Valentina Di Cesare


Valentina Di Cesare, L’anno che Bartolo decise di morire

L’anno che Bartolo decise di morire nessuno si era accorto di niente, forse perché erano accadute tante cose: Vito e la moglie erano lì lì per lasciarsi, una delle più grandi fabbriche della zona stava per chiudere, Giovanni era tornato in città dopo parecchi mesi, a maggio c’era stata una violenta gelata che aveva compromesso i ciliegi, il Trofeo del Sole non si sarebbe disputato. E poi c’era Lucio. Lucio che aveva perso il lavoro due anni prima ed era più scoraggiato del solito, tanto che lo stesso Bartolo, preoccupato per lui, aveva deciso di parlarne con gli amici di sempre. Con Vito, con Renzo, con Giovanni, affinché tutti insieme si cercasse un modo per aiutarlo. E insomma, di cose quell’anno ne erano successe tante, al punto che, « a ripensarci adesso, viene quasi da chiedersi come mai fossero passate in sordina» e perché nessuno si era accorto di Bartolo, di cosa gli stava succedendo dentro, sebbene «qualche segnale qualcuno lo aveva notato: solo un po’ di stanchezza negli occhi, lo sguardo inargentato di luna calante, il sorriso un battito in ritardo rispetto agli altri, e poi un’inquietudine lenta, serpentina, trasmessa dagli occhi alle ossa e al respiro, un’ondulazione iterata del pensiero, una specie di aritmia esistenziale».
Leggere L’anno che Bartolo decise di morire, di Valentina Di Cesare, pubblicato da Arkadia Editore, significa chiedersi cosa vuol dire crescere e diventare adulti – quand’è che siamo diventati adulti? – perché potrebbe sembrare che niente di ciò che accade ci cambi veramente. Potrebbe sembrare che la vita sia “un intervallo continuo”, quando invece ogni cambiamento ci attraversa “come il rivolo che scanala le pietre” e quando ce ne accorgiamo è ormai troppo tardi. Per noi stessi e per le persone che ci sono vicine e che forse non ci conoscono, non del tutto, non in profondità. È ciò che accade a Bartolo e a Lucio e a tutti i personaggi di questo romanzo che sono cresciuti insieme, che insieme sono diventati grandi con l’illusione però di essere rimasti sempre gli stessi di quando erano bambini. Perché c’è chi riesce a vivere per sempre in questa illusione e chi no. E chi non ci riesce è perché avverte il dolore del mondo, e presta ascolto alle parole degli altri, perché se non ascoltasse le parole degli altri, non ascolterebbe neanche le sue.
L’anno che Bartolo decise di morire è ambientato in una città imprecisata e in un periodo storico indefinito. Questa indeterminatezza non è limite ma sostanza. Permette infatti di ritrarre un mondo immutabile quando invece il tempo scorre e produce strappi, lacerazioni, ferite insanabili. È come in una danza dove sembra che i movimenti siano sempre identici. I capitoli che si aprono con la ripetizione della frase del titolo, «L’anno che Bartolo decise di morire», mimano questa danza i cui movimenti appaiono identici e invece sono ogni volta più ampi, articolati, estesi, colmi di dolore, tragici, irreparabili: perché sono la conseguenza dei movimenti precedenti e li contengono tutti, gli errori compiuti, anche, e le parole non dette, i gesti taciuti e il senso di colpa che poi ci attanaglia. Perché se avessimo prestato abbastanza attenzione a quando ogni cosa è cominciata, fin dall’inizio, fin dal primo singolo passo che pure era innocente e puro e semplice, avremmo intuito come davanti a esso si profilasse invece l’ombra minacciosa del tempo che trasforma la fanciullezza in adolescenza e l’adolescenza nell’età adulta e poi in quella della maturità. Senza scampo. Senza possibilità alcuna di spezzarla, questa catena della vita che siamo.
In sintesi – e sempre ammesso che poi Bartolo muoia davvero e se tutto Bartolo o soltanto una parte di lui e quale – si potrebbe dire che l’anno in cui Bartolo decise di morire ogni cosa era in verità già cominciata ad accadere. Da prima, da anni, da lungo tempo: e se non da sempre, di certo dal momento in cui egli era venuto al mondo.
«L’anno che Bartolo decise di morire, nessuno si era accorto di niente. Parenti, amici e conoscenti non avevano sospettato nulla di quel che stava per accadere. Ogni cosa era uguale a sempre: l’estate era finita, l’azzurro del cielo si affievoliva e il sole di settembre aveva ripreso a tergiversare dietro gli alberi e le antenne della piccola città. Il vento a volte si alzava già rapido al mattino, muoveva le foglie e i rami con rumore di ventagli, e trasportava via le fronde delle piante sui balconi. Al primo accumulo di nubi, gli uccelli volavano bassi, come impauriti, sdrucendo l’orizzonte per mettersi al riparo sotto i tetti, mentre l’odore della pioggia si era già sprigionato e, in un momento, le prime gocce battevano sui vetri e le ringhiere stinte.»

