Sin rumbo


Eugenio Cambaceres | Sin rumbo

Nulla al mondo lo attirava ormai, nulla gli sorrideva, nulla di nulla lo teneva legato alla vita. Né l’ambizione, né il potere, né la gloria, nulla gli importava, nulla voleva, nulla possedeva, nulla provava. Nel suo ardore, nel suo folle affanno di consumare gioie terrene, tutte le forze segrete del suo essere si erano guastate come si guasta una macchina coi motori sempre accesi. Disperato, abbattuto, esausto, andava alla deriva, senza rotta, nella notte nera e gelida della vita. 

[Sin rumbo, Eugenio Cambaceres, trad. M. Magliani e L. Marfé]

Ricchezza e agiatezza non fanno la felicità. Può apparire un cliché, ma Andrés – ricco proprietario di terreni, hacienda, mandrie e datore di lavoro di servi e braccianti – è un uomo insoddisfatto dalla vita. Da sempre in disaccordo col padre ma difeso strenuamente dalla madre, Andrés è cresciuto con la consapevolezza che con potere e denaro è possibile fare qualsiasi cosa. L’animo di Andrés, però, è inquieto e l’uomo non riesce a capire cosa davvero voglia dalla vita.

Insensibile, dilaniato, senza fede, con il cuore di pietra, l’anima inaridita, annoiato dalla conoscenza della vita, da quell’insieme di bassezze umane: provvisto di un immenso arsenale di disprezzo per il prossimo, per se stesso, che ne sarebbe stato di lui? Chi era alla fine? 

[Sin rumbo, Eugenio Cambaceres, trad. M. Magliani e L. Marfé]

Così Andrés approfitta di Donata, la giovane figlia di un misero bracciante; quando la ragazza confessa di essere incinta, Andrés la abbanonda per evitare problemi e responsabilità. Una volta giunto a Buenos Aires, Andrés incontra diversi personaggi dello spettacolo e diventa molto intimo con una cantante lirica; ma nemmeno l’affetto dell’amante riesce a calmarlo, a far scomparire la sua irrequietezza, perché non è neppure questa la vita che vuole condurre.

Il ritorno alla hacienda, fuggendo di nuovo dalle proprie responsabilità nei confronti dell’amante, sarà all’apparenza gioioso, ma il destino avrà in serbo per lui nuove difficoltà. Andrés, nella sua cattiveria e crudeltà verso il prossimo, ha la sensazione che il cielo ce l’abbia proprio con lui.

Dio… ma dov’era quel Dio, il Dio della misericordia e della bontà, il Dio onnipotente che guardava impassibile ingiustizie come quella? Lui… beh, lui era stato un farabutto, un miserabile, che scontasse le sue colpe, che il cielo lo punisse, era giusto! 

[Sin rumbo, Eugenio Cambaceres, trad. M. Magliani e L. Marfé]

“Sin rumbo” di Eugenio Cambaceres (trad. M. Magliani e L. Marfè, Arkadia editore, 14,50 €) è un romanzo scritto nel 1885 e per la prima volta è stato tradotto in italiano. “Sin rumbo” – letteralmente, “Senza rotta” – è un’opera che si inserisce nella corrente letteraria del naturalismo, della quale Cambaceres fu uno dei maggiori esponenti in Argentina, facente parte della generaciòn del ochenta, tra i quali – oltre agli scrittori – sono compresi anche i politici che iniziarono a rinnovare il Paese.

Eugenio Cambaceres, figlio di un chimico francese e di un’argentina di origini inglesi, nacque e visse a Buenos Aires ma viaggiò molto in Francia, assorbendo e restando colpito dal naturalismo di Émile Zola. “Sin rumbo” ha molto di autobiografico: Cambaceres frequentò una cantante lirica, sposata, e questo generò un vero e proprio scandalo. Lo scrittore fuggì in Europa e laggiù si legò ad una cantante italiana, dalla quale ebbe una figlia. Nel romanzo, Andrés non scappa dall’Argentina, ma ha una figlia da una bracciante.
In “Sin rumbo” si ritrovano le tematiche care agli scrittori dell’epoca: il vivido e sincero affresco dell’epoca, delle proprietà terriere dei ricchi padroni, delle mandrie e dei numerosi quanto poveri e ignoranti braccianti; vi è l’ideale della colonizzazione dei vasti spazi argentini; ci si sofferma sul senso dell’immigrazione, e in “Sin rumbo” gli immigrati e indigeni lavorano nelle haciendas, ma a Buenos Aires gli immigrati – soprattutto italiani – si danno da fare anche nell’illecito.
Nel romanzo, il protagonista Andrés è un uomo giovane, tanto ricco quanto crudele, e il destino – o il cielo – si accanisce contro di lui, in particolar modo quando Andrés è sicuro di aver trovato uno scampolo di gioia. Ma il male di vivere, la noia, l’incapacità di apprezzare ciò che ha e la sfortuna non lo abbandonano mai, e si sente sempre più solo. I sentimenti di Andrés sono ancora molto attuali, per questo “Sin rumbo” è un romanzo che può leggersi con una chiave di lettura molto moderna.
“Sin rumbo” di Eugenio Cambaceres è quindi un classico che riflette sulla condizione umana dell’epoca ma è facilmente calabile anche nella nostra attualità.



