Sin rumbo. La vita senza rotta di un uomo solo
Sin Rumbo, senza rotta, è il titolo di questo libro di Eugenio Cambaceres, pubblicato dalla sempre attenta Arkadia nella collana Xaimaca, dedicata alla letteratura sud americana. E senza rotta ci appare davvero la vita di Andrés, protagonista di queste pagine di Cambaceres in cui, a tratti, ci sembra di ritrovare tracce della vita dello scrittore stesso. Nato a Buenos Aires nel 1843 unì a lungo scrittura e vita politica, nel cui agone si trovò come deputato e come vicepresidente del Club del Progreso. Come il protagonista di questo Sin rumbo, Cambaceres ebbe una relazione con una cantante lirica, motivo di grande scandalo a cui si aggiunse la mancata sfida a duello con il di lei marito, che poi, decise di scappare in Europa.
Europa che vide anche lo scrittore, a Parigi esattamente, soggiornare lungamente e qui far suo l’amore per la letteratura francese, in particolare Zola, al cui naturalismo dedicò studio e ammirazione tanto da introdurlo in Argentina insieme a quegli scrittori con cui diede vita a quella che fu chiamata Generaciòn del ochenta.
In queste pagine seguiamo la vita e legesta di Andrés, ricco possidente, che vive in una meravigliosa estancia nella pampa argentina, non molto lontano da Buenos Aires. Qui la sua hacienda agricola gli garantisce ricchezza e benessere e un’esistenza fatta di viaggi, di donne, di gioco. Eppure. Eppure, novello erede dell’insoddisfazione shopenhaueriana, Andrés annega nella noia, in quella mancanza di senso, e di rotta, appunto, che lo conduce in quel limbo fatto di irrequietezza e rabbia. Verso sé stesso e gli altri. Il sentimento della solitudine non lo abbandona mai, soprattutto quando essa viene riempita da cose che non gli offrono appiglio alcuno.
Con la stessa pesante leggerezza con cui affronta i suoi giorni, Andrès affronterà la notizia che Donata, figlia di uno dei suoi braccianti, aspetta un figlio da lui. Indifferente tanto quanto insofferente parte per Buenos Aires, lasciando la donna e lo stesso desiderio animalesco per lei provato fino a poco prima. È questo solo uno dei repentini cambiamenti che nell’animo di Andrés sono la rappresentazione della sua insoddisfazione, del suo rifiuto di pensare e di soffermarsi su cose e persone che, per lui, altro non sono che momentanee tappe verso il nulla. A Buenos Aires comincia il consueto girotondo tra donne, scandali mondani, gioco d’azzardo, fugaci seduzioni. Fino a quando, con la subitaneità apparente che hanno le cose che, in realtà stanno scavando un solco da molto tempo, Andrés capisce che non è quella la vita che vuole. Ancora l’inquietudine lo guida anche se, questa volta, sembra guidarlo verso un ritorno che vorrebbe essere una nuova partenza. Andrès vuole conoscere suo figlio che, scoprirà essere una bella bambina, rimasta orfana della madre, morta pochi giorni dopo il parto. Ma il destino sembra avere in serbo per lui ben altro. Una sorta di maledizione, una impossibilità di trovare quiete.
Cambaceres ci regala un libro pregno di quelle atmosfere sudamericane in cui la realtà è talmente complessa da poter benissimo assumere i connotati della magia, anche quella nera, quella plumbea di un destino che sembra non trovare pace, condannato a pagare colpe che, in fondo, colpe non sono ma, semmai, umane debolezze.
In questo Sin Rumbo, Cambaceres ci consegna pagine in cui lo stesso stile accompagna e si distende sulle diversi parti di cui il libro si compone. Se, nella prima, un’attenzione quasi chirurgica ci immerge nella pampa, esso scivola poi nella languidezza e quasi decadenza della vita nella rutilante Buenos Aires e nei suoi amori carnali e fugaci. Ma poi, nella seconda parte, quella del ritorno e della disperata ricerca di un senso, lo stile diviene quasi una slavinante disperazione, una violenta, e tenera al contempo, entrata nel mondo della responsabilità di padre con la conseguente entrata in scena, nella vita di Andrès, della paura per il futuro. Solo allora si accorge, Andrès, che il futuro è un’ipotesi, un orizzonte degli eventi con cui fare i conti. Anche quando arriva troppo presto. Dando così ragione a Shopenhauer, ricordato nel libro, quando scrive: “Ci accorgiamo del tempo solo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. La nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo.” E per Andrès il tempo sarà la scoperta del dolore.
Cambaceres ci regala un personaggio che è figura dell’uomo solo e inquieto, così presente in molta letteratura del secolo successivo. Portatore di una domanda che è quella che porta a chiedersi se la felicità sia possibile anche solo per attimi fugaci.
Geraldine Meyer
SIN RUMBO
Andrés è un possidente, è giovane, ha tutto quello che potrebbe desiderare: agiatezza, denaro, donne, amicizie. La sua vita però è una melina tediosa e rabbiosa al contempo ‒ se i due aggettivi possono sposarsi insieme ‒ passata tra la estancia (le terre) nella quale lavora insieme ad un manipolo di peones ai suoi comandi, e Buenos Aires, dove vive una vita mondana tra teatri, bar, tavoli di baccarà e amanti occasionali d’alto bordo. Il ragazzo un animo inquieto, fumantino, non crede in Dio e ama Schopenhauer. Del filosofo polacco fa sua soprattutto la considerazione che “Ci accorgiamo del tempo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. Entrambe le cose dimostrano che la nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo: ne segue che sarebbe meglio non averla”. Nutre un certo disprezzo per il genere umano ed una sostanziale noia derivata da una perenne, frustrante, insoddisfazione. Pensa continuamente al suicidio come unica forma di liberazione da quella vita priva di senso. Poco prima di trasferirsi alcuni mesi a Buenos Aires, Donata, la figlia mulatta di un servo, gli dice di aspettare un figlio e che il figlio è suo. Forse Donata è innamorata o forse disperata perché sa come vanno le cose tra padroni e servi. Soprattutto, sa come vanno le cose tra padroni e serve. Andrés è infastidito dalla notizia, teme che possa bloccarlo lì. Donata gli piace e sa bene quello che ha fatto con lei, quindi si rifugia in uno sterile e poco convinto “tornerò”. Intanto a Buenos Aires conosce la Amorini, una cantante lirica italiana bella e avvenente in cartellone al teatro Colón. Tra i due scoppia una passione focosa, ma dopo i primi mesi Andrés inizia ad essere insofferente al ruolo di “primodonno”, di amante ufficiale della Amorini. Comincia a trovare nella donna tutti i difetti possibili e lo stesso fa con se stesso – arrivato a trent’anni senza una direzione precisa – dopo aver ipotecato la estancia all’ennesimo tavolo di baccarà. All’improvviso, nel punto più basso della sua esistenza, si guarda intorno e vede solo fallimento, debiti, dissipazione. Niente che abbia messo radici. E poi, al centro di questa miseria, un pensiero fulminante che lo lascia senza fiato, lo turba e lo scuote, l’unica cosa che possa considerarsi, quella sì, una radice a cui aggrapparsi: quel figlio lasciato nel ventre di Donata e che nel frattempo dei suoi bagordi portegni sarà già nato. Un figlio suo e il pensiero di lui che è padre…
