Xaimaca Jarama


La storia di José Luis Cancho quasi morto e resuscitato

SCAFFALE. Per Arkadia «I rifugi della memoria», l’autoritratto dello scrittore spagnolo. Militante del Partido del Trabajo, fu defenestrato dal terzo piano del commissariato di Valladolid. Era il 18 gennaio del 1974 e aveva 22 anni quando, dopo aver pubblicato quattro romanzi, ha deciso di scrivere di sé e della sua vita, José Luis Cancho avrebbe potuto imboccare strade consuete: la classica autobiografia, la diaristica, il memoir o la sin troppo praticata autofiction, della quale il prolisso narcisismo alla Knausgård rappresenta la versione più estrema. Con I rifugi della memoria (Arkadia, pp. 76, euro 13, ben tradotto da Marino Magliani) lo scrittore spagnolo ha scelto tuttavia un altro percorso, nota Andrés Barba nella prefazione, accostando il libro all’Autoportrait di Edouard Levé e al Mi ricordo di Joe Brainard (Lindau, 2014).

COME LORO, infatti, anche Cancho azzarda un modo eterodosso di raccontarsi e, anche se a differenza di Levé e Brainard (fotografo il primo e pittore il secondo) non si è mai dedicato alle arti visive, la sua scrittura è così evocativa e ricca di immagini da far assomigliare I rifugi della memoria a un album di schizzi o di istantanee. La prima in cui ci imbattiamo è quella di un corpo che, il 18 gennaio del 1974, precipita dal terzo piano del commissariato di Valladolid: il corpo di José Luis Cancho, studente di ventidue anni, arrestato per l’ennesima volta in quanto militante del Partido del Trabajo de España e membro della Joven Guardia Roja. Torturato per un giorno e una notte da quattro membri della Brigada Político-Social, la polizia segreta franchista, Cancho venne creduto morto e gettato dalla finestra per simulare un suicidio, com’era accaduto nel gennaio del 1969 a un altro studente, Enrique Ruano, giusto un mese dopo la defenestrazione di Giuseppe Pinelli (una terribile coincidenza che esprime il clima di un’epoca, un sinistro trait d’union tra una dittatura morente e una democrazia in preda alle convulsioni).

A DIFFERENZA di Ruano e Pinelli, però, Cancho sopravvisse, e, dopo una settimana di coma, sei mesi di immobilità e due anni di galera durante i quali imparò di nuovo a camminare, tornò libero grazie all’amnistia elargita dalla Transizione. Tratteggiato con frasi prodigiosamente concise che, secondo Barba, ricordano uno di quei misteriosi personaggi di Bernhard capaci di «comprimere in tre parole le osservazioni di tre anni senza spettinarsi», il frammentato autoritratto di Cancho non può cominciare che da qui, dalla scena capitale della sua quasi-morte, descritta con spassionata oggettività e inevitabilmente legata al carcere e alla militanza, che nel corso della narrazione diventano una sorta di leitmotiv quasi inavvertibile: la quiete necessaria alla stesura di un romanzo ricorda quella dei mesi trascorsi in isolamento, le trame da mettere sulla carta hanno un precedente nelle storie inventate per rispondere agli interrogatori, le identità assunte da clandestino fanno pensare al bisogno di crearsi ciclicamente vite nuove che segnerà il futuro dell’autore. Esausto, l’ex prigioniero finirà per abbandonare una militanza così totalizzante (ma senza rinnegarla o ridicolizzarla come farà il suo ex compagno Andrés Trapiello, oggi famoso scrittore vagamente revisionista), diventando un maestro di scuola senza vocazione e poi un nomade perso nelle città e nei deserti dell’America latina, per tornare infine a casa e approdare alla letteratura.

E SOLO DA SCRITTORE ormai consacrato avrà voglia di ripercorrere le orme confuse che si è lasciato alle spalle, prima che gli scivolino via dalla memoria. Così, scrivendo «senza filtri, senza artifici, senza travestimenti, senza retorica», in una prosa talmente essenziale da avvicinarsi alla poesia, José Luis Cancho ha condensato il racconto di una vita straordinariamente intensa in meno di ottanta pagine, concludendo ogni capitolo con una costellazione di fulminei episodi e incontri, gusti personali, stati danimo, tratti del carattere, rapidissime confessioni, quasi delle note a più di pagina sostanzialmente slegate dal testo, secondo una scelta formale spiazzante e suggestiva.

