Arkadia, 2024 – Una raccolta di racconti i cui personaggi tessono una rete di legami e la cui esistenza somiglia alla babele di Spoon River, bambini, senzatetto e detenuti che si muovono in una Roma degradata e indifferente.
Una raccolta di dieci racconti, una piccola Spoon River metropolitana che avrebbe fatto gola a Fabrizio De André, Il lato nascosto delle storie, ultima fatica di Roberta Di Pascasio, si affaccia nelle librerie con una cover accattivante, uomini senza volto intrappolati dentro cornici desuete e anonime. I personaggi dei racconti sono, a volte a loro stessa insaputa, incastrati uno dentro la vita dell’altro come in una bambolina matrioska russa. Vite per lo più anonime o incapaci di volare alto, esistenze che si sono perdute o che hanno come desiderio quello di riscattare se stesse a danno delle esistenze altrui.
È così anche l’ambientazione, una città qualunque d’Italia, che mano a mano scopriremo essere invece la capitale, una Roma degradata e indifferente per lo più, che ha solamente fretta e nessuna voglia di soffermarsi a guardare le sofferenze e le difficoltà degli uomini e delle donne che la abitano. Il primo racconto è emblematico: l’uscita dal carcere di un ex detenuto forse innocente, l’incontro con la moglie che invece crede alla sua colpevolezza e poi l’unico amico che gli è rimasto al fianco. Il protagonista Salvatore, detto Salvo, è un uomo distrutto dall’arroganza e dal desiderio di una giustizia sommaria di un vecchio giudice in pensione, che tornando alla metafora di Spoon River ricorda molto, per certi versi, il nano de Il Giudice di Fabrizio De André nel vinile Non al denaro non all’amore né al cielo, tratto appunto dall’antologia di poesie di Edgar Lee Master. Salvatore oramai non ha altro desiderio di capire chi lo ha incastrato e perché.
Ritroveremo, proseguendo con le pagine, questi e altri personaggi che assumeranno il valore di protagonisti e protagoniste nei vari racconti con un concetto che mano a mano, nella penna di Roberta Di Pascasio, si va facendo sempre più chiaro. E lo fa dire a Ferdinando, un senzatetto, uno dei tanti di questa Roma assente. Ferdinando è un perdente, nel senso vero del termine, è uno che ha perso davvero tutto ma ha pur sempre una vita da raccontare e un sorriso per gli altri. Gli troveranno un biglietto con una frase scritta con la penna rossa:
Amico sei ancora in tempo. Scegli la parte illuminata della storia.
E mi viene da dire che, se esiste sempre un cono d’ombra, un altro modo di affrontare il gioco della vita, altrettanto ci dovremmo ricordare di saper ascoltare quei non detti, quel silenzio che a volte richiede solo attenzione e amore; così prende vita il personaggio di Carolina, una bambina di dodici anni che solo nei libri trova conforto e inventa storie con ogni lettera dell’alfabeto per raccontarle al suo amico immaginario.
Maria Caterina Prezioso
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PATRIZIO NISSIRIO, ‘LAVA’ – Il passato riaffiora sotto forma di una lettera, mezzo di comunicazione obsoleto quanto burocratico e preoccupante, nell’ultimo romanzo noir dello scrittore Patrizio Nissirio che porta il suo commissario Aurelio Di Giannantonio a compiere una delle indagini più difficili e rischiose della vita alle pendici del Vesuvio.