Eugenio Cambaceres è un narratore di una finezza estrema e di un pessimismo senza soluzione; una scoperta mozzafiato che dimostra le profondità abissali cui può spingersi la letteratura. Nella sua narrativa struggente non c’è conforto; si è impreparati di fronte all’assenza di una tregua, davanti al tedio che consuma i giorni, lo stillicidio di uno spreco che non centellina gli istanti. Sin rumbo è la sconvolgente storia che non ti aspetti, fatta di mille piccole luci di teatro, paesaggi rurali, pampa sconfinata e polverosa, di sregolatezza, di acuti lirici che lentamente si abbassano e si spengono, un elemento alla volta, per lasciare una scena nuda, quasi desertica. Una desolazione sconfinata in cui si muove senza meta un accidioso e iracondo campagnolo che cerca disperatamente guizzi di vita coi quali riempire vuoti cosmici. Sembra di annoiarsi insieme al protagonista, di trascinarsi, fino a quando la storia non esplode, letteralmente (e ‒ letteralmente ‒ su una parola ben precisa), e sprigiona tutta la sua crudezza e tutta la sua devastante, carnale poesia. Sin rumbo (titolo lasciato efficacemente in lingua originale dai traduttori) in italiano si tradurrebbe “senza rotta” o anche, in senso figurato, “senza condotta” e racchiude in sé il cuore di questo uomo ‒ Andrés ‒ che sta al mondo in modo disordinato, ondivago, confuso tra la consapevolezza travolgente del niente e l’ostinazione passeggera alla salvezza. Nella sua esistenza fatta di sperpero e donne, niente arriva per restare. Tutto passa. E tutto fa male. Tutto nell’anima è un trafficare di dolore al quale ci si può contrapporre soltanto murandosi dentro un nichilismo irriducibile, augurandosi una morte per quanto prematura, occasionale, procurata. C’è solo una cosa che può aprire una breccia in questa esistenza e quando arriva richiede l’urgenza liberatoria di un cambiamento: è lo scoprirsi padre, un moto che lo riconduce ad una responsabilità, ad avere un ruolo su questa terra, alla coscienza di una cura, all’amore viscerale e incomprensibile, frastornante e assoluto. È il toccare il cielo con un dito col terrore atavico che quella gioia sfumi da un momento all’altro per una ripicca, per un capriccio divino, per una compensazione. Nel suo cuore, essere padre e la sana follia dell’amore gettano il seme dell’inquietudine, una prospettiva spaventosa, presaga di eventi irreparabili. Si chiama cherofobia, ed è la paura di essere felici. Dentro Sin rumbo questa paura si amplifica man mano che la storia si compone; si identifica, soverchia, occupa ogni interstizio, ci lascia soffocare insieme ad Andrés, alla sua solitudine incolmabile, insieme a quel senso di irreparabilità per il quale la vita è solo una iattura e un’impostura, uno scherzo crudele che è stato giocato all’uomo, il cedimento al ritorno dentro il ventre del nulla. La vita, qui, è la punizione con cui si ripara a un peccato, a una contraddizione. È un contrappasso, la dura prova del Giobbe tradito e devastato.
Romina Arena
A proposito di “Sin Rumbo”
Lo Spleen di Cambaceres
Alla riscoperta di Eugenio Cambaceres, scrittore argentino del secondo Ottocento, attento agli sviluppi del naturalismo francese ma con una forte connotazione latinoamericana delle origini
Grazie all’intraprendenza e alla lungimiranza della giovane casa editrice Arkadia e alla competenza e alle abilità linguistiche di Marino Magliani e Luigi Marfè finalmente è stato pubblicato in Italia Sin Rumbo (Senza rotta) di Eugenio Cambaceres. Lo scrittore, nato a Buenos Aires nel 1843, appartiene a quella generazione degli Anni Ottanta che ha assistito e spesso partecipato al consolidamento politico, sociale ed economico dell’Argentina, dopo le lotte civili tra federali e unitari. Sono gli anni di una massiccia immigrazione che non sempre riesce a integrarsi e finisce col sovrappopolare le città costiere, mentre aumenta a dismisura il potere economico delle oligarchie rurali, di coloro, cioè, che lavorano la terra e allevano il bestiame. Gli intellettuali sono espressione di questa élite che governa il paese e hanno un bacino di utenza molto limitato perché il tasso di analfabetismo supera l’ottanta percento della popolazione.
Essi, quindi, riflettono nelle loro opere i loro stati d’animo che variano dall’euforia e la soddisfazione per i privilegi ottenuti alla delusione e la frustrazione quando le loro aspirazioni escono sconfitte da una realtà che, nel passaggio dall’isolamento e dall’immobilità di una vita semicoloniale a uno stato moderno e organizzato, continua a essere complessa e problematica. Accanto a Lucio Victorio Mansilla, che può essere considerato l’archetipo dello scrittore di questa generazione, e a Miguel Cané, dobbiamo citare appunto Eugenio Cambaceres, un avvocato che dopo essersi occupato attivamente di politica, si dedica alla Letteratura aderendo, almeno a livello programmatico, al Naturalismo di Zola che rappresenta, in maniera spesso truculenta, il degrado fisico e morale di una società malata, da studiare come un corpo infetto.
Sin rumbo, scritto nel 1885, è la storia di un uomo, Andrés, proprietario di una vasta hacienda a 20 Km da Buenos Aires, nella pampa argentina, magnificamente descritta: «… come un riflesso verde nell’azzurro del cielo, indifesa, sola, spoglia, splendida, che mostrava la propria bellezza, come una donna nella sua nudità». In questa hacienda si allevano ovini e bovini ed è proprio con la pratica della tosatura e della marchiatura, talvolta brutale per l’insipienza o la durezza dei peones, mentre dalla finestra aperta, sdraiato su un’amaca, Andrés osserva impassibile la scena, che si apre questo romanzo. L’incipit mostra quanto Cambaceres sia stato influenzato nei temi e nello stile, ruvido e scabro, dal naturalismo, e questa impressione viene confermata, nel corso del romanzo da altre situazioni che vedono il protagonista in lotta contro gli elementi della natura, penso al nubifragio che si abbatte su di lui, sui suoi uomini e i loro cavalli, mettendo a repentaglio la loro incolumità, nel viaggio di ritorno a casa. Anche la scena conclusiva con l’improvviso aggravarsi della malattia della sua bambina che spinge il giovane medico a praticare con mezzi di fortuna una tracheotomia sembra uscire direttamente, per la crudezza e la drammaticità della situazione, dalla narrativa di Émile Zola.
Ridurre, però, Cambaceres a un seguace del grande scrittore francese mi sembra schematico e riduttivo. Volendo, infatti, rimanere nell’ambito del realismo della II metà del secolo diciannovesimo, riterrei più corretto accostarlo a Verga per quel senso di fatalismo, di ineluttabilità che grava sui suoi personaggi che non riescono a modificare la propria situazione di partenza, né in campo sociale né in campo sentimentale. Sono dei vinti, costretti a subire il loro destino e, nonostante gli sforzi e le energie profuse, vengono risospinti dalla marea sulla riva. La loro lotta contro la natura è destinata alla sconfitta perché le leggi della natura si possono violare, trasgredire ma non modificare. Inoltre non c’è quello slancio verso il futuro (Andrés è sempre rivolto al passato, anche quando sembra allontanarsene) né c’è quella fiducia incondizionata nella scienza che è proprio dei positivisti. Non basta, a differenza di Zola che si fa portavoce di un’esigenza di progresso, politico e sociale, che nasce con lui e intorno a lui, a Cambaceres come a Verga manca un reale interesse per le classi sociali subalterne e si limita, talvolta, a guardare verso di loro con un atteggiamento di umana compassione. Infine nel romanzo in questione c’è, come nella vita dell’autore, un amore profondo per il teatro e la vita mondana che ci richiama alla mente il giovane Verga, quello, per intenderci, dei romanzi giovanili tardo-romantici (Eva, Eros e Tigre reale).