NELL’EPILOGO, lo scrittore esprime il dubbio di non essersi davvero ricongiunto, nonostante tutto, con il proprio «io reale», ombra che cerca ostinatamente di trasformarsi in personaggio da romanzo, interrogandoci una volta di più sul rapporto tra finzione e realtà. Quale che sia la risposta, accade raramente di imbattersi in un testo capace di ritrarre con altrettanta acutezza e originalità non solo chi lo ha scritto, ma una generazione di militanti e, insieme, un momento storico (gli ultimi colpi di coda del franchismo, una transizione densa di compromessi, le speranze, le delusioni) narrato attraverso la «morte», le rinascite, la lunga ricerca e la solitudine di qualcuno che, come dice Tomas Tranströmer nell’epigrafe scelta da Cancho, si porta dentro i suoi volti precedenti «come un albero/contiene i suoi anelli».

© 2020 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

Francesca Lazzarat



«Razze e culture, sempre mescolate»

Intervista. Tradotto Caribe, il romanzo-metafora del cubano Fernando Velázquez Medina.
«La vita di Diego, il protagonista, è la negazione di quella che è considerata la storia dei Caraibi»

Di Fernando Velázquez Medina, uno dei padri del realismo sporco riconosciuto su scala planetaria, è uscito, tradotto dal duo Magliani-Ferrazzi, per la collana Xaimaca di Arkadia, Caribe. Pubblicato originariamente nel 2016 a L’Avana, il potentissimo romanzo/metafora, narra del giovane Diego, costretto a fuggire dalla condanna della Santa Inquisizione per un crimine mai commesso. Ad aiutarlo un francescano che lo imbarcherà verso viaggi di esplorazione di terre e culture, dove Diego farà anche la conoscenza del più famoso corsaro di tutti i tempi, Francis Drake. Ciò lo solidificherà. L’autore inserendo la fiction punta a interrogarsi su vicende storiche che divenute luoghi comuni, dal 1500 a oggi, mettono in discussione troppe verità conclamate. Dai vittimismi arcaici neo latini contrapposti a condanne occidentali, gli chiedo sulla polemica contro la negazione della storia, “incipit” di un Diego oramai anziano. «Tutta la vita di Diego – incalza – è una negazione della storia “ufficiale” di Cuba e dei Caraibi, sempre raccontata da una prospettiva anglosassone. La scelta di esordire con Diego vecchio che racconta le sue esperienze è stilistica perché oltre al fatto che attraversiamo la vita a ritroso, non sappiamo mai cosa succederà domani».

Diego è metafora di chi non segue un mentore che lo erudisca, ma che ne sarà costretto: quali risultati e quale l’ispirazione?

«Ispirazione? Le vite di tanti uomini riusciti a progredire socio-culturalmente nonostante le loro carenze accademiche: Gengis Khan, Brunelleschi, Sor Juana Inés de la Cruz o Borges, ho notato che illuminarono il mondo grazie alla loro voglia di imparare a decifrarlo. Anche Francis Drake, che Diego seguirà, è uno dei migliori marinai di tutti i tempi, senza aver fatto studi matematici».

Le “scoperte” di altre terre a opera di occidentali, sono basse giustificazioni per sottomettere altri popoli?

«È transculturazione ed è sempre esistita. Le culture sono state mescolate, come le razze, sin dalla preistoria. Guarda le piramidi egizie e quelle dell’America centrale: mescolanza di civiltà nel corso della storia, ma nessuno sa come quel design sia arrivato nelle Americhe. La conquista europea non fu che invasione ma si pensi ai Caraibi e agli Indios di Caribe che facevano altrettanto: dediti al saccheggio e alla distruzione delle tribù meno bellicose. In breve: l’America era già sanguinosa prima dell’arrivo di Colombo».

Demagogia che si protrae da secoli. Un esempio è il frate di Diego, che voleva scoprire verità su Maya e indiani?

«Uberto, cercava il nesso tra le culture indigene precolombiane, la civiltà egizia e quella afro-islamica. Non poteva conoscere gli indizi dei legami tra le civiltà azteca, maya e inca con il Giappone e la Cina, seppur i Maya producevano oggetti simili a quelli cinesi, o ancora, ci sono tribù messicane, i Tarahumara, la cui lingua è parimenti all’antico giapponese. Dunque il monaco è la rappresentazione del suo tempo: non accetta ciò che dicono autorità accademiche, né politiche, né religiose».