Immerso nel suo pessimismo, scavato dai più grandi demolitori meccanici moderni, affondato nel più profondo nulla delle nuove dottrine, trascinava la vita nella più nera solitudine.
Era come morto, chiuso tra le pareti di casa, giorni interi senza voler vedere o parlare con nessuno, portato dalla corrente rovinosa del suo secolo. Pensava a se stesso, agli altri, alla miseria di vivere, all’amore (un maldestro richiamo dei sensi), all’amicizia (un disastroso sfruttamento), al patriottismo (un dovere o un residuo di barbarie), alla generosità, all’abnegazione, al sacrificio (tutte chimere, o mostruosa disaffezione per se stessi), misurando tutto in termini di onore e tenendosi lontano da ogni occasione virtuosa; e niente e nessuno veniva risparmiato al cospetto della legge amara e inesorabile del suo scetticismo. Nemmeno l’affetto della madre, figlio unico com’era del suo dolore; nemmeno dio, un assurdo spaventapasseri inventato dalla stupidità degli uomini.
E c’era uno squilibrio profondo nel suo organismo, impurità di carattere, sbalzi bruschi, immotivati, irritazioni senza ragione, le mille piccole contrarietà dell’esistenza che lo esasperavano fino al culmine della rabbia, suscitando nella sua sensibilità uno strano turbamento, come uno stato mentale vicino alla follia.
Nelle ore lente e fosche della siesta, nella fioca penombra delle sue persiane socchiuse, era solito alzarsi dal letto improvvisamente e spalancare il balcone.
Alla vista della terra falciata dal sole, dei pascoli spenti e appassiti, del vento che esalava il monotono gemito della sua voce e si scagliava contro le sommità degli alberi o alzava in lontananza nere spirali di fumo della campagna in fiamme, lo pervadeva un malessere inafferrabile, un odio, un senso di sazietà per quel panorama già visto mille volte.
Dava un colpo rabbioso alla finestra, chiudeva le persiane e, nelle dense tenebre della sua casa trasformata in un sepolcro, si buttava di spalle sul letto e fumava, fumava senza sosta, uno dopo l’altro, interi pacchetti di sigarette turche, il suo tabacco favorito, oppure se ne stava in un angolo, seduto, con i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani, e rimaneva a lungo immobile e sovrappensiero.
D’improvviso, un violento desiderio di uscire, una febbre, un furore di movimento lo assaliva.
Sellava lui stesso il cavallo e, controvento, con il cappello sulla nuca, le lacrime agli occhi e le orecchie che gli fischiavano, andava al galoppo, correva, divorava pazzamente le distanze.
Oppure si lasciava completamente assorbire dalla passione della caccia, e allora si alzava all’alba e se ne andava in campagna con l’ansia di uccidere e fare del male.
Al ritorno, uccelli, anatre, piro-piro codalunga, pernici venivano gettati a mucchi ai cani e ai maiali. Il suo palato non poteva sopportare quei pranzi.
Altre volte, nelle ore di calma e di quiete, come se il suo umor nero, di tanto in tanto, volesse fargli l’elemosina di una tregua, steso in giardino sulla sua amaca all’ombra degli alberi dei rosari, una minuzia, un nulla lo attraeva; il più infimo dettaglio della vita animale in una delle sue infinite manifestazioni.
Erano a volte le lunghe file delle formiche che andavano e venivano lungo il grigio snodarsi dei loro sentieri, che si fermavano, incrociavano le zampe, come stringendosi la mano quando si incontravano, e poi, indaffarate, alcune con il loro carico, altre senza, mandavano avanti il proprio lavoro accorto e paziente.
Oppure erano le abili, astute manovre dei rospi, nella loro guerra senza quartiere contro le mosche, che lanciavano a tradimento, con noncuranza, l’affondo preciso delle loro lingue.
O, ancora, era qualche passero, rovinato dalla cattiveria degli uomini o dall’inclemenza del tempo, cui era caduto e si era rotto il nido, obbligandolo a risollevarlo, a lavorare qua e là, contro il pozzo, sul bordo delle pozzanghere e, una volta fatta la mistura, preparato il materiale, a volare per impiegarla nella sua ammirevole costruzione con l’aiuto del becco, come un muratore con quello della sua cazzuola.
Una sera, dopo cena, Andrés era uscito, fumava di fronte a casa sua. D’improvviso, sentì un fracasso, si voltò e vide Bernardo, il suo gatto, il suo animale preferito, l’unico essere tra gli esseri che lo circondavano per il quale, per un’aberrazione forse prevedibile della delicatezza che c’era in lui, aveva sempre un gesto affettuoso, una carezza. Il cane del capo-squadra lo seguiva da vicino.
Come una palla di gomma, l’animale, sotto assedio, pazzo, saltò, cadde sui rami di un albero, vicino a un nido di pitango solforato.
La femmina, allora, allarmata, credendo di essere aggredita, increspò furiosa le piume; gridava, si agitava, batteva disperatamente il becco contro un ramo.
Il gatto, da parte sua, senza badarci e tutto tremante per il pericolo imminente, immergeva le unghie nell’albero e gli occhi al suolo, dove, leccandosi il muso e scuotendo nervosamente la coda come un serpente, il suo terribile avversario lo aspettava per l’agguato.
Andrés si fermò un momento a osservare la scena.
Era quello l’ordine, la decantata armonia dell’universo? Era Dio a rivelarsi in quelle azioni?
Ma, bruscamente, prendendo anche lui parte alla disputa, entrò in casa, prese il suo revolver e con una pallottola fece secco il cane.
Poi, salendo sull’albero con l’aiuto di una scala per la potatura che stava lì vicino: «Povero Bernardo, me l’hanno quasi ucciso!», disse, tendendo dolcemente la mano verso di lui.
Al suo tocco, il gatto, confuso, si girò e lo graffiò con le unghie.
«Canaglia!», esclamò Andrés, «questi sono i tuoi favori, è così che mi ripaghi… Sembri un uomo!»

