“Per me scrivere significa dar voce alla parte più profonda di me”. Intervista allo scrittore Giovanni Agnoloni
Ho conosciuto Giovanni Agnoloni in occasione dell’intervista che gli feci per Toscanalibri.it, relativa al Connettivismo, la corrente letteraria alla quale era ascrivibile il suo romanzo distopico “L’ultimo angolo di mondo finito” (Galaad Edizioni, 2017). Da allora ho seguito con interesse i numerosi eventi e le pubblicazioni di questo giovane scrittore di narrativa e saggistica, che è anche traduttore dall’inglese, dallo spagnolo, dal francese e dal portoghese e conosce correntemente anche il polacco. È indubbiamente un autore poliedrico, ma soprattutto un poliglotta e globetrotter, visto il suo amore per i viaggi e per i paesi del Nord Europa. Dice di sentirsi felice in Irlanda, è vissuto a lungo in Polonia, è di casa in Germania, ma vive a Firenze, a cui lo unisce un filo sottile eppure indissolubile. Forse per questo, il suo ultimo romanzo “Viale dei Silenzi” (Arkadia Edizioni, 2019) vede protagonista un uomo inquieto che si muove tra Polonia, Irlanda e Germania, nel tentativo «irrimandabile» (p. 10) di lasciare Firenze.
Viale dei Silenzi – Il romanzo si innesta sulla ricerca del padre, una figura evanescente eppure sempre presente nella mente dell’io narrante, così tanto che, persino inconsciamente, diviene punto di riferimento di ogni sua azione: «La scrivania, che spiccava col suo dignitoso marrone sull’indaco pallido della carta da parati, era in ordine: il portatile, il mio taccuino degli appunti, una penna. Non avevo mai perso l’abitudine di scrivere prima a mano. Era una necessità fisica, di contatto con le cose. Mi aiutava a sentire che la realtà era ancora solida, che il macrocontenitore in cui mi muovevo in cerca di un significato non era prossimo a sfaldarsi in un’entropia di calcinacci. Così, con una gradualità costante, quel libro era venuto prendendo forma. Un romanzo che avrebbe dovuto riguardare tutt’altro, ma che aveva finito per parlare di te. O forse con te.» (p. 9). E, come il dialogo col padre è pressoché inevitabile, altrettanto appare esserlo la presenza di Firenze, città rifuggita, le cui continue epifanie rendono questo romanzo affascinante per la capacità di rendere protagonista tutto ciò che si desidererebbe eludere. Forse per questo, a mio avviso, “Viale dei silenzi” è una quest avvincente, un tentativo di ritrovare se stessi attraverso la figura paterna e di sentire l’appartenenza alle proprie radici in un altrove – Polonia, Irlanda, Germania – conosciuto e amico, quanto straniero e distante dalla propria città che instancabilmente e immancabilmente continua ad apparire, improvvisa e imprevedibile, agli occhi dell’autore.
L’intervista
Giovanni, che cosa ha rappresentato per te scrivere “Viale dei silenzi”?
È stata un’esperienza nuova rispetto al passato, perché si tratta del mio primo romanzo – parlando almeno di quelli editi – totalmente realistico, nel senso di “privo di aspetti distopici”. Nello scriverlo mi sono però reso conto che addentrarsi nei territori della memoria significa misurarsi con una serie di “demoni” – da intendersi sia in senso negativo, sia, socraticamente, come tramiti verso una comprensione più alta e complessiva delle cose – che appartengono a questo mondo, ma in realtà vanno anche oltre, se non altro nel senso che scendono nel nostro profondo. Con tutto ciò, come ho specificato nella pagina finale dei ringraziamenti, questo non è un romanzo autobiografico, perché, pur prendendo come spunti alcuni luoghi e momenti che ho vissuto e conosciuto personalmente, tratteggia una vicenda familiare del tutto altra da me. Ma certo ripercorrere nella finzione letteraria luoghi per me fortemente significativi come Varsavia, Berlino e Dublino è stata un’emozione speciale. Come guardarsi in uno specchio dopo tanto tempo e scoprirsi profondamente cambiati – tanto da non essere più “sé”, ma i personaggi e gli ambienti che formano la storia.
Chi è il lettore ideale di “Viale dei silenzi”?
Bella domanda. Mi verrebbe da rispondere “chiunque”, perché spero che lo leggano tutti. Ma cercherò di essere più preciso. È un libro che unisce le caratteristiche di una storia avvincente con i tratti tipici di un romanzo psicologico. Ed è scritto – come peraltro tutte le mie cose – con una mano che cerca di dosare semplicità e lirismo, per cui utilizzo sì espressioni poetiche, ma senza lasciar mai che prendano il sopravvento. Protagonisti devono sempre rimanere i personaggi, la storia e i luoghi. Perché, come giustamente ha detto lo scrittore Paolo Ciampi, co-direttore della collana “Senza rotta” che ospita il romanzo, questo è un libro di luoghi. I luoghi sono veri personaggi, che esplicano tutta la loro energia e la forza delle loro atmosfere. Per cui lo si può senz’altro considerare anche un romanzo di narrativa di viaggio, peraltro arricchito dalla presenza di una componente “investigativa” (o per lo meno di ricerca) che, se non lo rende un giallo in senso stretto, potrà sicuramente farlo amare pure dai fan di questo genere.
Può la scrittura essere ancora oggi un mezzo per raggiungere la parte più vera e più profonda del sé?
Assolutamente sì, come del resto ogni forma d’arte. Per me scrivere è sempre stato un momento essenziale di scavo interiore – e ripeto, non nel senso che nei miei libri parli di me, ma che quello che scrivo corrisponde ai percorsi di autoconoscenza che sto seguendo. Del resto, studio anche chitarra classica col Maestro Ganesh Del Vescovo, grandissimo compositore e cultore del suono, che mi ha permesso di addentarmi ancor più a fondo nelle potenzialità che questo ha di metterci in sintonia con la parte più intima e autentica di noi stessi, il Sé, appunto. Al contempo, sono da anni un fruitore della medicina olistica e vibrazionale, che ha come obiettivo la ricerca della salute attraverso l’individuazione e la realizzazione della vocazione più autentica della persona, e quindi il desiderio da attuare per la vita, che è appunto espressione del Sé. Quindi per me scrivere è sempre stato, ed è principalmente oggi, una ricerca artistica volta a dare voce alla parte più profonda di me, qualunque sia la forma esteriore che le mie storie assumono.
Serena Bedini