Si intitola per l’appunto ‘Lava’ (Arkadia editore) e rappresenta il terzo libro, dopo ‘D’inverno, Venezia’ e ‘Silenzio’, incentrato sul poliziotto romano trasferitosi a Venezia, ma in questo caso costretto dal destino racchiuso nella fatidica missiva a una trasferta nella frazione (immaginaria) di Sant’Anna, vicino a Torre del Greco, dove deve fare i conti col suo passato e coi misteri di una comunità tranquilla solo in apparenza. Basta infatti un manifesto ingiallito che ricorda la vicenda di due sorelline scomparse a far scattare il bisogno di indagare nel commissario, andato lì per capire come mai un anziano di cui non ricorda l’identità gli abbia mai lasciato una eredità, una vecchia casa circondata da un terreno non lontano dal cratere del vulcano. E’ lo stesso Di Giannantonio a spiegare cosa lo spinga ad agire, ad aprire una indagine tutta personale e non autorizzata, nonostante la sua pistola e il distintivo non dovrebbero venir sventolati da quelle parti: “Il mio vizio è che voglio sempre sapere la verità. C’è chi beve, chi gioca d’azzardo, chi colleziona donne: il mio vizio è questo”. Ma un poliziotto non va mai in vacanza, spiega molto bene Nissirio, tanto più se si sente investito personalmente di un caso da risolvere a tutti i costi. Anche perché Di Giannantonio si ritrova più solo che mai e straniero nella comunità di Sant’Anna dove tutti si conoscono, sino al confine con la connivenza, e il commissario viene prima accolto come una curiosa novità per diventare nel giro di pochi capitoli una minaccia, con le sue continue domande sulla scomparse delle due bambine, tali da mettere in discussione una quiete che poggia su un vulcano. Nissirio col suo stile elegante e una lettura profonda del carattere umano si spinge oltre il noir ed entra nel racconto sociale che parla di un’Italia incapace di fare i conti con se stessa, alle prese con un rimosso destinato prima o poi a riemergere come fosse lava imprigionata troppo a lungo. Serve qualcuno che come Di Giannantonio arrivi a scoperchiare per far emergere quella verità che nessuno vuole vedere, come si continua a ignorare il pericolo naturale rappresentato da un vulcano tuttora attivo costruendo case sulle pendici. In uno dei passi più belli del libro l’autore descrive in modo impeccabile la differenza tra l’agire degli uomini e quello della natura: “Il Vesuvio non aveva fretta, né piani omicidi. Semplicemente faceva la sua parte, incurante del traffico e del cemento con cui gli umani tentavano di strangolarlo”. Si può dire lo stesso di alcuni personaggi in ‘Lava’, ben nascosti dietro l’apparenza, ma che sono pronti a fare di tutto pur di difendere dei segreti inconfessabili.
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“Attraverso la scrittura ho conosciuto me stessa, ho scoperto e chiarito le mie idee, ho iniziato a trascinarle fuori con decisione e fierezza e ho imparato a decifrare la realtà”.
Roberta Di Pascasio è una scrittrice che intende indagare le tante sfumature della realtà attraverso la narrazione. Io, che la conosco da qualche tempo e ho letto gran parte della sua produzione letteraria, non saprei definirla in un modo diverso. Mi pare che per lei la scrittura sia sempre stata un modo per conoscere meglio l’animo umano attraverso le azioni dei personaggi, gli atti nobili o perversi, i tradimenti e le debolezze, i momenti di forza e le piccole o grandi rivelazioni sulla nostra vita. Per fare questo, ci vuole bravura e coraggio, doti che a Roberta Di Pascasio non mancano. Adesso ha da poco pubblicato una raccolta di racconti, Il lato nascosto delle storie (Arkadia 2024), che è anche una sorta di romanzo perché tutte le storie dei protagonisti non solo sono legate tra loro, ma dipendono in qualche modo l’una dall’altra. Il risultato è uno scavo psicologico ed emotivo dei personaggi che non nasce da elucubrazioni vaghe, ma dalle loro vicende. Sono loro che vengono “scavati” dagli sviluppi dei vari fatti che gli capitano o che fanno accadere. A questo punto, dopo aver letto il libro, ecco che mi ritrovo a parlarne con l’autrice.
La prima cosa che mi colpisce è la frase di Jonathan Coe che metti all’inizio: dice che il linguaggio è un traditore. Ti sei sentita tradita dalle parole, oppure è il linguaggio che ti ha costretto a scrivere?