Per mettere a fuoco il personaggio di Andrés è indispensabile riportare l’inizio del V capitolo: «Immerso nel suo pessimismo, scavato dai più grandi demolitori meccanici moderni, affondato nel più profondo nulla delle nuove dottrine, trascinava la vita nella più nera solitudine». E più avanti: «…niente e nessuno veniva risparmiato al cospetto della legge amara e inesorabile del suo scetticismo. Nemmeno l’affetto della madre, figlio unico com’era del suo dolore; nemmeno dio, un assurdo spaventapasseri inventato dalla stupidità degli uomini».
Questo suo stato di inquietudine profonda, di malessere esistenziale, di noia perenne è, per molti versi, riconducibile allo spleen baudelairiano e ci conferma quanto approssimativa sia l’attribuzione di istanze e stilemi naturalistici a Cambaceres che ha personalità così complessa ed eterogenea da sottrarsi a una definizione univoca. In lui ritroviamo tutti o quasi gli aspetti contraddittori di quella temperie culturale, complessa e variegata, che si respira in Europa nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Non riuscendo a trovare pace, tormentato da questa assurda inquietudine, da questo umor nero, Andrés decide di recarsi a Buenos Aires e non desiste dal suo proposito neppure quando Donata, la figlia di un suo dipendente, con la quale ha intrecciato una relazione, gli confida che sta per mettere al mondo una sua creatura. Giunto nella capitale Andrés si dà a una vita di bagordi, frequenta teatri, locali alla moda e case da gioco, passa dalle braccia di una donna a quelle di un’altra. Si trascina per le vie e i locali di Buenos Aires, pigro e distratto, come un flâneur (evidente ancora una volta l’influenza baudelairiana) senza lasciarsi coinvolgere emotivamente, neppure quando instaura una relazione erotico-sentimentale con l’Amorini, un soprano non eccelso ma sensibile, a dispetto del suo stato civile di donna coniugata, alle attenzioni e alle premure maschili. Anche quella vita, dopo non molto, però comincia a stancarlo e l’attrazione nei confronti della cantante si tramuta ben presto in un’invincibile antipatia. Le stesse rappresentazioni teatrali che tanto lo avevano affascinato gli sembrano riflettere la farsa della vita sociale, mentre la vita politica gli ha «sempre suscitato il più cordiale disprezzo». Andrés si sente sempre più: «Disperato, abbattuto, esausto, andava alla deriva, senza rotta, nella notte nera e gelida della vita». Accarezza, persino, l’idea del suicidio. Poi, però, prendono il sopravvento, il desiderio di tornare alla sua hacienda e la nostalgia della pampa, di quella vita libera, lontana dalla corruzione della città e dal putridume sociale. A ciò si aggiunga, in un rigurgito della sua appannata coscienza, cosa per lui del tutto nuova, l’immagine del figlio di Donata che lo aspetta e… allora prende la via di casa.
Non credo che sia opportuno continuare a raccontare la storia, sarebbe un pessimo servizio, non tanto per l’autore, morto di tisi nel 1888, quanto per l’editore e soprattutto per i lettori, per cui ci fermiamo qui evidenziando non solo l’autobiografismo che connota il romanzo, dal momento che Eugenio come Andrés viaggiò molto, amò il teatro lirico, ebbe una relazione con una donna sposata che poteva finire tragicamente e soprattutto fu afflitto dalla noia di vivere o spleen, ma anche la qualità di una scrittura densa, icastica, aderente alle cose e agli stati d’animo. Si pensi alla quantità e alla precisione di termini botanici e zoologici che si rilevano nel romanzo e al linguaggio che varia da personaggio a personaggio a seconda dello stato sociale a cui appartiene.
Un libro, a dir poco, interessante e coinvolgente e ci si rammarica che sia stato tradotto in Italia soltanto ora a 133 anni di distanza dalla sua pubblicazione. Fatti e misfatti dell’editoria.
Francesco Improta
“Los squires ingleses silbaban para llamar a sus sabuesos, y algunos personajes dickensianos silbaban para conseguir un cab. En quanto a la literatura argentina silbaba poco, lo que era una verguenza. Por eso aunque Oliveira no habìa leìdo a Cambaceres, tenìa a considerarlo como un maestro nada màs por sus titulos, a veces imaginaba una continuaciòn en la que el silbido se iba adentrando en la Argentina visible e invisible…”
“Gli squires inglesi fischiavano per chiamare i loro segugi e alcuni personaggi di Dickens fischiavano per ottenere un cab. In quanto alla letteratura argentina (Oliveira) fischiava poco, una vera vergogna. E così, per quanto non avesse letto Cambaceres, Oliveira tendeva a considerarlo un maestro più che altro per certi titoli e qualche volta ne immaginava il seguito in cui il fischio si insinuava poco a poco nell’Argentina visibile e invisibile…” (Cortàzar, J: “Rayuela”. Catedra. Letras Ispanicas. Madrid 2003. Pag. 389. La traduzione italiana è di Flaviarosa Nicoletti. Rossini. Einaudi. 2015. Pag.245).
Non è un caso che il nome di Eugenio Cambaceres compaia in uno dei romanzi più importanti e complessi di Julio Cortàzar e non è un caso che compaia il fischio. Sia la prima opera di Cambaceres, pubblicata nel 1882, “Potpourri”, sia la seconda, pubblicata nel 1884, “Musica sentimental” avevano come sottotitolo “Silbidos de un vago”, “Fischi di un pigro”. Del resto Cortàzar cita ancora Cambaceres nel brevissimo capitolo 153 di “Rayuela” (Pag. 733 dell’edizione originale). Aggiungo che nel romanzo più importante di Cambaceres “Sin Rumbo”, pubblicato nel 1885, questo sottotitolo scompare.
Dunque il fischio. Quel fischio di Horacio Oliveira, eterno studente e infaticabile flaneur a Parigi, quel fischio che rende omaggio a un autore considerato un maestro sebbene non letto. Quel fischio di un autore che darà vita a personaggi che molto ricorderanno il flaneur Oliveira, quell’autore a cui gli scrittori argentini del Novecento dovranno, davvero, molto.
Ma chi era Eugenio Cambaceres? Era il figlio di un chimico francese che si era stabilito in Argentina nel 1829. Nacque a Buenos Aires nel 1843. Fu uomo politico, deputato, segretario e vicepresidente del Club del Progreso. Nel 1876 ebbe una relazione con la cantante lirica Emma Wizjiak, relazione che sfociò in uno scandalo. Viaggiò spesso in Francia dove ebbe un’altra relazione con un’altra cantante lirica, Luisa Bacichi, che sposò nel 1887 e da cui ebbe una figlia, Rufina. Morì di tisi a Buenos Aires nel 1888.