 Uberto, il frate/mentore per Diego: potrebbe essere utile per un giovane di oggi ostile agli studi?

«A quei tempi, per imparare, c’era un maestro che ti formava. Oggi è complicato: se non hai una laurea vieni rifiutato da “professionisti” accademici. Il fatto che Diego avesse un tale mentore fu la sua fortuna per riuscire a sopravvivere adattandosi alla società europea post-rinascimentale».

Questo romanzo può rivalutare il modo di intendere l’Occidente? E si consoliderà, a tuo dire, tra i classici non solo della letteratura cubana, come accaduto con il suo precedente?

«A quei tempi tutti invadevano tutti. I Normanni attaccarono Bisanzio e conquistarono la Sicilia. I Popoli del Mare attaccarono l’Egitto e i Romani lo conquistarono. Gli Spagnoli non solo conquistarono l’America, ma anche il Nord Africa e l’Italia meridionale. Fino alla Seconda guerra mondiale la legge del più forte era in vigore, oggi Putin invade l’Ucraina e i latinoamericani non si allarmano. Il tutto è determinato da chi possiede le armi migliori e non dalla ragione o da chi è più civile».

Una curiosità: il monaco “Uberto” Eco ha attinenze con il nostro Eco?

«Si tratta del mio personale omaggio a Umberto Eco, morto senza Nobel, ma con gloria come Borges o Carpentier; ma l’offesa prosegue: un cantante popolano come Bob Dylan riceve il Nobel! Dov’è il prestigio? Nei quattrini!».

 

Salvatore Massimo Fazio



Un ribelle che lotta contro se stesso

I rifugi della memoria – José Luis Cancho – Arkadia editore

 

Un ribelle che lotta contro se stesso.

José Luis Cancho ha vissuto gli anni della dittatura franchista; un periodo feroce, di inclusione coatta e di asfissia intellettuale. Tutto ha inizio da lì, da quando poco più che ventenne ha dovuto scegliere tra la sottomissione e la galera. José ha optato per la seconda strada, quella più tortuosa, ma non per diventare eroe, ma solo per spirito di contraddizione.
La contraddizione è la somma delle esperienze della nostra vita. Rimane con noi, ci perseguita, è il motore dell’esistenza. Risolvere le contraddizioni è come risolvere problemi, ma alla fine, non ne veniamo mai a capo, perché a una ne segue un’altra. In questo libro, José parla della sua vita, senza osannarsi, senza lasciarsi trascinare dall’euforia. Cesella una prosa scarna, un libro di ricordi, di emozioni sparse che si raggrumano intorno a un tema atavico: la ricerca del senso delle cose che ha sempre il sapore di una battaglia persa.
È stato un ribelle, poi un insegnante, poi un vagabondo, infine, uno scrittore. Si è fatto uomo stando in mezzo agli uomini, come un’anima dannata e senza pace ha girato l’America Latina. E nonostante abbia trovato tanti sensi e controsensi, nessuno di questi è stato rappresentativo, esplicativo, significativo; tutti infatti sono stati importanti.
La molteplicità spaventa gli uomini, anche quelli più caparbi. Troppi significati con cui fare i conti, troppe storture con cui fare a cazzotti, mai una volta che si riesca a raddrizzare ciò che è nato curvo. Allora, come amava ricordare Wittgenstein, il mondo è tutto ciò che accade, e anche gli esseri umani sono un “accidente” nel bel mezzo di un ordine. E poiché la vita di José è qualcosa che sta tra la gioia e il dolore della quotidianità, a lui non rimane che un pugno di ricordi da cui ripartire. La prossima tappa? Ignota. Come detto, il libro di Cancho non è un’autobiografia nel senso stretto del termine, ma è un’opera che sinteticamente si annuncia come una pacifica resa dei conti. Sono pagine che scaturiscono da quella saggia inquietudine partorita dalla pace dei sensi. Infatti, sullo sfondo, resta sempre quella sensazione di nostalgia, che sa diventare cinica, come Céline ha saputo insegnare a pletore di scrittori e di attenti lettori.

Buona lettura.