La frase di Jonathan Coe riassume perfettamente la storia del protagonista del primo racconto e il lato peggiore del suo dramma: non capire quale vile macchinazione ci sia dietro il suo arresto. Tradita dalle parole? Direi di no, le parole non mi tradiscono mai, “le amo, mi ci aggrappo, le inseguo” direbbe Neruda, semmai sono stata tradita da quelle degli altri, ingannevoli o manipolatrici, ma a chi non è capitato? Se devo risalire a un tipo di tradimento che mi ha spinto a scrivere penserei al contrario, ossia al silenzio. Sono stata una bambina riservata, accomodante, in psicologia sarebbe l’archetipo di Persefone, silenziosa, in disparte, incapace di far valere le proprie idee, ma al tempo stesso ricettiva, con una vita interiore ricchissima e colorata. Il silenzio era paura di esporsi, forma di timidezza, rifiuto del contrasto, ma veniva scambiato per fragilità e incapacità di lottare. Ho iniziato a leggere libri per vivere quanto nella realtà mi precludevo e ho iniziato a scrivere storie per dare voce a un’interiorità inespressa. Non per imbellettare la mia storia, per me è stato davvero così: attraverso la scrittura ho conosciuto me stessa, ho scoperto e chiarito le mie idee, ho iniziato a trascinarle fuori con decisione e fierezza e ho imparato a decifrare la realtà. Da allora la penna – così come questo libro – è l’antidoto al silenzio e al riserbo.
Comunque, questa tua serie di storie è anche attraversata dal tradimento, quello vero, no?
Esatto, un tradimento che può assumere varie forme e avere differenti motivazioni che spingono ad attuarlo: l’incapacità di accettare il proprio fallimento, l’ossessione per il successo, la propensione all’invidia o alla vendetta, l’idea che calpestare gli altri per arrivare alla meta è tutto sommato accettabile. Il tradimento è tra le cose che mi spaventano di più, soprattutto la possibilità che l’inganno venga da persone care. Credo che faccia soffrire non tanto l’atto meschino in sé, quanto dover accettare la propria ingenuità, l’averci creduto, aver donato una parte preziosa di sé a qualcuno che poi l’ha violata. Quando leggo la frase di Flaubert “non toccate mai i vostri idoli: la doratura si attacca alle dita” penso: e se la doratura fosse la nostra? Se a volte scoprissimo di essere più sciocchi di quanto pensiamo? Spesso la delusione non è per gli altri ma per se stessi, e forse è vero che perdonarsi è la cosa più difficile perché permettiamo noi di farci del male. Ci scopriamo ingenui, deboli, fiduciosi, o semplicemente non amati come pensavamo.
Cos’è che t’interessava narrare, questa volta?
L’ho capito soltanto quando ho finito di scrivere tutte le storie, scrivere mi aiuta a mettere in ordine i pensieri. Stavolta non sono partita da un elemento concreto – un’idea un argomento un personaggio – ma da qualcosa di interiore, da sensazioni, diciamo così, e da un modo di vedere la realtà che è un po’ cambiato negli ultimi anni. Il mondo in cui viviamo, che leggiamo su internet, che vediamo alla tv, mi pare così imbruttito, abbrutito… lo so, detta così mi fa sembrare una di quelle anziane che si lamentano “questo mondo non lo riconosco più!” Parlo dell’aspetto prettamente umano, è sempre più oscuro, prepotente, ogni idea o avvenimento viene spaccato a metà e si può dire solo sì o no, è giusto o sbagliato, è vero o falso, si creano schieramenti opposti per ogni cosa e i social facilitano questo approccio categorico e aggressivo, niente più vie di mezzo, sfumature, riflessioni, dire non lo so pare una colpa. C’è una compulsione a giudicare e a criticare, senza più spazio per i dubbi, la flessibilità, l’ascolto. Invece il mondo è pieno di sfumature e di punti di vista. Per questo mi interessava raccontare storie diverse collegate tra loro attraverso i personaggi – un protagonista di un racconto diventa un personaggio secondario di un altro, poi una comparsa e così via –, una sorta di romanzo a episodi: ognuno rappresenta un tassello che insieme agli altri forma un mosaico, l’intento è mostrare quanti punti di vista possono esistere di uno stesso spicchio di mondo e quanti lati nascosti della realtà e della vita degli altri non vediamo, non capiamo e non possiamo giudicare. Il “nascosto” del titolo può avere un doppio significato: sia nel senso di colpevole, negativo, ambiguo, sia nel senso di intimo, doloroso, protetto.