Eugenio Cambaceres appartiene a quella che venne chiamata la Generacìon del ochenta, la Generazione dell’ottanta”. Fu una generazione che visse con gli occhi rivolti alla città e al suo sviluppo proprio nel momento in cui Buenos Aires volgeva il suo sguardo all’Europa, alla Francia, In particolare a Parigi, come lo si può constatare dalle trasformazioni urbanistiche, di tipo hausmanniano, che che il sindaco del 1880, Torcuato de Alvear, volle fortemente con l’obiettivo di far diventare Buenos Aires la Parigi del sud. E non è un caso che molti degli uomini politici, degli scrittori, degli intellettuali di quella generazione viaggiassero verso Parigi in un vero e proprio viaggio di iniziazione. Lo fu anche per Cambaceres che venne considerato dal critico letterario Martin Gace Meon -anch’egli appartenente alla generazione dell’ottanta- come il fondatore del romanzo argentino contemporaneo.
In Italia Eugenio Cambaceres è un autore non tradotto e praticamente sconosciuto. Bisogna ringraziare la casa editrice di Cagliari Arkadia -una casa editrice che pubblica libri di grande spessore e non solo di area sarda- per averci fatto conoscere quello che da molti critici, come si è detto più sopra, è considerato il padre del romanzo moderno argentino. E ce lo ha fatto conoscere nel modo migliore possibile con l’ottima cura e l’ottima traduzione di Marino Magliani e Luigi Marfè. Marino Magliani e Luigi Marfè sono anche i curatori, sempre per Arkadia, della collana Xaimaca, una collana interamente dedicata ad autori latinoamericani e che ci riserverà, certamente, altre piacevoli sorprese letterarie di quell’ambito geografico.
“Sin Rumbo”, senza rotta, è un libro da leggere e sul quale meditare.
In breve la trama: Andrés è un uomo molto ricco, possidente terriero e che non dovrebbe avere affanni di sorta. In realtà è abitato dalla noia, da uno spleen baudelairiano che cerca di vincere, dapprima, avendo una relazione con Donata, la figlia di un suo bracciante e che metterà incinta, poi, anche per sfuggire alla sua responsabilità, andandosene a Buenos Aires. Là avrà una relazione con la cantante lirica Amorini (in cui è adombrata la figura di Emma Wizjiak). Ma, ben presto, la passione si trasformerà in noia mortale. Andrés non troverà altra soluzione che quella di tornare nella pampa, nei suoi possedimenti, dove potrà conoscere la figlia Andrea, nata nel frattempo. Cosa altro troverà lascio al lettore scoprirlo.
Cambaceres è stato considerato un seguace del naturalismo di Zola. Di sicuro è così. Ma in “Sin Rumbo” c’è un netto superamento di questa influenza. Vedremo più avanti perché.
Andrés è un uomo senza destino e senza destinazione. Qui è d’obbligo citare il grande filosofo ebreo francese di origini russe Vladimir Jankélévitch. Nel suo libro “L’avventura, la noia, la serietà” (Einaudi. 2018), Jankélévitch distingue con chiarezza destino e destinazione:
“Ciò che viene disposto per l’uomo da parte delle fatalità economiche e sociali, fisiologiche e biologiche, le fatalità materiali, insomma, l’ereditarietà, la stessa infermità, nascere poveri, essere handicappati a causa di una grave malattia, eccetera: ecco cosa fa parte del mio destino… intorno a questo destino, c’è qualcosa di evanescente e maggiormente fluido che lo circonda come un’aura o un alone luminoso a cui diamo il nome femminile di destinazione. La stessa libertà in virtù della quale si modifica la propria sorte è un ingrediente di tale atmosferica destinazione. La destinazione conferisce un significato alle bizzarrie arbitrarie, assurde o sconnesse, che sono invece respinte dal destino” (Pag.25).
Anche se Andrés è un uomo ricco e sembra che questo sia il suo destino, in realtà non ha nulla e se avesse un destino gli volterebbe le spalle, magari deridendolo. Ancora meno ha una destinazione. È un uomo senza rotta, che vaga, che sembra girare a vuoto anche nel momento in cui pare che stia prendendo delle decisioni. È come se le avventure che ha attraversato e sta attraversando non avessero lasciato un segno, neppure una cicatrice che diventi memoria. Tutta passa e se ne va come l’acqua che scorre..Ci sono pagine belle e drammatiche in cui è descritta la sua flanerie per Buenos Aires. È una flanerie molto diversa da quella tratteggiata da Franz Hessel nel suo “L’arte di andare a passeggio” (Elliot. 2011) tra le vie di Parigi. O da quella di Baudelaire. O ancora da quella studiata da Walter Benjamin e che aveva come luoghi privilegiati di analisi Parigi e Berlino.
Quello di Andrés non è un andare a zonzo per la città dove si scoprono casualmente angoli di strade di cui mai ci si era accorti prima, scorci che ci lasciano sorpresi e dove la flanerie implica un sottile piacere. La flanerie di Andrés è una flanerie disperata in cui il tempo è un tempo vuoto e omogeneo, in cui il tempo diventa il tempo della noia, quel tempo così magistralmente descritto da Jankélévitch sempre in “L’avventura, la noia, la serietà” dove tutti i possibili ci sfilano davanti senza che ne scegliamo uno e vanno ad affollare un passato sterile, che non provoca alcun languore a ricordarlo. Per dirla con Jankélévitch la noia
“non è la miseria di una coscienza sottoalimentata, ma al contrario è l’inedia della sazietà” (Pag. 78. Il corsivo è mio).
Andrés cita il suo filosofo preferito, Schopenhauer, a proposito del tempo:
“‘Ci accorgiamo del tempo solo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. Entrambe le cose dimostrano che la nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo: ne segue che sarebbe meglio non averla’” (pag.13).
In realtà in Andrés non c’è quel tempo che i greci chiamavano Kairòs, quel tempo dell’istante in cui si decide, in cui si può decidere il senso della vita. E, sempre seguendo Jankélévitch, se noi siamo tempo incarnato, se la nostra patria è il tempo, allora Andrés è un senza patria, uno sradicato, un fuggiasco dalla vita. In questo senso Andrés ci ricorda tanti personaggi di Onetti, tanti di Arlt che vagano senza meta per una Buenos Aires stravolta e iperrealista.
Anche la nostalgia per la pampa che prende Andrés dopo il girovagare disperato per Buenos Aires non è quella nostalgia che, nel presente, può essere un ponte tra il passato e il futuro. È come se quella nostalgia fosse qualcosa di estemporaneo che non si radica dentro all’anima. Il desiderio del ritorno alla pampa e alla sua hacienda è un disperato bisogno di fuga, non è l’approdo di Ulisse ad Itaca. Il suo sarà un approdo molto diverso. Solo nel momento dell’incontro con la figlia Andrea (che ci ricorda aspetti autobiografici, in particolare il rapporto di Cambaceres con la figlia Rufina) parrà risollevarsi ed assumersi la responsabilità di una esistenza. Ma sarà un’assunzione goffa, incerta, che ripeterà il modo in cui la propria madre aveva avuto di prendersi cura di lui quando era bambino in una specie di trasmissione intergenerazionale. Forse l’unico destino possibile sarà questa trasmissione, tanto studiata dagli psicoanalisti, una trasmissione che agisce nell’inconscio di Andrés.