Martino Ciano

Il link alla recensione su L’Ottavo: https://bit.ly/3bcAVMp

 



Caribe

Io ho avuto una vita interessante, figlio mio, e non te la auguro. Ecco il motivo per cui te la racconto: perché rimanga traccia di ciò che ho fatto affinché la nostra famiglia non sprofondasse nella mediocrità.

Per apprezzare il romanzo di Fernando Velázquez Medina Caribe, la prima cosa da fare è sospendere il giudizio e mettersi in fiducioso ascolto, come un figlio o come un compagno di avventura seduto intorno al fuoco durante una notte di veglia e racconti, senza farsi troppe domande e prendendo per buono tutto quello che ci viene detto. Perché, se in certi momenti gli eventi appaiono un po’ esagerati, o se sembra mancare qualche dettaglio per far tornare i conti, probabilmente dipende dal fatto che la narrazione segue il ritmo e l’andamento irregolare di un racconto orale, inserendo riflessioni, digressioni, iperboli, commenti… perdendosi, in apparenza, per poi tornare a spiegare e riannodare i fili. Per fare un esempio: magari può capitare che solo verso la fine del libro veniamo a sapere dove avesse imparato a leggere (come ci racconta lui stesso all’inizio della sua storia) libri come La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, il Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meun o il Decameron di Boccaccio questo piccolo meticcio, figlio di “un indio maya e di una mulatta, a sua volta figlia di una negra e di un hidalgo castigliano” destinato a diventare il protagonista e principale narratore della storia che leggiamo. Dico principale narratore perché il romanzo ha una struttura articolata: Diego Valdés (Grillo, nel testo originale) inizia a scrivere – e a raccontarci in prima persona – la sua avventurosa vita solo nel capitolo tre, dopo che i due capitoli introduttivi ce lo hanno descritto già vecchio, nel suo ruolo di ricco e rispettato capo del piccolo villaggio cubano in cui risiede con la sua famiglia. Inoltre, circa a metà del racconto di Valdés, si incastra un altro mirabolante racconto in prima persona (questo, davvero, ascoltato intorno al fuoco dell’accampamento) narrato da un altro soldato meticcio le cui vicende poi torneranno misteriosamente a intrecciarsi e sovrapporsi a quelle di Don Diego. Come se non bastassero i mostri marini, le balene bianche, i serpenti piumati, gli indios cannibali (i Caribe – appunto – del titolo italiano, che gioca su un riferimento forse meno comprensibile rispetto all’originale El mar de los caníbales), i pirati e tutte le peripezie che davvero incalzano il protagonista per l’intera durata del romanzo in scene dal sapore genuinamente cinematografico, ebbene, se tutto questo non bastasse ad avvincere il lettore, il testo è anche intessuto su una serie di citazioni storiche e letterarie, alcune più evidenti e corpose, altre appena accennate. Immagino possa essere sufficiente, per stuzzicare la curiosità, menzionare il fatto che all’origine dell’improvvisa fuga del giovane Diego (il quale leggeva il Roman de la Rose, non lo dimentichiamo) da villaggio di La Habana ci sono: la Santa Inquisizione, un frate francescano, un monaco domenicano e una fanciulla. E che tutte le successive avventure Diego le vivrà al seguito del Maestro Umberto Eco da Bologna, appartenente al misterioso “Ordine Benemerito di Santa Sofia di Alessandria d’Egitto”, meglio conosciuto come La Fraternità”. Insomma, una lettura piacevole per l’estate e per gli amanti del genere avventuroso, ma anche molto, molto di più.

«Un mostro?» disse il maestro Umberto. «Bah! Ce ne sono tanti in giorno per il mondo. Ciò che per noi è un mostro è normale per chi ci vive vicino (…). I mostri esistono solo nel nostro cervello. Magari sono loro che ci considerano tali».