 

NdR: questo testo è il quinto capitolo di “Sin rumbo”, l’opera inedita in Italia di Eugenio Cambaceres (traduzione di Marino Magliani e Luigi Marfè) che inaugura la nuova collana di narrativa ispano-americana curata dagli stessi Magliani e Marfè per Arkadia Editore (Cagliari).

 

Dalla presentazione dell’Editore:

Sin rumbo, “Senza rotta”, di Eugenio Cambaceres, tra i più importanti scrittori argentini della fine dell’Ottocento, rappresenta uno “studio” – come recita il sottotitolo dell’edizione originale – nel senso che veniva dato all’epoca alla narrativa dal naturalismo di Zola, intesa come indagine rigorosa e scientifica di come uno specifico contesto sociale possa concorrere a delineare il carattere e la vita degli individui che vi sono immersi. Con Sin rumbo, Cambaceres conferisce alla sua produzione letteraria un respiro più ampio, confrontandosi – tratto comune a molti degli autori argentini  dell’epoca, la generación del ochenta – con la scena letteraria europea, in particolare con quella francese di Gautier, Baudelaire e Zola.

Protagonista di Sin rumbo è Andrés, uomo ricco e fortunato dell’Argentina di fine Ottocento proprietario di un haciendaagricola e di mandrie di animali da allevamento. Nulla in apparenza lo può turbare. La sua vita scorre tra viaggi, donne e divertimenti, eppure tutto lo lascia insoddisfatto, nulla riesce a placare le sue ansie, a farlo sentire meno solo.

 

Giacomo Sartori



Piangi, Argentina

Pubblicato nel 1885, attaccato dai cattolici in quanto immorale e dai nazionalisti in quanto esotico. Sin rumbo è l’opera più significativa di Cambaceres (1843-1889), considerato il fondatore del romanzo argentino. Uno dei meriti di questo libro rabbioso e amaro che si apre e si chiude all’insegna della violenza, risiede nel fatto che l’autore va oltre il naturalismo e non si limita a descrivere gli effetti del contesto sociale sulle persone. Sembra anticipare un grande scrittore porteño del ‘900: “Nulla al mondo lo attirava ormai, nulla gli sorrideva, nulla di nulla lo teneva legato alla vita”. Questo passaggio non preannuncia forse la “zona dell’angoscia” di Roberto Arlt?

Loris Tassi



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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