Anche dal punto di vista formale “Sin Rumbo” è un romanzo moderno, ormai proiettato snella letteratura del Novecento. Alla narrazione del narratore onnisciente, di stampo prettamente ottocentesco, si alterna il discorso libero indiretto, il flusso di coscienza, l’onirismo (unico esempio della letteratura argentina dell’epoca) come accade alla fine del capitolo XXVIII:
“E tutto, tutto era menzogna. Non aveva un figlio, non esisteva nessun mostro; il nano, il maiale, il rospo erano chimere, vani deliri della sua mente in momenti di incubo. E sognando alla fine di essere un sogno, smise di sognare e si ritrovò in viaggio, con destinazione l’Europa, a bordo di un vapore, steso tranquillamente nella sua cabina. D’improvviso, pensò che la nave si stesse rovesciando. Di soprassalto si sedette e aprì gli occhi…
La carrozza si era incagliata, immersa fino ai mozzi delle ruote in un vecchio fosso” (Pag. 90-1).
Esiste, poi, uno scarto incolmabile tra il narratore e il protagonista. Anche per tutto questo il “Sin Rumbo” di Cambaceres supera il naturalismo di Zola, ma anche il decadentismo dello Huysmans di “A’ Rebour” e di “A’ vau-l’eau” a cui, spesso, il romanzo di Cambaceres è stato spesso paragonato.
Le descrizioni dei paesaggi sono magistrali come lo è il ritmo che le sostiene. Un esempio:
“Era calata la notte, tiepida, trasparente.
Una nebbia spessa iniziava a salire dalla terra.
Il cielo illuminato di stelle era il lenzuolo di una immensa cascata che si rovesciava a terra e, nel cadere, alzava gli schizzi d’acqua che si frangeva nello schianto” (Pag.13).
Con una conclusione del periodo che ha forte sapore surrealista.
Altre descrizioni fanno venire in mente un montaggio cinematografico dove il quadro, poco a poco, si anima, dove l’aggettivazione è efficace e evocativa e dove acquista una grande importanza la punteggiatura, l’uso sapiente della virgola, del punto e virgola e dell’a capo. Eccone un esempio:
“Nelle osterie, gli ubriachi bruciavano una infinità di fuochi artificiali.
I ragazzi, in cerchio, tenendosi per mano, saltavano gridando.
I cavalli, attaccati agli steccati dei marciapiedi, stanchi, riposavano, liberi dalle capezze e dalle redini.
Di tanto in tanto, un carretto passava sferragliando rumoroso, circondato da nuvole di polvere.
Sul sagrato si riunivano gli uomini. Il giudice di pace, il comandante, il medico, il farmacista, il commissario di polizia, il maestro di scuola, i negozianti, gli impiegati comunali o i personaggi influenti, gli assi del paese stavano tutti in gruppo.
Un poco più in là, con i piedi più in basso, i dipendenti, intorno al telegrafista.
Sul ciglio della strada le ultime carte del mazzo: i mantelli e le camicie formavano un gruppo a parte.
Le donne, gonfie e tronfie, entravano due o tre alla volta” (Pag.23).
A proposito dei ritmi della narrazione. occorre ripeterlo: se noi possiamo gustarli anche in lingua italiana lo dobbiamo all’ottima traduzione di Marino Magliani e di Luigi Marfè.
Non c’è rotta, non c’è destino, non c’è destinazione, non ci sono teologia o teleologia in questo romanzo.
Andrés precorre l’uomo del primo Novecento. Non è solo un uomo decadente, ma anche un uomo senza qualità, ma ben più intriso di nichilismo dell’Ulrich di Musil che è salvato dall’ironia. È anche l’uomo che, non molto tempo dopo, sarà trasformato in scarafaggio. È l’uomo che soccombe alle pulsioni dell’inconscio. Gli faranno compagnia tanti altri personaggi che hanno perduto la rotta e il senso delle loro esistenze e che non sapranno da che parte dirigere le loro vele.
Andrea Cabassi
«La forma ovale dei suoi occhi neri e ardenti, quegli occhi che brillano e la cui luce resta un mistero, le linee del naso piatto e grazioso, la forma della bocca grossolana ma provocante, che si mordeva nervosamente il labbro inferiore, mostrando una doppia fila di denti candidi come grani di mais bianco, la pelle soave e lucida davano ai tratti del volto il prestigio di un bronzo di Barbedienne. Andrés, immobile, senza neanche respirare, la guardava. Sentiva dentro una strana agitazione, come il sordo crepitio di un fuoco interno, come se improvvisamente la vista di quella donna seminuda gli avesse versato di nuovo nelle vene la corrente di sangue, da tempo sparita, dei suoi vent’anni.»
Ci sono uomini che non riescono a star fermi, vivono un perenne moto interiore da cui si lasciano travolgere. Per queste persone, la monotonia di una vita agiata può risultare soffocante, ed è proprio per questo malessere che mettono continuamente tutto in discussione, restano in maniera egoica al centro di ogni cosa e lasciano sullo sfondo tutte le persone che fanno parte, in un modo o nell’altro, della loro vita. Questo forte egoismo, questo accentramento, è la causa primordiale della loro sofferenza; perché se muovi gli altri come fossero pedine capiterà, prima o poi, di diventare la pedina di qualcun altro; capiterà di finire male e soli. Ed è l’egocentrismo smisurato che porta, talvolta, la persona a disprezzare tutto quello che non lo riguarda personalmente, finendo per farsi terra bruciata intorno; e si va incontro, poi, a una vita in cui la noia e lo scetticismo diventano routine, e dove le emozioni stentano.
Eugenio Cambaceres è nato in Argentina nel 1843, dove poi è deceduto nel 1888; Sin Rumbo è stato pubblicato in Italia dalla casa editrice Arkadia, con la traduzione a cura di Marino Magliani e Luigi Marfè.
Andrès è un ricchissimo possidente terriero, vive nell’agio, passa le giornate guardando i suoi operai lavorare, e andando alla ricerca di donne. Uomo scettico e annoiato e agnostico, è perennemente scontento e alla ricerca di qualcosa che possa dare un senso, un quid, alla propria esistenza. Un giorno, nonostante Donata, una serva con cui aveva rapporti sessuali, gli annuncia di essere incinta, la abbandona, lasciando anche la sua casa, per correre dietro a una cantante argentina. Durante le varie difficoltà che la vita gli pone innanzi e colpito da una tristezza e da un’insoddisfazione che cresce sempre più, Andrès ripensa a quel bambino che gli era stato annunciato come suo, e pensa che tornare a casa e crescere un figlio possano essere, forse, le uniche cose che lo potrebbero aiutare a lenire il suo dolore. Una volta tornato, troverà una bambina di nome Andrea, che gli sarà presentata come sua figlia. Ma ciò che si è lasciato alle spalle non lo rende quieto.
«La campagna era un mare, gli stagni straripati si univano; dall’alto del poggio la cui cima srotolava la nera cinta della strada come un ponte infinito, solo i paesini, i monti delle estancias si potevano distinguere, come isole, in lontananza. Né un cavallo, né una vacca, né un passero, oltre all’immenso sipario d’acqua scossa dal flagello furioso del vento di sud-est, che scendeva a fiumi, come impegnata a riempire l’aria dopo aver coperto il suolo: «Un giorno infame, ci mancava solo questo!», mormorò Andrés parlando da solo, esasperato e rabbioso per la perdita di tempo causata dalla pioggia, in presenza di quel nuovo ostacolo opposto come di proposito ai suoi desideri.»
