropoli, con una serie di percorsi che si incrociano in modo mirabile. Città del Messico e i suoi abitanti, pian piano, prendono il sopravvento, aprendo al lettore una pluralità di punti di vista che sono narrati con maestria e capacità non comuni, immergendoci in una realtà ben più complessa di quanto potrebbe apparire a prima vista: l’indifferenza degli abitanti della metropoli nei confronti di ciò che li circonda, l’abbandono degli anziani, il vuoto di un mondo in cui le persone non si parlano più.
Silvia Girometti, Giacomo Leopardi e la cultura inglese, CN/OLIGO
La ricerca ha lo scopo di evidenziare il contrasto fra l’isolamento recanatese e la spaziatura degli interessi di Leopardi verso il mondo intero, a dispetto delle difficoltà che un intellettuale italiano di provincia nell’Ottocento doveva affrontare per tenersi aggiornato. In particolare, l’attenzione si concentra sull’effetto più o meno consapevole della cultura inglese sulla meditazione leopardiana, in cui il confronto con il pensiero di filosofi, estetologi o letterati anglosassoni restituisce un’accezione nuova e una trattazione originale. Offrendo stimoli per un aggiornamento sull’influenza di Leopardi alla produzione letteraria inglese successiva, lo studio si concentra sulla risposta del poeta recanatese agli autori inglesi precedenti o a lui contemporanei, in una sorta d’intervista ideale.
Deborah Levy, Cose che non voglio sapere, NN Editore
Nel primo volume della sua Autobiografia in movimento, Deborah Levy si sposta tra i suoi tre luoghi del cuore, che hanno avuto un impatto indelebile sulla sua vita. Il primo è Maiorca, l’isola dove si ritira per riflettere e ritrovarsi; il secondo è il Sudafrica, il paese della sua infanzia, segnata dall’arresto del padre militante contro l’apartheid; infine, l’Inghilterra, il paese che l’ha adottata e dove ha trascorso un’adolescenza da esule prima di scoprire la scrittura. Affidandosi alla memoria e a una penna vitale, acuta e ironica, capace di illuminare le felicità più cristalline così come le depressioni più cupe – le cose che non vogliamo sapere, quelle che rischiano di inghiottirci quando ci troviamo ad affrontare gli abissi della vita – l’autrice prova a far luce sulle ragioni della sua scrittura e delle sue scelte, nel tentativo di comprendere il suo percorso di donna e di scrittrice. Cose che non voglio sapere è un memoir femminista sulla scia di Rachel Cusk, Simone De Beauvoir e Virginia Woolf, la storia di una donna sradicata che nella scrittura trova lo strumento per far sentire la propria voce.
Libri controcopertina, Woobinda e Pulsar di Aldo Nove, Il Saggiatore
Aldo Nove, Woobinda
Ragazzi e ragazze pronti a uccidere i propri genitori per aver comprato il bagnoschiuma sbagliato, uomini e donne adulti che si vestono eleganti per andare a fare i turisti nel luogo di una strage, o che trasformano il proprio cellulare in un sex toy. Tutto questo e molto altro è contenuto nelle pagine di “Woobinda”, tornato in libreria grazia a Il Saggiatore. Un libro che dalla sua prima comparsa, nella stagione cannibale del 1996, non ha mai smesso di provocare, disturbare e divertire, raccontandoci la violenza del capitalismo e la dissoluzione umana. Come un televisore in preda allo zapping, Aldo Nove ci mette davanti a un vortice di storie esilaranti e mostruose che non concedono mai un lieto fine e sul cui fondo, come un jingle fastidioso, passa la storia di quegli anni: l’incidente di Vermicino, la guerra del Golfo, l’ascesa politica di Berlusconi. Un carosello di banalità e goffaggini, solitudini e crudeltà, capace allo stesso tempo di spaventare e suscitare tenerezza; di mostrare il vero aspetto di una società schiacciata tra il consumismo e lo schermo televisivo, con il pericolo di riconoscervi ciò che eravamo e chiederci che cosa mai siamo diventati.
Scrittore e poeta, Aldo Nove (Viggiù, 1967) tra i suoi libri in prosa ha scritto “La vita oscena” (2010) e “Amore mio infinito” (2022). Tra quelli di poesia ricordiamo “A schemi di costellazioni” (2010), “Poemetti della sera” (2020) e “Sonetti del giorno di quarzo” (2022). Il Saggiatore ha in corso la pubblicazione della sua intera opera e sempre il 9 febbraio pubblica l’ultimo romanzo “Pulsar”.