Valentina Di Cesare è nata a Sulmona ed è cresciuta a Castel di Ieri, in provincia dell’Aquila. È insegnante di lettere alle scuole medie e giornalista culturale. Nel 2014 ha pubblicato il suo primo romanzo Marta la sarta (Tabula Fati) mentre nel 2017 è uscito, per Urban Apnea Edizioni di Palermo, un suo racconto lungo intitolato Le strane combinazioni che fa il tempo.

Gianluca Minotti



“L’anno che Bartolo decise di morire”
L’anno che Bartolo decise di morire, fu l’anno in cui Lucio venne seppellito

L’anno che Bartolo decise di morire, Valentina Di Cesare, Arkadia. Bisogna un po’ morir per poter vivere, e arrivederci amore ciao, le nubi sono già più in là, recitano i versi di una celebre canzone che è diventata oggetto del dramma per Moretti in una sua famosa e riuscita opera e che è evocata anche nel titolo di un bel – come al solito – testo di Carlotto: Bartolo, il protagonista del brillantissimo, struggente, straziante, emozionante, commovente fino alle lacrime, perché molto difficilmente chi legge non si sentirà di ritrovarsi come dinnanzi a uno specchio rispetto alla pagina, scritto di Valentina Di Cesare, che parla all’anima con voce piena, è un uomo buono. Semplice. Puro. Che ha il dono dell’empatia, che si preoccupa sempre per gli altri e che non vuole che gli altri si preoccupino per lui, che si imbarazza, che dà prima di ricevere, che soffre di una depressione latente che per pudore non confida ai suoi amici, tutti giustamente presi dai loro problemi, ognuno dai suoi, che ama da sempre, con cui è cresciuto, perché si vergogna, pensa che in fondo non ha diritto di lamentarsi. I buoni, si sa, si mettono sempre da parte. E si sentono in colpa. Perché sperano che il resto del mondo abbia la loro stessa capacità di accorgersi prima, senza che siano necessarie parole. Forse, però, significa pretendere troppo, da sé e dagli altri. Maestoso.

Gabriele Ottaviani



Intervista a Valentina Di Cesare

È uscito questa primavera il secondo romanzo di Valentina Di Cesare, dal titolo L’anno che Bartolo decise di morire (casa editrice Arkadia). Bartolo è un uomo che si sente profondamente solo, malgrado abbia un gruppo di amici apparentemente presenti. Nessuno sembra accorgersi del suo malessere. È un libro sul dolore che resta inascoltato, sull’incapacità di cogliere i segnali di sofferenza e le richieste di aiuto di chi ci vive accanto, sull’inadeguatezza delle relazioni e dell’amicizia al giorno d’oggi. Alla crisi dei rapporti umani fa da controcanto la crisi economica e sociale. La morte annunciata nel titolo a un certo punto arriva (anche se non sarà Bartolo a morire). E a fare i conti con essa è una intera comunità, protagonista nel libro attraverso una galleria di riusciti personaggi maschili, tutti compromessi, tutti trattenuti dall’incapacità di emergere da abissi tanto impalpabili quanto concreti. Un romanzo amaro, che si avvale di una lingua onesta, sorvegliata – di cui l’autrice ha piena consapevolezza – per raccontare solitudine e disagio della provincia.

DDA: Da dove nasce la necessità di raccontare questa storia? Che genesi ha avuto il libro?

