Alessandro Zannoni. Stato di famiglia
La famiglia accoglie, protegge, supporta.
Alle volte, deflagra. Non in metafora, in Stato di famiglia – racconti di Alessandro Zannoni pubblicati da Arkadia editore in una nuova, promettentissima collana, Sidekar – con il reale scoppio delle carni, la mira presa con cura a annullare i lineamenti dei propri cari.
Episodi che succedono, la cronaca ne è frequente testimone. Quando accadono, lo sgomento è prima per la modalità. Poi, in seconda analisi, per il detonatore: sono i piccoli, innocui movimenti quotidiani, sono le parole udite ogni giorno per anni, ripetute – è la ripetizione qui che scava la pietra – che in menti scentrate prendono direttrici impazzite.
O è la solitudine, quando profonda, non notata: quella di Anna, una Medea di spessore classico che apre il libro con la totalità di un gesto impensabile, impensato, a cui Zannoni dona perfetta la fisicità dell’atto, l’infanticidio, attraversando ogni sensazione corporea della donna mentre basta un suono, terribile, a definire ciò che è accaduto
Anna si meraviglia di ritrovare il suo corpo, la carne, i muscoli, e si accorge che le fanno male le mani, le ginocchia, la schiena, gli occhi, che le dolgono le orecchie. Non c’è parte del corpo che non sia dolorante, come l’avessero bastonata con cura, ovunque. Tu-tump.
Poi ricompaiono i pensieri. Disordinati e aguzzi, stridono come fossero impazzati. Feroci, vanno di pari passo alla forma circolare del ronzio della lavatrice, si impastano insieme, diventano unico pensiero, doloroso, acuminato, che penetra la vestaglia di lana rosa, vibra cupo sulla pelle, entra dritto nella carne. Tu-tump.
[…] spalanca gli occhi. Si meraviglia di ritrovarsi seduta davanti alla lavatrice accesa. Tu-tump.
Fissa l’oblò.
Dal corpo le esce un verso di animale che fa rabbrividire.
Tu-tump.
Il suo bambino, nella lavatrice, fa un altro giro.
Una botta fortissima, solo la prima: l’orrore è sotto i nostri occhi, impossibile negarne evidenza e presenza. È il Male connaturato, la zona nera che apre voragini delle mente di persone tranquille, normali, quelle che salutavano sempre: a rafforzarne l’impossibilità di evitarlo, Zannoni decide per un ragionato, straordinariamente efficace montaggio al contrario (da sceneggiatore e scrittore per il cinema quale è, ammirato peraltro da Luigi Bernardi cui deve il debutto per Perdisa pop).
È con il finale che si apre ogni suo racconto, con i minuti della risoluzione tragica: così è per Anna, di cui solo nelle pagine che seguono comprenderemo – senza mai condividere – le ragioni. Così sarà per Roberto, carabiniere impazzito di una gelosia accecante e del tutto immotivata, patologica agli occhi di chi legge ma non ai suoi. Così sarà via, via per gli altri personaggi: il figlio che vuole l’eredità per fare la bella vita, la donna sedotta dal soldo facile delle slot machine, il padre padrone esautorato.
Zannoni riesce a modellare la sua voce piegandola a rifrangere il Male in sfaccettature tutte differenti per i suoi tragici – nel senso più nobile e letterale del termine – personaggi, accomunati dall’efferatezza dei gesti finali, dal precipizio, ma divisi dalle ragioni che li hanno sopraffatti.
Storie nere di scollamento dal reale, di buio della ragione, giustificate dalla scrittura di Zannoni che si mantiene per tutto il libro tesa, di grande precisione nella scelta delle parole – scarnificate, essenziali – e nel ritmo senza una caduta. E ancora estremamente potente, dura, priva di giudizio, ottima testimone della profondità di certi abissi.
Uno dei libri italiani migliori degli ultimi tempi.
Anna Vallerugo