Aldo Nove, Pulsar
Pulsar comincia nel 1967. In quell’anno nasce la voce che racconta questa storia. Una voce che racconta dell’amore per sua madre, per i suoi nonni; che parla di Viggiù e della sua infanzia. L’infanzia è infatti la stella pulsante nelle vite di ciascuno di noi, le cui onde influenzano chi siamo e soprattutto chi saremo. Il racconto di questa voce si forma anno dopo anno, perché nella vita di un bambino ogni anno è un secolo e una rivoluzione, ogni anno è un’esplosione di vita incontrollabile. Poi, a un certo punto, si interrompe: l’infanzia finisce, e la voce capisce che anche lei deve trasformarsi. Deve farsi storia di tutti, deve raccontare il percorso di un’umanità verso un futuro sempre più incomprensibile e pieno di violenza. Allora si passa dall’«io» al «noi», dalla storia individuale alla narrazione per decadi, con le loro catastrofi. Si passa alla speranza di continuare a sentire l’eco della stella che pulsa, alla speranza che l’infanzia non finisca e che, anzi, possa cambiare la collettività, la storia e l’avvenire. L’infanzia che è il gesto d’amore supremo. La stella che non muore.
Salvatore Massimo Fazio
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Nata a La Coruña nel 1851 e morta a Madrid nel 1921, è stata scrittrice, giornalista, saggista, critica letteraria, poetessa, drammaturga, traduttrice, editrice, professoressa e conferenziera, prima voce intellettuale a introdurre il tema del naturalismo in Spagna. Antesignana delle idee sui diritti delle donne e sul femminismo, rivendicò l’istruzione femminile come qualcosa di fondamentale e dedicò una parte importante della sua azione pubblica alla difesa di tali principi. Tra le sue opere più importanti si ricorda La questione palpitante, una raccolta di articoli che l’accredita come una delle principali promotrici del naturalismo in Spagna, un movimento sorto come reazione al romanticismo. La Tribuna (1883) è considerato l’antesignano del romanzo sociale spagnolo, in cui s’incorpora per la prima volta il proletariato e si danno voce e un discorso proprio a una donna lavoratrice. Il metodo naturalista culmina tuttavia nel romanzo I casali di Ulloa (1887), in cui l’autrice descrive la decadenza dell’oligarchia terriera e la perdita del suo ruolo di guida sociale, un quadro drammatico del declino del mondo rurale galiziano e dell’aristocrazia spagnola. È stata la prima donna membro dell’Ateneo di Madrid (1906). Con Arkadia Editore è uscito La Tribuna (2024), tradotto da Alessandro Gianetti.
“Ecco un esempio di terrore politico. Non sanno cosa fare. In realtà, la politica non ha mai saputo cosa fare con l’arte, se non comprare gli artisti. Non c’è niente che mi dia più piacere che spaventare questi incapaci».”
Un genio ribelle, audace, anticonformista, stravagante e brillante, tutto questo è Esteban Krause, “ L’artista più grande del mondo”, narrato dalla tagliente penna di Juan José Becerra, uno dei principali autori argentini viventi, entrato nella collana Xaimaca, curata da Alessandro Gianetti, Marino Magliani e Luigi Marfè di Arkadia editore. Esteban Krause, dunque, è L’ artista più grande del mondo, osannato, divinizzato, temuto anche dai potenti, le sue feste sono fastose ed eccessive, le sue opere, le sue esposizioni sono fuori dai canoni degli imbecilli, che comprano un Krause e sono malati di name-dropping. “Krause era famoso nel suo ambiente per creare un clima di controversie interne, aspettative, filtrare il suo nome nella massa dell’informazione generalista al fine di ottenere ciò che considerava la “protezione dell’opera”. Non aveva mai permesso alle sue mostre di confrontarsi liberamente con i critici. Diceva che la critica d’arte non è una scienza, ma un mercato di leccapiedi rancorosi, e che quel mercato aveva un prezzo che lui era in grado di abbassare o rialzare” A raccontare lo straordinario artista è il suo amico e scrittore Juan del Valle, erede di una casa nel quartiere più esclusivo di Buenos Aires, Barrio Parque, completamente da ristrutturare. A chi chiedere una mano se non al suo folle amico artista Esteban Krause!? Krause vive con la bellissima Greta, in una tenuta nel Penedès, vicino a Barcellona, costellata da enormi sculture in ferro e dei vigneti Sumoll che coltiva per i suoi vini, una camera del silenzio dove viaggiare per ritrovare il suo sé fragile e selvaggio, un cubo rivestito da mille coni in vetroresina a mo di trono. C’è una sorta altalenante di sfida e di ammirazione tra i due personaggi nati dalla