Tra le cose e gli altri


IVAN RUCCIONE: “SCRIVERE È PER ME IL MODO DI DIRE QUELLO CHE VOGLIO DIRE NELLA MANIERA PIÙ PUNTUALE POSSIBILE”

La tua passione per le narrazioni brevi è testimoniata anche dal blog che curi (che si può leggere qui: Mirino) cosa ti ha portato a questa forma così difficile e che deve essere tanto accurata?

A questo tipo di narrazione, fatta per frammenti, mi ci ha portato l’amore per la poesia e per le short stories. Entrambe le forme, a loro modo, hanno questa straordinaria capacità di dire moltissimo in pochissime battute, ma soprattutto di non dire, lasciando al lettore il piacere o il dolore di partire verso un altrove che non gli è dato sapere. Per questo motivo faccio molta fatica a farmi catturare dai romanzi (a parte rarissimi casi) perché ciò che trovo interessante in essi sono gli eventi marginali, quasi sempre irrilevanti, ma che io isolo e considero il mio personalissimo spannung. Mirino quindi nasce da una sorta di insoddisfazione, da un’esigenza di ricerca, poiché mi è sempre risultato difficile godere di letture di questo tipo, sia in rete che nei libri, e allora mi sono detto: “Perché non creare un blog che accolga le prose brevi, perché non accendere un piccolo faro?”. Come previsto, non è semplice dare continuità alle pubblicazioni perché, molto spesso, dal materiale ricevuto evinco che la pelle di quel testo era sulle ossa di qualcos’altro, che è stato tagliato e rattoppato per stare al di sotto delle 250 parole (come il blog chiede); magari uno di quei testi rifiutati da più riviste ma che per vari motivi si fa fatica a cestinare.

Quali sono i tuoi maestri letterari in questo genere delle short stories?

Veri e propri punti di riferimento in questo particolare genere non ne ho; ciò che ho fatto con “Tra le cose e gli altri” è il frutto dello studio di autori e autrici molto diversi tra loro. Ad esempio sono passato dall’analisi di poeti come Jacopo Ramonda (poeta che tra l’altro scrive solo in prosa), Guido Mazzoni, gli autori di “Prosa in prosa”, Margaret Atwood, Robert Hass, Raymond Carver, altri sconosciuti in Italia e che ho scoperto grazie alle riviste americane, come Charles Rafferty; e da narratori come Charles D’Ambrosio, Kevin Canty, ancora Raymond Carver, il John Cheever di “Una specie di solitudine”, Peter Orner, Amy Hempel, Lydia Davis, Hemingway, dalle prosette di Kafka e di Pessoa. Sebbene, però, il mio lavoro venga a volte etichettato come microfiction, mi sento lontanissimo da quel tipo di microfinzione che a me piace chiamare iper-narrativa, alla Régis Jauffret, per intenderci, o alla Giorgio Manganelli di “Centuria: cento piccoli romanzi fiume”. Di fatti credo che le etichette servano solo all’industria letteraria, e personalmente credo che “Tra le cose e gli altri” possa stare sia in una collana di narrativa (dove in effetti si trova, ovvero SideKar di Arkadia) sia in una collana di poesia.

La prima dichiarazione d’intenti – chiamiamola così – nel libro “È il non voler niente, invece, che mi rassicura” è generazionale, secondo te, oppure riguarda ogni uomo?

È complicato affrontare l’argomento in questo contesto, ma posso dire che secondo me non è né generazionale né riguarda ogni uomo; potrebbe però riguardare ogni uomo che fa i conti con se stesso, con le proprie miserie.

Questo è un libro che sembra percorso da un sentimento di dolore, è stato duro scriverlo?

È percorso da un sentimento di dolore ma no, non è stata dura scriverlo, e nemmeno terapeutico, come spesso si dice. Non credo in quella retorica che vuole la lettura o la scrittura come qualcosa di terapeutico. Non c’è amore né passione né niente che possa aiutarti, se stai male, solo la presa di coscienza e l’aiuto di un professionista. Poi, che un testo sia puramente finzione o qualcosa di altamente autobiografico, poco importa: non mi sognerei mai di scrivere senza far sentire il sapore del mio sangue.

Seppur raccontata per istanti e “notifiche”, c’è nel libro la presenza costante di social network e tecnologia. Ti spaventa o ne sei attratto?

Non sono né spaventato né attratto. Solo perplesso, ma dall’uso che ne faccio io; ho sempre il timore che questi canali possano veicolare un’immagine di me distorta, sia in senso positivo che negativo. Infatti, molto spesso cancello quello che posto. Non voglio che certe cose vengano cesellate in maniera definita, che si tratti di ironia, di sensazioni, di introspezione. Sono mutevole, niente di me dev’essere preso sul serio.

Un altro dei temi del libro, che mi pare venire dalla grande letteratura americana, è quello del non saper dire (penso al Raymond Carver di Un’altra cosa). Per te scrivere è un modo di riuscire a parlare dove la comunicazione orale non arriva più?

Scrivere è per me il modo di dire quello che voglio dire nella maniera più puntuale possibile, mondare un concetto finché non arrivo al cuore, al commestibile. Non ho grandi abilità oratorie, sono abbastanza timido, per cui farei persino fatica a raccontarmi qualcosa allo specchio. Preferisco ascoltare che parlare, e leggere è un modo di ascoltare.

Tra i ringraziamenti ce n’è uno che fa sorridere chi lo leggerà, se lo capisce, a Stanis La Rochelle, uno dei personaggi della serie televisiva “Boris”, perché l’hai citato?

Semplicemente perché “Boris” è una delle mie serie televisive preferite, e Stanis uno dei personaggi che più mi fanno ridere. Ma a pensarci bene, l’analogia riportata è perfetta per il libro.

In effetti sono molte le citazioni, esplicite come nel caso di Cioran o Cheever, ne immagino molte dissimulate (chissà quante?) oppure usate per la scena, come una canzone di De Gregori, Atlantide. Che senso ha, per te, citare?

Se non ricordo male, l’unica citazione non manifesta è “dolore navigabile”, un verso di Robert Hass, poeta che però cito nella stessa prosa. Più in generale, quando cito è perché, leggendo o ascoltando qualcosa, mi sono fermato dopo che una frase ha aperto un varco e mi ha dato modo di pensare a un evento da un’altra prospettiva.

C’è una scaletta abbastanza agghiacciante eppure parodistica per un romanzo autobiografico ancora tutto da scrivere. Lo scriverai mai?

Come detto in precedenza, scrivere un romanzo non è tra le mie priorità, anzi, ma mai dire mai. La scaletta di cui parli erano degli appunti presi dopo aver ascoltato la storia di una persona. Spero lo scriva lei.

Infine, secondo te un libro deve dire qualcosa, avere un senso generale? E qual è quello di Tra le cose e gli altri?

Credo che i libri dicano sempre qualcosa, ma è tutto estremamente soggettivo; quante volte sono rimasto deluso da libri che amici e conoscenti spacciavano per capolavori, e viceversa. Per quanto riguarda il senso di “Tra le cose e gli altri”, se me lo permetti, vorrei risponderti rielaborando le parole di René Ferretti quando Seppia gli chiese di che parlasse “Occhi del cuore 2”: «Guarda… “Tra le cose e gli altri” parla di… scaava… l’animo umano… E NOI – DOBBIAMO – CREDERCI!»

 

Paolo Restuccia

 

Il link all’intervista: https://bit.ly/30Nokyx



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