VDC: “L’anno che Bartolo decise di morire” è un romanzo ricco di interrogativi sui rapporti umani, sui meccanismi che li governano e sulla capacità di ognuno di noi di ascoltare e comprendere i bisogni degli altri, in particolare nei momenti di difficoltà. L’ho scritto nel giro di un anno, ma i primi abbozzi sono cominciati circa tre anni fa, nel 2016, con la stesura di un racconto intitolato “Una persona eccezionale”, apparso anche online anche con un altro titolo, “Natale 99”. Rileggendolo ora, mi rendo conto che si trattava di una sorta di traccia preparatoria al romanzo.  L’esigenza di scriverlo è nata dall’osservazione della realtà e, chiaramente, dagli aspetti che di essa mi interessano di più, sui quali a mia volta mi interrogo. Come si fa ad aiutare veramente qualcuno? Chi può riuscirci e come? Che rischi corre una persona in grado di sentire le esigenze altrui e stare vicino a chi ne ha bisogno? Ho cercato di soffermarmi sull’attenzione che spesso manca tra le persone nei rapporti quotidiani, anche in quelli che crediamo più stretti e dunque assodati, invincibili, ho riflettuto sulla superficialità con cui spesso liquidiamo i comportamenti dei nostri simili, specie quando non li comprendiamo subito, o quando non sono consueti oppure quando non rispecchiano le nostre aspettative.  Stare vicino alle persone a cui siamo legati richiede impegno: talvolta vuol dire mettere da parte l’idea che avevamo di loro e soprattutto di noi stessi, anche per questo è cosa difficile e molto rara. Aiutare davvero qualcuno ci mette dinanzi ai nostri limiti e non tutti hanno intenzione di guardarli in faccia veramente.

DDA: Nel libro incontriamo una serie di personaggi di cui lei si serve per raccontare l’amicizia e il suo fallimento all’interno dei rapporti umani. È un sentimento di cui non conosciamo più il significato?

VDC: Non sono una sociologa, non voglio rischiare di dire banalità e sui temi più complessi questo è di certo un rischio che si corre facilmente. Quello che ho dell’amicizia è un pensiero altissimo, fondamentale, primario ma non credo di essere la sola. Coltivo questo sentimento con grande abnegazione, pretendo molto dai miei amici, forse troppo. Se dovessi dare la colpa alla letteratura, posso dire che il mio primo libro è stato “Il Mago di Oz“, l’ho letto che avevo sei anni. Posso dire che parte di questo forte interesse sia scaturito da lì, è inutile negarlo, poiché quel racconto fantastico è stato per me una vera ossessione durante l’infanzia e l’adolescenza e lo è tuttora e in effetti, se ci penso bene, soprattutto di amicizia, parlano, seppure in forme diverse, tutti e tre i libri che ho finora pubblicato. Mi rendo conto di essere stata sempre attratta da questo sentimento e da tutte le sue sfaccettature, probabilmente per l’elettività che lo caratterizza, ancor di più dell’amore, e ho continuato ad esplorarlo anche nella scelta di letture più mature, fatte col passare del tempo: penso ai classici greci e latini, alle Lettere a Lucilio di Seneca a Platone, a Cicerone per dirne alcuni.  Sto divagando, chiedo scusa:  tornando alla questione e cercando di evitare affermazioni stile slogan, credo che nel tempo che viviamo ci sia un gran vuoto individuale e, di conseguenza, un eccessivo timore di stringere legami elettivi perché questi prevedono scelte e le scelte, specie se ben precise, sono considerate arrischiate, imprudenti. Nel secolo in cui bisogna avere tutto o, peggio ancora, far sapere a tutti di averlo, l’amicizia non è certo esente da certi meccanismi e confonderla con altro è abbastanza semplice. Peccato, perché donare il proprio tempo a compagnie non scelte attraverso la misura del cuore e dei sentimenti in comune, per qualsiasi motivo si faccia, è un brutto affronto soprattutto a se stessi.

DDA: Ci parli dell’ambientazione a cui si è ispirata, delle sue scelte.

VDC: L’ambientazione che naturalmente prediligo è la provincia, perché in provincia sono nata e cresciuta e, adesso che sono maturata e ho scelto la strada della scrittura, ho finalmente consapevolezza di quanto “materiale” io abbia accumulato in quegli anni, materiale involontario appunto, la gran parte del quale penso debba ancora riemergere. Allora erano tutte intuizioni confuse, bagliori incontrollati che non sapevo definire né valutare ora finalmente tutto mi è chiaro e tutte le folgorazioni di quegli anni hanno assunto un significato preciso. Ogni tanto si palesa qualcosa che viene da quei tempi e si incontra a sua volta con la mia vita attuale e con l’osservazione quotidiana che faccio, così piano piano, sia consapevolmente che inconsapevolmente, inizio a lavorarci.