spregiudicata penna di Becerra, dove anche le figure femminili, Greta e Flavia, diventano oggetti versatili di contesa sessuale. Juan del Valle è uno scrittore costretto dal mal di schiena a dettare il suo romanzo a una macchina, uno scrittore che scrive senza l’uso delle mani, osserva le stramberie e le follie di Krause che sfociano spesso in banalità pantagrueliche, vistosamente eccessive, e paradossalmente, è uno scultore che a sua volta non usa le mani, ma solo il suo pensiero, il suo estro creativo e geniale. Il più grande artista del mondo è uno slancio ironico contro la banalità culturale, la convenzionalità dell’arte e i suoi limiti. Perché leggere L’ artista più grande del mondo? Semplicemente perché è un libro tanto divertente, quanto folle, per tutti i lettori che bramano una trama coinvolgente quanto caustica, un romanzo moderno, a tratti psichedelico, effervescente.L’artista più grande del mondo sferza e ferisce l’università dell’arte sempre più inflazionata e mercificata; l’amore e le sue contraddizioni, tra sesso e materialità; la letteratura e la scrittura che sovrabbonda di scrittori, vicino allo sterminio, in un tempo in cui chiunque può scrivere. Un romanzo ambizioso, pungente, dal ritmo frenetico, ironico e mai banale, Becerra è abile e versatile nella sua tagliente scrittura, ormai icona di stile e di eccentricità che fa di lui una voce fuori dal coro. Volevo scrivere questo libro come un qualsiasi scrittore, come lo scrittore che ero, ma non riuscivo a sopportare il dolore alla schiena. La versione che state leggendo è quella di una macchina, che ho fatto costruire per adattare il mio linguaggio parlato a una trascrizione di cui possa fidarmi. Registra soltanto la mia voce, che soltanto la mia voce può correggere o cancellare.
Juan José Becerra.Nato a Junín nel 1965, è giornalista professionista e segue sia vicende calcistiche sia la critica letteraria. È autore di opere di narrativa acclamate in patria e all’estero come Santo (1994), Atlántida (2001), Miles de años (2004), Toda la verdad (2010), La interpretación de un libro (2012), El espectáculo del tiempo (2015), ¡Felicidades! (2019), Amor (2023). El artista más grande del mundo è stato pubblicato per la prima volta nel 2017 ed è già stato tradotto in diverse lingue.
Loredana Cilento
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Mentre leggevo La guglia d’oro di Montserrat Roig, non ho potuto fare a meno di ricordare alcune scene de Il nemico alle porte, film del 2001 di Jean-Jacques Annaud dotato di quello che all’epoca era un fastoso cast hollywoodiano. La ricostruzione dell’assedio di Leningrado tentata dall’autrice catalana si è andata così sovrapponendo ai fotogrammi della battaglia di Stalingrado secondo la prospettiva registica di Annaud, e questo non soltanto per l’assonanza tra i nomi delle due città oppure per il lavoro di ricostruzione storica che è comune alle due opere (anche se con esiti radicalmente diversi: pseudo-kolossal per Annaud, indagine storica, culturale e soprattutto introspettiva per Roig).
A stabilire questa connessione è stato, più che altro, il ricordo di un’ondata di interesse piuttosto intensa, negli ultimi decenni e nel cosiddetto “blocco occidentale”, per i fatti avvenuti sul fronte sovietico durante la seconda guerra mondiale – ondata che è forse montata, per paradosso, soltanto dopo la fine dell’Unione Sovietica (e la conseguente liberazione da alcune paure di contaminazione ideologico-politica), ma che è presto scemata e oggi appare certamente improbabile veder tornare. Gli ostacoli ingombranti e tragici che si sono frapposti negli ultimi anni sono purtroppo assai noti, fino alle loro implicazioni più minute, e spesso anche più grottesche: dall’affaire-Nori (come un esempio, fra i tanti, di ciò che è potuto succedere quando ha iniziato ad aleggiare lo spettro dell’embargo culturale nei confronti della Russia di oggi) all’inciampo del parlamento canadese sul caso dei veterani della cosiddetta “Divisione SS-Galizia” operante in Polonia e Ucraina.
Questi ultimi esempi, nonché il contesto che li determina, sono ricordati non tanto allo scopo di prendere posizione – non è questo il luogo, né certamente l’intenzione, in un contesto di dibattito pubblico, e di conseguenza anche culturale, già estremamente polarizzato – bensì per mettere a fuoco la distanza, forse persino epistemologica, che ci separa dalla realizzazione del reportage pietroburghese di Montserrat Roig nel 1980 (anno, peraltro, delle Olimpiadi di Mosca).