Eugenio Cambaceres ci dona un romanzo che ha il sapore intenso di un classico della letteratura, raccontandoci un personaggio che difficilmente riusciremo a dimenticare; e non sarà raro che qualche lettore possa riconoscersi in alcuni momenti di vita di Andrès. È questo un libro che ci parla di quella materia inafferrabile che è il senso dell’esistenza, che ci narra le vicende di un uomo in continua guerra con la sua anima e dei modi nei quali cerca di mettere a tacere il suo disordine.
«Era assordato da un ronzio che gli rombava nelle orecchie, dal rintocco simultaneo di mille campane, le idee gli si intrecciavano nella testa come spazzate dal soffio di un turbine: sua figlia, il torrente, Donata, il freddo, tutto si muoveva, si mischiava, fugace, informe, confuso, senza che, nell’incoscienza in cui poco a poco stava sprofondando, Andrés riuscisse ad abbracciare tutto quanto in una sola nozione distinta. Ormai incapace di pensare, di sentire, di soffrire, inerte, un sonno profondo gli chiuse gli occhi.»
La lingua dello scrittore argentino è abbastanza semplice, e vive degli anni in cui è stato partorito il romanzo; ci sono molte descrizioni e c’è molta attenzione nella menzione dei particolari. Ma nel complesso è una lettura eccelsa, dove a una lingua comunque molto fruibile si mischia una trama intrigante e ben congegnata.
Francesco Borrasso
E un sentimento innaturale e selvaggio lo invadeva, frutto della stessa intensità del suo affetto, e arrivava a immaginare con convinzione che mille volte preferibile a tutto ciò potesse essere la quiete assoluta della tomba, per il bene della bambina, lui, suo padre, arrivava di tanto in tanto a desiderare la sua fine… Strana, bizzarra abiezione! Ma tremava davanti alla traccia più remota di pericolo per la vita di sua figlia, tremava per lei, terrorizzato alla sola idea della morte, quel nemico implacabile e traditore che non si vede, nascosto tra le ombre del futuro, ma di cui si avverte o si immagina la presenza, come si sente l’abisso quando si attraversa il mare, come si immagina un precipizio percorrendo di notte una strada di montagna.
Sin rumbo, Eugenio Cambaceres, Arkadia, traduzione di Marino Magliani e Luigi Marfè. Andrés è il proprietario di una hacienda. Vive non molto lontano da Buenos Aires. Ha un’esistenza bella. Ricca. Fortunata. Serena. Felice. Pare che nulla possa turbarlo, sconvolgerne gli equilibri. Sembra nato sotto una buona stella. Gli ultimi anni del secolo decimonono scorrono placidi, non ha preoccupazioni, ha più soldi di quanti ne possa spendere, viaggia, gode della compagnia di avvenenti fanciulle, si diverte. Eppure spesso il male di vivere incontra, si sente solo, ansioso, insoddisfatto, irrequieto, è sin rumbo, senza rotta. Finché un giorno una notizia capovolge tutto il suo universo, e… Ha più di cent’anni, ma è un romanzo che sembra venire dal futuro, perché sempiterne sono le domande che agitano l’anima degli uomini, sempre in bilico tra essere, dover essere e poter diventare l’immagine che vogliono di sé. Capolavoro è termine abusato, ma in questo caso più che azzeccato.
Gabriele Ottaviani
Diciamo sempre, noi lettori accaniti, di leggere e rileggere i classici della letteratura, soprattutto d’estate, quando stiamo per andare in vacanza e stiliamo la lista dei libri da portare in valigia.
Dickens, Tolstoj, Dumas, Dostoevskij sono i soliti che sento nominare e che, ovviamente, non contesto mai: sono intoccabili, non si può non leggerli, anzi quasi quasi ad agosto mi rifaccio tutto Il Conte di Montecristo e pure Le notti bianche…
Però da oggi, dopo aver letto Sin rumbo, pubblicato per la prima volta in Italia dalla casa editrice Arkadia, credo che aggiungerò a quei grandi nomi anche quello di Eugenio Cambaceres, argentino dell’Ottocento, primo vero sudamericano a rappresentare il naturalismo di Émile Zola.
– Mi consigli un classico da leggere?
– Certo. Un qualsiasi romanzo di Dickens, Tolstoj, Dumas, Dostoevskij e Cambaceres.
Sin rumbo
Immerso nel suo pessimismo, scavato dai più grandi demolitori meccanici moderni, affondato nel più profondo nulla delle nuove dottrine, trascinava la vita nella più nera solitudine.
È Andrés, possidente terriero che nell’Argentina del tardo Ottocento vive agiato nella sua grande estancia, circondato da peones che lavorano per lui la terra e che curano gli allevamenti di bestiame che gli appartengono.
Annoiato dalla vita, privo di qualsiasi emozione positiva, agnostico e scettico verso l’umanità, Andrés conduce la propria esistenza nell’eterna scontentezza di chi non ha ancora trovato la propria via.
Lasciate perdere chiese e scuole; è denaro buttato. Dio non è niente; la scienza un cancro per l’anima. Sapere è soffrire, ignorare, mangiare, dormire e non pensare, la soluzione esatta del problema, l’unica felicità della vita. Invece di pensare di fare di ogni ragazzo un uomo, fatene una bestia… non potreste fare un favore più grande all’umanità.
Insofferente e pessimista, il ricco possidente passa da una donna all’altra, bruciato dal desiderio ma senza mai conoscere l’amore. Lascia quindi la hacienda e la giovane serva Donata, che gli ha appena rivelato d’essere incinta, per buttarsi tra le braccia di una cantante lirica incontrata a Buenos Aires, già sposata e pronta a lasciare il marito per questo inafferabile e seducente uomo dallo sguardo insoddisfatto.
E al cospetto di quello splendido corpo di donna che rivelava i suoi incanti, mostrando il suo immenso potere di seduzione, come per vantare la sua infinita eleganza, abbagliato, umiliato, vinto, puntava le sue armi contro se stesso.
Proprio così: non contro di lei, contro se stesso.
Nulla al mondo lo attirava ormai, nulla di sorrideva, nulla di nulla lo teneva legato alla vita. Né l’ambizione, né il potere, né la gloria, nulla gli importava, nulla voleva, nulla possedeva, nulla provava.
Indebitato fino al collo e tormentato dalla noia, Andrés viene improvvisamente ammorbato da un pensiero nuovo, che ha il sapore del cambiamento e dell’eccitazione più vera: sta per diventare padre o forse lo è già; la disgraziata Donata, abbandonata mesi prima, potrebbe aver già partorito.
È giunto il momento di tornare alla fattoria, di prendere in braccio la carne della propria carne e dare una svolta a quell’esistenza inutile e borghese.
Sarà quindi l’amore, quello vero e profondo, a scalfire il cinismo e la freddezza di Andres, dandogli la speranza che anche per lui possa esistere una scintilla di felicità?
Sua figlia, la sua Andrea, in cui tutto si rispecchiava, sua figlia, la cui sola apparizione, la cui sola nascita era bastata a rivelargli, a lui vecchio e agnostico, a lui stanco di vivere, il segreto di un’altra vita, un’altra esistenza ignota e nuova: quella in cui si soffre, anche, perché il destino è soffrire, ma non sempre, e allora si è felici.
Fino ad allora la vita del protagonista era apparsa senza rotta (così come vuole il titolo del romanzo), ma il destino non dimentica il passato e vuole per Andrés un’unica terribile direzione, quella dell’espiazione di tutto ciò che è stato prima dell’essere un padre amorevole.