DDA: Si divide tra narrativa e scrittura critica, quale è il campo in cui si sente più a suo agio?

VDC: Narrare e vivere sono per me la stessa cosa, e per questo non mi sono mai trovata d’accordo con la tendenza così diffusa di mettere da una parte la vita e dall’altra l’opera, non mi riesce di disgiungerle, lo trovo profondamente innaturale. Ideare, creare, comporre una storia, impegnarmi affinché le parole possano combaciare con le intuizioni sono azioni che occupano quotidianamente la mia mente anche in maniera inconsapevole. Quanto alla critica, i miei sono piccoli contributi ai quali lavoro con dedizione. Diciamo che fare critica o tentare di farla è un piccolo grande dovere che esercito con rispetto e, perché no, con una punta di idealizzazione, nei confronti della Letteratura. Credo ciecamente nel ruolo che essa può esercitare nella vita delle persone e, soprattutto, le sono grata per ciò che dà a me,  perciò è il minimo che io possa fare.

DDA: Quali sono i suoi autori di riferimento, quali le letture più amate e perché?

VDC: Frequentavo il Liceo Classico “Ovidio” di Sulmona e il mio professore di latino e greco era il referente dell’antica biblioteca annessa alla scuola. Per incoraggiare noi studenti a leggere, propose una specie di gioco al quale accettai di partecipare: in base alle nostre personalità avrebbe scelto per noi libri che avremmo dovuto leggere a scatola chiusa, fidandoci. Il primo che scelse per me fu “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino che così divenne uno dei miei autori fondamentali, insieme ad altri via via scoperti in adolescenza, tra i quali Antonio Tabucchi, Giuseppe Pontiggia, Luigi Malerba, Dino Buzzati (in letteratura, all’esame di maturità portai “Il deserto dei Tartari“). All’università, grazie alla “mediazione” di un altro professore (con alcuni docenti sono stata fortunata) mi innamorai di moltissimi scrittori tra i quali Slataper, Jahier, Palazzeschi, Cialente, Parise, Savinio, Landolfi, Flaiano, Bufalino (cito quelli che continuo a rifrequentare per reale desiderio e “vicinanza” ma certamente ne dimenticherò diversi)  e mi laureai su Giorgio Caproni. Conoscere, leggere e analizzare interamente la sua opera, ha rappresentato l’inizio di una nuova consapevolezza innanzitutto come essere umano e  poi  come lettrice e, quindi, come futura scrittrice.  Non ho mai scritto né scriverò mai un solo rigo di poesia ma ne leggo molta, moltissima, sia di autori passati che contemporanei, sia stranieri che italiani. Trovo che sia indispensabile, specie per chi, come me, ha l’esclusiva vocazione alla narrativa. Allo stesso modo, non abbandono i classici, soprattutto latini e greci. Sono letture impegnative che alterno di continuo al resto, ma la loro bellezza e la loro ricchezza sono talmente affascinanti e attuali che sarebbe un sacrilegio privarsene, soprattutto in termini umani. Leggo molti narratori contemporanei, ma non sono legata a nessun genere in particolare o a particolari mode e/o argomenti. Mi piace spaziare disordinatamente da un testo all’altro, non seguo nessuna logica e mi destreggio di volta in volta tra fiuto personale e consigli di persone fidate. Ma comunque, e ci tengo a dirlo, ad eccezione di quelli di Tolstoj, per me non ci sono libri necessari, tanto più i miei.

Daniela D’Angelo



Quando la solitudine uccide

Bartolo lavora in un museo, è un uomo buono, capace di stare accanto agli amici e di ascoltarli. Soffre di depressione ma per pudore non confida a nessuno il suo disagio. Gli unici con cui ha un dialogo franco sono il maestro Nino, sempre pronto a dare consigli sul “saper vivere”, e l’amico Lucio, che, dopo il fallimento del suo matrimonio e la perdita del lavoro, decide di compiere un gesto drastico, che scuote Bartolo nel profondo. In seguito a questo fatto la storia prende una rotta inaspettata, regalando un finale sorprendente. Il secondo romanzo di Valentina Di Cesare, L’anno che Bartolo decise di morire, è un’operetta morale; un affresco sulla precarietà delle relazioni e sulla solitudine esistenziale del mondo contemporaneo.

Eleonora Molisani



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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