“IL DOLORE È CREATIVO QUANDO PASSA ”, INTERVISTA A GIOVANNI LUCCHESE
Uno dei romanzi più delicati, venati di ironia e sinceri che abbia letto negli ultimi anni è Un bambino sbagliato di Giovanni Lucchese, appena pubblicato da Arkadia, un marchio che si segnala per coraggio e capacità di reclutare nomi di tutto rispetto, magari fuoriusciti (sia detto a loro onore) dalle major editoriali. Nel caso di Lucchese, che non è un esordiente, si tratta invece di un salto qualitativo, del tutto meritato, soprattutto per l’armonia tra scrittura e vissuti narrati, sostenuti da una grazia che accompagna chi legge e non potrà dimenticare quel ragazzino che s’impegna sulle ruote della bici come su quelle della vita. Tutto è iniziato con la decisione di partecipare a un laboratorio di scrittura autobiografica tenuto da Rossana Campo. <<Ci sono andato in punta di piedi, lei è una scrittrice che da ragazzo adoravo e seguivo, è stato emozionante trovarmi seduto di fronte a lei. Fino a quel momento non credevo che la mia vita fosse interessante al punto da scriverci un libro. È stata lei a farmi capire che ogni momento è degno di nota, basta trovare la voce giusta per saperlo raccontare. Ho iniziato a rivivere alcuni momenti della mia infanzia e sono riuscito fin dal principio a trovare il filo conduttore>> spiega l’autore romano.
È stato difficile aprire il cassetto interiore dove tenevi custodite le esperienze che hanno segnato la tua infanzia?
È stato un vero e proprio vaso di Pandora. Sono partito proprio dal primo capitolo del libro, che è uno dei miei fatti più intimi e da quello è partita una reazione a catena. Un episodio tirava l’altro, un personaggio ne richiamava altri al suo fianco. Mi è sembrato di sentire le voci della mia infanzia, gli odori delle domeniche nella casa di campagna dove sono cresciuto, l’euforia dei giochi con i miei cugini e la rabbia che prova ogni bambino nei momenti in cui si sente sbagliato e non riesce a capire il perché. Mi sono divertito tantissimo, è un’esperienza che tutti dovrebbero fare arrivati alla mia età.
È possibile, per la tua esperienza di vita, uscire indenni dall’infanzia?
No, e non dovrebbe essere qualcosa che cerchiamo. Le ferite dell’infanzia sono quelle che ci formano come uomini e donne adulti. Bisogna saperle curare, aspettare che rimarginino, osservarle mentre si trasformano nelle cicatrici che determineranno i lineamenti del nostro carattere. Dobbiamo prendercene cura sapendo ridere di loro quando è necessario e portare loro il rispetto dovuto. Diffido fortemente da chi mi dice di avere avuto un’infanzia del tutto serena, priva di traumi e crisi esistenziali. Sono persone che mentono a sé stesse o, peggio ancora, hanno davanti a loro una vita piuttosto piatta e noiosetta.
Persone che non si siano sentite sbagliate per le false convinzioni dei benpensanti o le imposizioni culturali e sociali ne hai conosciute?
Pochissime. Meglio così, le persone ferite sono le più interessanti. Hanno ottenuto la loro emancipazione pagandola a caro prezzo, spesso sono state emarginate, hanno vissuto lunghi periodi bui o in totale solitudine. Ma hanno lottato, hanno saputo difendere i loro valori e ideali fino a diventare dei veri e propri angeli che camminano sulla nostra terra. Sono le poche persone in grado di leggerti dentro, di andare oltre le apparenze, di riconoscere un’anima pura da una inquinata, e possono darti gli insegnamenti e i consigli più utili che tu possa mai ricevere.
L’ironia e l’autoironia rappresentano sempre la salvezza o la via d’uscita?
Guarda, viva sempre chi sa ridere di sé stesso e delle proprie disgrazie. Anche degli altri, perché saper prendere in giro il mondo in cui viviamo è sempre un dono, ma è un lavoro che va fatto prima sulla nostra, di vita. Per uno come me l’ironia è una chiave di lettura da utilizzare più o meno sempre, mi viene naturale. È come un paio di occhiali attraverso i quali osservo ogni cosa, mi aiuta tantissimo a sdrammatizzare, a riordinare le priorità, a uscire indenne dalle mie crisi di ansia e smania di controllo, a capire che ogni ostacolo che si pone sul nostro cammino è stato messo lì al solo scopo di farci crescere e diventare più forti. È poi vuoi mettere, spiazzare qualcuno che si prende estremamente sul serio facendolo ridere di gusto. Una soddisfazione impagabile.
Il senso di emarginazione e il dolore sono serbatoi imprescindibili per chi voglia fare, creare, scrivere, inventare?
Sicuramente la fame aumenta la smania, la voglia di fare, il desiderio di riscatto, quindi ti dico di sì, ma con una riserva. L’emarginazione, il dolore, un trauma, qualsiasi evento drammatico che ci accade, vanno masticati, digeriti e metabolizzati. Solo dopo averlo fatto possiamo costruirci qualcosa sopra. Chi ha sofferto scrive meglio, ma lo fa dopo che il dolore è passato.
Mariano Sabatini
Il link all’intervista su Fattitaliani: https://bitly.ws/3bhBT