Con un finale crudele, che non risparmia nulla al lettore, Sin rumbo si rivela un classico realista, che racconta con sguardo impietoso la quotidianità degli uomini, senza tralasciarne le meschinità e le ipocrisie.
Una lettura tanto ambiziosa quanto incredibilmente scorrevole, grazie anche al lavoro di traduzione di Marino Magliani e Luigi Marfè, curatori della collana Xaimaca, di cui Sin rumbo è la prima pubblicazione.
Elena Giorgi
di Cinzia Orabona
Questo libro è per chi ama Schopenhauer e Oblomov. Per chi vuole dialogare con narratore e protagonista. Per chi rifugge dal realismo tout court. Per chi ama i classici che hanno ancora qualcosa da raccontare.
Andrés è il protagonista di Sin rumbo, romanzo scritto da Eugenio Cambaceres nel 1885, che inaugura la nuova collana di Arkadia dedicata agli scrittori di lingua ispanica. Tradotto per la prima volta in italiano, il romanzo del celebre scrittore argentino racconta la storia di Andrés, un giovane che divide il suo tempo tra la vita da proprietario terriero di una hacienda in una ottocentesca Buenos Aires e una relazione sessuale con Donata. Andrés è l’interprete delle tendenze filosofiche ed estetiche del periodo, della noia borghese, degli scandali del suo tempo.
Rispetto a quanto veniva scritto in inglese, francese, tedesco o russo, la letteratura ottocentesca in spagnolo appare più cauta, e rompe con la tradizione dei contemporanei.
Il romanzo si apre con la descrizione della hacienda del protagonista e di lui, Andres:
Le pernici, col loro canto triste, malinconico. I cardellini e i pitanghi olforati, stanchi, attendevano la notte nei boschi, le pavoncelle, a due a due, beccavano custodendo il nido e, allarmate per il volo di un chimango o per la vicinanza di qualcuno che attraversava il campo, si alzavano in brevi voli, si spostavano appena, correvano, si chinavano, svolazzando e liberando il loro verso severo.
[…]
Alla finestra aperta della sua stanza, sdraiato su un’amaca, alto biondo, la fronte sfuggente, solcata da una ruga verticale tra le sopracciglia, gli occhi celesti, dolci, di quella gente che è impossibile guardare senza subire l’attrazione misteriosa e profonda delle loro pupille, la barba tondeggiante, lunga, in parte girigia ormai, anche se da poco aveva passato la mezza età, stava Andrés.
Eugenio Cambaceres, nato a Buenos Aires nel 1843, è morto a Parigi nel 1889. Probabilmente ha ereditato dalla famiglia di suo padre, di origine francese, e dai viaggi in Europa, la conoscenza e l’influenza del romanziere Emile Zola. La sua narrazione fin dall’inizio appare ispirata dal canone culturale del naturalismo francese, che gli ha permesso di raggiungere una dimensione realistica tanto da poter essere considerato il fondatore del naturalismo in Argentina.
Cambaceres osserva l’esistenza umana attraverso il velo di maya, che lascia trasparire la bestia umana ambiziosa e avida che è rappresentata da Andrés. Sin Rumbo compie una svolta rispetto al fenomeno letterario naturalista del tempo, perché non conduce mai il lettore nella monotonia o nella ripetizione tipiche della scrittura dei contemporanei francesi.
Senza rotta (traduzione del titolo), è la vita di Andrés, che incontriamo nella sua hacienda,il quale disonora un modesto contadino e possiede Donata, abbandonandola incinta. Sceglie il fascino della capitale, dove viene attratto da un’altra donna, Marietta, con la quale cerca invano le emozioni che possano rinvigorire corpo e spirito, ma l’inerzia ha il sopravvento. Eccolo ritirarsi, cupo e disincantato, interrompendo, una breve illusione dolorosa, e far ritorno alla sua hacienda, guidato da un sentimento la cui esistenza non sospettava di possedere. Lì incontra sua figlia, la cui madre, Donata, è morta dando alla luce senza mai rivelare l’identità del padre.
La paternità lo nobilita e lo purifica divenendo la sua unica felicità, il suo unico futuro, unica speranza della sua salvezza: tutto è racchiuso per lui nella piccola culla dove riposa il corpo di sua figlia. Una primavera inattesa copre i crepacci di quel cuore in rovina, ma un giorno il momento dell’espiazione si materializza violentemente.
In questo romanzo, Cambaceres dipinge scene della vita borghese quotidiana attraverso la ricercata perfezione dei dettagli: la gita a cavallo sotto il sole di mezzogiorno, alla fattoria della sua amante; la terribile furia della tempesta che cambia i flussi dei torrenti e mette in pericolo la vita di Andrés; l’agonia di Andrea, la sua bambina.
Il romanzo è diviso in due parti, la prima più lunga della seconda. Queste si differenziano anche per il ruolo del protagonista, che subisce una metamorfosi.
Nella prima parte Andrés è il prototipo del tipico borghese, mondano, frivolo e superficiale, preoccupato solo ed esclusivamente da se stesso. Qui emerge l’alienazione umana e sociale di Andrés.
E in un momento di nausea, di stanchezza, di avversione profonda per tutto, i viaggi, il mondo, e sempre, e dappertutto, in forme varie e diverse, la stessa oasi di orrore. Insensibile, dilaniato, senza fede, con il cuore di pietra, l’anima inaridita, annoiato dalla conoscenza della vita, da quell’insieme di bassezze umane.
Come Oblomov trascorre giorni chiuso dentro le mura di casa […] senza voler vedere o parlare con nessuno. Quasi a voler replicare un momento già vissuto dal contemporaneo protagonista del celeberrimo romanzo del russo Goncarov. Questo Oblomovismo cessa nella seconda parte, a causa della sua nuova condizione di padre, il suo personaggio diventa amichevole e allegro e quella sensazione di egoismo e indifferenza verso gli altri è sostituita da un profondo amore per la sua piccola Andrea.
Come in un cerchio che congiungee alla perfezione il suo inizio e la sua fine, il romanzo si apre e si chiude con due scene cruente. Non a caso, una costante nel romanzo di Cambaceres è il confronto tra uomo e animale: c’è in tutta la narrazione un continuo rimando tra la natura umana e quella animale, in particolare quella dell’animale selvatico, libero come a ricordarci che gli istinti animali sono una parte indivisibile e inseparabile dell’individuo.
Inoltre, c’è sempre un cambiamento atmosferico o un avvenimento che accompagna l’evoluzione umana: la morte di un protagonista coincide con quella del bestiame della hacienda; il giorno in cui Andrea si ammala, dopo una calda e soleggiata mattina, arrivano le nuvole, il vento fischia e alla fine piove intensamente.
Le descrizioni della natura di Cambaceres sono dettagliate e preziose, cariche di aggettivi e metafore. Persino l’aspetto sensoriale è onnipresente: ecco che sentiamo odore di garofani e rose mosquetas. Tutte queste descrizioni, più caratteristiche della letteratura romantica, sono essenziali per una completa comprensione del testo.
Anche se Andrés è il protagonista indiscusso di questo romanzo, le donne governano la sua esistenza. Donata, Andrea, la zia Pepa e Marietta, la giovane cantante d’opera, hanno tutte un ruolo determinante ai fini della narrazione. L’autore ricorre sempre a descrizioni che richiamano costantemente flora e fauna per descrivere i rapporti con le “sue” donne.