Beninteso, non è difficile entrare nel testo di Roig – reso, in traduzione italiana, con grande freschezza stilistica e senza mai intoppi dal catalanista Piero Del Bon – ma capirne i motivi profondi richiede una certa “sospensione di credulità” rispetto al nostro presente e l’esigenza di provare a tornare al contesto della guerra fredda, nella sua fase terminale. Verso un periodo, dunque, in cui è possibile per Roig esordire con alcune righe di autentica forza morale e politica, non per caso espresse da un’autrice (e per di più di un’autrice formatasi nelle file di un partito socialcomunista catalano, e con una forte vocazione giornalistica): «Se sperate di leggere un libro sul paradiso sovietico, lasciate perdere, non proseguite. Se cercate le riflessioni di un’intellettuale disincantata sui tradimenti dell’URSS, anche. Non parlerò di economia, né di progressi speciali, ma nemmeno di gulag e di ospedali psichiatrici. Di questo si fanno carico ogni giorno i giornali occidentali».
A Roig interessa altro, e il suo tentativo di ricostruzione storica dell’assedio di Leningrado si mescola alla sua passione per la storia e la cultura russa: «questo libro è la storia di una passione», scrive a chiare lettere l’autrice in chiusura della nota introduttiva intitolata “A modo di avviso”, dopo aver ricordato l’incoraggiamento a proseguire nel proprio lavoro ricevuto da un grande intellettuale e scrittore latinoamericano, altrettanto libero nella propria scrittura e nei propri posizionamenti, come Eduardo Galeano. È da questa angolatura che, quasi inevitabilmente, deriva l’attenzione che viene posta in tutto il libro sulle figure dei traduttori che vengono incaricati dagli apparati di accompagnare la scrittrice catalana nel suo viaggio: prepotentemente presente, e caratterizzato da una insicurezza maschile che lo rende aggressivo, fino al punto di essere definito “un secondo Rasputin”, il primo; timido, sempre accomodante e quasi inconsistente il secondo.
D’altra parte, avvicinarsi a Leningrado, alla sua storia e alla sua cultura, è un fatto di traduzione, dinamica della quale Roig a un certo punto decide di prendere le redini, come si nota chiaramente nella seconda parte del volume, dove “Pietroburgo” si sostituisce a “Leningrado”. Al di là di alcuni incontri con esuli provenienti dalla Spagna – a riconferma del fatto che, per quanto ideologicamente, politicamente e culturalmente distanti e diverse, le storie della Russia e dell’Europa occidentale sono sempre state intrecciate – Roig cerca di indagare il destino dei poeti e degli scrittori che hanno vissuto nella città, con una particolare predilezione per Puškin, ma certamente senza dimenticare Le notti bianche pietroburghesi di Dostoevskij. Zona dell’immaginario letterario, quest’ultima, ma anche un fatto quotidiano, in quell’area di mondo, con tutte le fantasie e le allucinazioni cui questo particolare fenomeno dà vita – allucinazioni che arrivano a inglobare quella “grande anima russa” che Roig, come i suoi lettori, sanno essere al contempo grande costruzione culturale, consolidatasi nei secoli, e, specie se vista da Occidente, pallido stereotipo.
Roig vuole e riesce a condurre il lettore verso altri lidi, costruendo un percorso di consapevolezza, che in parallelo è anche il proprio, come mostra il suo continuo andirivieni tra reportage letterario e scrittura diaristico-autobiografica. Chi legge si ritrova costantemente al suo fianco e, tanto su una Prospettiva Nevskij sulla quale la luce dirada pianissimo e si ripresenta poi alle prime ore del mattino, quanto nella ricerca di un percorso più solidamente fondato nelle notti bianche, per nulla affascinanti, che costituiscono le nostre angosce geopolitiche contemporanee.
La guglia d’oro è in definitiva il racconto del progressivo avvicinamento verso l’altro, un altro percepito dapprima come distante “La città delle pietre”, e poi via via sempre più umano e vicino, “La città delle persone”. Il finale, in cui Montserrat Roig torna nella sua Barcellona, dove tutto sembra riprendere come prima, indifferente alla scoperta, contiene la consapevolezza che Pietroburgo – ma il discorso è felicemente estrapolabile – toccata e finalmente percepita, non potrà che continuare a far parte di chi è partito.
NdR “La Guglia d’oro”, della scrittrice catalana Monserrat Roig, è stato pubblicato recentemente (settembre 2023) da Arkadia editore, nella traduzione di Piero Dal Bon, e con la cura da Alessandro Gianetti
Lorenzo Mari
Il link alla recensione su Nazione Indiana: https://bitly.ws/33bSi