Tiziana Tonon

 



Il nostro rifugio prima della pausa: la sincerità di José Luis Cancho

Anche Ork fa i conti con l’approssimarsi delle ferie, un periodo di sospensione durante il quale porteremo con noi libri e storie che sapranno dirci, raccontarci, nominare tutto ciò che ancora non sappiamo o che è rimasto nelle retrovie in attesa della voce di uno Scrittore. In giro non ne circolano tantissimi, di questa specie in via di estinzione, nonostante l’area editoriale si mantenga su livelli di una sovrapproduzione di cui faremmo volentieri a meno. Nell’arco di pochi giorni, ci siamo ritrovati a scartare tre testi di un colosso editoriale, per ragioni diverse, per l’inesistenza di un’identità chiara (scegliere di fare esordire una neutralità è un investimento dubbio, salvo avervi rintracciato potenzialità future e, in tal caso, ci si chiede perché si sia scelto di pubblicarla anticipatamente), per la banalità nella scelta autoriale della modalità con cui affrontare il tema centrale, già inflazionata e senza un’anima, osiamo dire noi in un’apparente semplificazione, in mancanza, cioè, di un’angolazione anomala, di una luce propria, insomma, e meritevole nello sguardo tale da giustificarne la ripetitività schematica. Ancora per assenza di sincerità. E su questo punto mi tocca spendere qualche parola in più perché l’ospite di oggi, se una lezione ci consegna, lo fa proprio lungo il filo sottile, ma non per questo cedevole alle sollecitazioni esterne, che siano critiche o ruvidezze del mondo, del rapporto con se stessi e con il lettore. Si sottovaluta spesso quest’ultimo a tal punto da credere che gli si possa somministrare di tutto: non solo l’inesistenza di una dimensione stimolante, ma persino qualcosa dentro cui chi scrive non è o non è ancora. Se è vero che la narrazione si nutre di una necessaria percentuale di invenzione, è altrettanto vero che non si può scegliere di raccontare qualcosa che non abbiamo vissuto da qualche parte o in qualche forma, così come non si può elevare a pagina scritta qualcosa che abbiamo deciso, più o meno inconsciamente, di scansare. Non possiamo improvvisarci maestri di vita e del dolore, se scrivendo non troviamo il modo, nostro, di farceli entrare, la vita e il dolore, coerentemente a un’esperienza, intensa o anche distante, che comunque abbiamo fatto. È la fedeltà a quella coerenza il nevralgico punto di snodo di un’arteria che congiunge chi scrive a chi legge: la sintesi del patto con il lettore che lo Scrittore è in grado di creare, l’inizio di un’insospettabile collaborazione e di una crescita reciproca o il principio di un tradimento. Al lettore attento, attenzione non al critico, non sfugge e l’ammutinamento è molto di più di un’evenienza possibile del viaggio. Di là dalla fuga, l’isola felice: “I rifugi della memoria”, di José Luis Cancho (traduzione Marino Magliani), edito da Arkadia nella collana “xaimaca jarama”, è stato in qualche modo l’approdo sicuro e inaspettato di un viaggio intrapreso contro il volere propizio degli dei, ammesso di potere concepire come disaccordo divino la nostra incapacità di farci condizionare dai venti che spingono, nella triste ordinarietà di questi tempi, molte delle esperienze di viaggio sparse potenzialmente nei libri in circolazione. Il romanzo di Cancho è un atto estremo di fiducia nel lettore che sente di avere a che fare con un’identità che, raccontando della sua fragilità e dell’ambiguità che la natura umana tradisce e implica, si rivela in tutta la sua forte schiettezza. Quella coerenza, insomma, che è base di un innamoramento che, pur nel gioco proiettivo, si radica su un mantello di realtà, quell’elastico sostare in attesa della partenza verso l’alto, senza cui la lettura non svilupperebbe i suoi potenziali benefici. L’autore racconta di sé e della sua prigionia, dell’opposizione al regime di Franco e, nonostante questo sia già un disvelamento della propria esperienza di vita tale da giustificare l’urgenza dello scrivere, concede al lettore un pezzo in più, una moltitudine di tracciati che, convergendo nella complessità della ricerca di sé, traggono linfa e sostanza dal linguaggio. Questo accade non solo perché le parole finiranno per configurarsi come l’approdo, tardo ma inevitabile, delle innumerevoli tappe del suo percorso esistenziale, ma perché il verbo si fa latore di inganni e verità, scavalca la storia e il suo carico ideologico e accede a un piano di realtà ambiguo almeno tanto quanto tutto ciò che si cela oltre la necessità di definizione e di incasellamento