Donata, come quei fiori selvaggi di campagna che profondono il loro aroma senza opporre alcuna spina alla mano di chi li coglie.
Mentre Marietta, la cantante, viene descritta così:
Da sotto gli abiti, si indovinavano in lei gli artigli di una leonessa e il corpo di un serpente.
Andrea, la figlioletta di Andrés, provoca il cambiamento definitivo della personalità paterna. Come afferma il protagonista, è proprio sua figlia ad insegnargli ” ad amare e a perdonare, a vedere solo il buono negli altri“; grazie a lei inizia ad amare gli uomini, gli animali, le cose, se stesso: “tutto gli sorrideva.” Tuttavia, la felicità che prova per la sua amata bambina non sembra essere sufficiente perché teme costantemente che possa accaderle qualcosa di brutto. Si tortura pensando che la felicità non sarà eterna. Fenomeni atmosferici anticipano e accompagnano il deterioramento fisico della bambina. La natura si agita, diventa brutale, si manifesta in tutta la sua violenza, confermando le ansie che Andrés nutre da tempo.
Le donne, come gli animali, non hanno il potere di decidere sulle loro vite, ma sono soggiogate alla volontà dell’uomo. Se le donne piangono, urlano, esprimono le proprie emozioni, l’uomo, Andrés, d’altra parte, non piange, non soffre.
Come se dentro di lui fosse seccata la fonte del sentimento, gli occhi di Andrés non piansero nemmeno una lacrima, nemmeno un lamento uscì dalle sue labbra.
Cambaceres ci mostra la storia attraverso gli occhi di Andrés, ma c’è una voce narrativa che è in conflitto con le idee e le parole del protagonista. Ci mostrerà Andrés immerso in lunghe meditazioni che riecheggiano il pessimismo di Schopenhauer, Sembrerebbe, quindi, che in questi casi il narratore e il protagonista condividano certe credenze basate su Schopenhauer: entrambi sono lettori della sua filosofia, ma non dovrebbero essere confusi.
La colonna sonora di questo romanzo è composta da due arie d’opera. La prima è La mamma morta, tratta dall’Andrea Cheniér, opera in quattro atti di Umberto Giordano (1896). L’opera rappresenta un nuovo genere di verismo in musica e quest’aria, oltre a condensare le innovazioni proposte, ha anche molto in comune con Andrés. Innanzitutto, il continuo confronto, anche nel testo del libretto di Luigi Illica, con la natura. Inoltre
La mamma morta m’hanno
alla porta della stanza mia;
Moriva e mi salvava!
poi a notte alta
io con Bersi errava,
quando ad un tratto
un livido bagliore guizza
e rischiara innanzi a’ passi miei
la cupa via!
Guardo!
Bruciava il loco di mia culla!
Cosi fui sola!
E intorno il nulla!
Fame e miseria!
Il bisogno, il periglio!
Caddi malata,
e Bersi, buona e pura,
di sua bellezza ha fatto un mercato,
un contratto per me!
Porto sventura a chi bene mi vuole!
Fu in quel dolore
che a me venne l’amor!
Voce piena d’armonia e dice:
“Vivi ancora! Io son la vita!
Ne’ miei occhi e il tuo cielo!
Tu non sei sola!
Le lacrime tue io le raccolgo!
Io sto sul tuo cammino e ti sorreggo!
Sorridi e spera! Io son l’amore!
Tutto intorno e sangue e fango
Io son divino! Io son l’oblio!
Io sono il dio che sovra il mondo
scendo da l’empireo, fa della terra
un ciel! Ah!
Io son l’amore, io son l’amor, l’amor”
E l’angelo si accosta, bacia,
e vi bacia la morte!
Corpo di moribonda e il corpo mio.
Prendilo dunque.
Io son già morta cosa!
L’altra aria d’opera è Credo in un Dio crudel tratto da Otello di Giuseppe Verdi. Questa è la musica perfetta per accompagnare il finale, proprio quando Andrés invoca Dio:
Dio, Dio mio, Dio Eterno … sì, credo in te, credo in tutto… ma salvala …
Intanto Jago, all’ombra dell’ignaro Otello:
Vanne; la tua meta già vedo.
Ti spinge il tuo dimone,
e il tuo dimon son io,
e me trascina il mio, nel quale io credo,
inesorato iddio.
Credo in un dio crudel che m’ha creato
simile a sé e che nell’ira io nomo.
Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo
vile son nato.
Son scellerato
perché son uomo;
e sento il fango originario in me.
Sì! questa è la mia fé!
Poi cala il sipario e
La nera spirale di fumo, portata dal vento, si stendeva nel cielo come un immenso velo di crespo da lutto.
Buona lettura e buon ascolto!
Cinzia
LETTERATURE
L’argentino Eugenio Cambaceres (1843-1888), figlio di un chimico francese stabilitosi in Sudamerica nel 1833, fu una delle figure di spicco della Generación del ochenta, letterati cui va il merito di aver introdotto in Argentina il naturalismo di Émile Zola. Avvocato, di idee liberali, Cambaceres si impegnò in politica fino a ottenere un seggio da deputato. Nel 1876 fece scandalo la sua relazione clandestina col soprano Emma Wizjiak: il marito di lei prima lo sfidò a duello, poi cambiò idea imbarcandosi per l’Europa per evitare lo scontro.
La casa editrice cagliaritana Arkadia ha scelto “Sin rumbo” (traduzione di Marino Magliani e Luigi Marfè), terza e più importante opera dello scrittore di Buenos Aires, per inaugurare una nuova collana dedicata agli scrittori di lingua ispanica. Il romanzo, pubblicato nel 1885 e mai tradotto prima d’ora in italiano, racconta di Andrés, imprenditore agricolo di successo abituato alla bella vita, tra viaggi, donne e risate. Realizzato di aspettare un figlio da Donata, la figlia di un suo dipendente, il nostro pianta tutto per rintanarsi a Buenos Aires, dove dilapiderà una fortuna rincorrendo amori impossibili e giocando d’azzardo. Ma non è questa l’esistenza sognata da Andrés, anima inquieta, braccato da un destino in apparenza sempre ostile: deciderà alla fine di tornare alle sue terre, per chiudere i conti col passato, saldare i debiti accumulati e, cosa più importante, ritrovare se stesso.
I libri precedenti di Cambaceres, “Potpourri” (1881) e “Música sentimental” (1884), non convinsero la critica, un po’ per il tema, l’adulterio, ai tempi ritenuto osceno, un po’ per le trame ingarbugliate e stucchevoli per il troppo pessimismo, tratto distintivo dell’intera produzione del romanziere argentino. Con “Sin rumbo” l’autore mostra d’aver fatto propria la lezione del naturalismo di matrice europea: le descrizioni di luoghi e cose abbondano di dettagli, il modo di pensare dei personaggi è reso con efficacia ed essi risultano credibili anche per il linguaggio, che varia a seconda che si tratti di aristocratici, popolani o persone istruite.
Anche l’elemento autobiografico ha il suo peso, dal momento che, come Andrés, anche Eugenio Cambaceres fu un uomo tormentato, incapace di rimanere a lungo nello stesso posto, attitudine quest’ultima che gli costò la vita: morì di tisi a quarantacinque anni, di rientro a Buenos Aires da un viaggio in Europa.
Fabio Marcello