nel falso e necessario gioco sociale che la vita in qualche modo impone ai fini della stabile sopravvivenza. Ma non è quest’ultima la dimensione congeniale a José Luis Cancho che le forme sceglie di sovvertirle, di scardinarle, provando a fare i conti con ciò che c’è sotto, sotto la realtà, sotto le parole con cui la medesima si costruisce e si pone sotto lo sguardo disattento di tutti, di molti. Non dei lettori. «Mi hanno buttato giù perché credevano di avermi ammazzato. Il fatto strano è che non solo non mi avevano ammazzato, ma non mi hanno ammazzato nemmeno buttandomi giù»: recita così un passaggio quasi iniziale dei suoi “Rifugi”, rivelando non solo le sevizie subite per ribellione al regime, ma anche l’interpretazione dell’accadimento che passa dal verbo, l’idea che l’altro si costruisce su di noi in merito al significato che attribuisce a ciò che si svolge sotto gli occhi e che dovrebbe essere univoco e non lo è, se lo Scrittore narra l’accaduto da un’ipotetica postazione oltre la vita (“Scrivere come se fossi morto, questo è il mio progetto.”). Dunque, la fallacità della parola che non riesce a farsi carico di una verità che non sia la scarnificazione della vita stessa e la sua riproposizione essenziale, ciò che Cancho decide sostanzialmente di compiere attraverso il diario nella cui forma chiaramente volge lo scritto ospitato da Ork. Lo Scrittore, facendo esperienza della prigione, finisce per porsi rispetto alla vita in un’ottica di matura distanza e, parallelamente, di ingresso ufficiale nella medesima, come se riuscisse, pur nell’attraversamento di una tragedia personale e politica, a trovarsi nel giusto punto di equilibrio per stare nelle cose quel tanto che basta per non farsi travolgere dalle medesime a ridosso del superamento del confine che ci piace definire “di non ritorno”, in cui smettere di fare i conti con la precarietà dell’umano e con le urgenze del Sé non è più possibile. Qui l’ideale è svestito della sua carica giovanilistica, non perde senso, ma disperde l’afflato del passato nella ricomposizione della vicenda storica dell’opposizione al regime in termini realistici, talvolta piegati alla convenienza e alla cooptazione. Qui il carcere è sperimentazione di una ritrovata libertà, il diritto di incarnare gli ideali senza menzogna (“E la cosa più importante era che in quel mondo recluso ci si poteva esprimere liberamente: oramai non c’era più niente da nascondere. Eravamo quel che eravamo, militanti antifranchisti, giovani comunisti delle più diverse tendenze: trtotzkisti, leninisti, maoisti, luxemburghisti.”), lo spazio in cui rinviare al rientro in società la finzione di essere ciò che non si è, il capovolgimento dell’ordinario, la dimensione che, sovvertendo i piani della verità e della menzogna, introduce lo scrittore all’ambiguità del vivere, lo spinge, una volta uscito, un po’ più in là dove possiamo essere tutto e il contrario di tutto (“Ero un io che creava altri io per scoprire se stesso.”), seppure entro un solco identitario, gli conferisce l’autorizzazione ad essere tutte le vite incarnabili dai limiti sanciti dal suo corpo, compatibili con i suoi tempi, con quella porzione di contraddizioni in cui sa e fa esperienza di essere. “Dietro gli occhi, in viaggio”, pastello secco su carta Pastelmat, Mork. Ciò rende questo spaccato di memorie non solo carico della schiettezza verso cui abbiamo provvidenzialmente virato prima delle ferie, ma anche necessariamente sviluppato verbalmente in un’estrema semplicità che è quasi un tornare a nascere, la frattura della crisi, il tempo prezioso dell’attesa, il buio, il cimitero che, insieme al quartiere e alla prigione, racconta di chiusure cicliche e di necessari abbandoni, la difficoltà di trovarsi fuori dall’assenza di verità, dalle mistificazioni e dai segreti, la fatica di darsi un linguaggio proprio che riesca a riesumarlo dalle spoglie di una vita passata. Miglior viaggio per noi creature aliene, eternamente indefinite, viaggiatori viaggianti di un tempo nostro in cui la vita entra a singhiozzi, senza per questo rinunciare alla sua forza, non poteva esserci. A noi pare il perfetto preludio ai prossimi spostamenti, alle paure da incontrare, alle maschere da lasciare, alle fragilità da portare tra le mani, un po’ sbilenchi, ma fedeli a una linea immaginaria. Non un partito o un’idea, ma quel desiderio che congiunge la realtà alla luna di Astolfo.

Mindy

 



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

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