Scrivi in queste pagine di un ex carcerato, di un’insegnante, di una giornalista, di un giudice, e via così. C’è uno dei personaggi al quale ti senti più vicina?
Mi sento vicina a tutti, soprattutto alla loro parte ammaccata o nascosta. Ma se devo sceglierne uno, penso a Carolina: ha 12 anni e vive come dimezzata, da un lato la vita in famiglia e a scuola e dall’altro il mondo parallelo della fantasia, dei libri in cui si immerge totalmente come un palombaro che scende negli abissi, un incantesimo che la assorbe e la aiuta a sopportare meglio la realtà, soprattutto la solitudine e l’amarezza. La letteratura salva? Non sempre, anche in questo caso ci possono essere prospettive differenti. Se una ragazzina abbandonata a se stessa legge libri non adatti alla sua età, per i quali non ha la struttura psichica, la consapevolezza e la maturità che riescano a fungere da filtro, allora anche sognare e immaginare possono svelare il loro lato oscuro.
Un altro tema che mi sembra molto evidente è quello dell’assenza, della solitudine, dell’abbandono…
Sì, tra i vari temi che si intrecciano nei racconti troviamo la solitudine, a volte imposta dagli altri e a volte usata come difesa, c’è la mancanza che può essere intesa come una voragine in cui sprofondare o come una presenza che diventa abitudine o talmente familiare da costruirci intorno la propria vita, scopriamo l’abbandono subìto che diventa rabbia o annientamento, l’integrità che se portata alle estreme conseguenze si trasforma in intransigenza ottusa. In realtà ogni tema può essere ribaltato e visto da un’ottica differente e alla fine tutti i temi confluiscono in una domanda che riguarda tutti i personaggi: il destino esiste o è un’invenzione? Nella vita ogni cosa ha un senso, una direzione, le motivazioni hanno valore, le coincidenze uno scopo, le scelte sono determinanti, oppure è tutto banale e fortuito, un insieme di strade senza uscita e di incontri superflui? Esiste davvero un destino per tutti, costruito pezzo per pezzo dalle scelte, dalla famiglia, dal carattere, dalle paure, oppure ogni esistenza è puro caso, una ruota che gira e noi tanti piccoli criceti che corrono senza andare da nessuna parte? Essere un criceto impotente o credere nella volontà e nell’autodeterminazione?
Hai già provato con successo la forma racconto e la forma romanzo, ora hai deciso di scrivere un libro che non è propriamente un romanzo ma nemmeno una vera e propria raccolta di racconti. Perché?
Mi sono resa conto che l’incrocio tra romanzo e racconto era la forma narrativa perfetta per ciò che stavo raccontando: costruire una sorta di catena, fatta di anelli autonomi dal punto di vista narrativo ma che trovano il loro compimento nell’unione con gli altri, mi consentiva di narrare lo stesso spaccato di mondo attraverso diverse prospettive. Avere più libertà, più elasticità. Ma c’è anche un motivo meno nobile e molto più semplice: ho scritto quasi sempre romanzi e il tipo di storia che mi appassiona, il romanzo psicologico o di formazione, prevede uno scavo, una estensione e una complessità che nel tempo ho trovato faticosi a livello di investimento emotivo, di energia fisica e mentale; per due, tre anni seguivo le vite dei personaggi, li studiavo, scavavo nella loro psiche, nelle motivazioni, nei guasti, nelle contraddizioni, nelle gioie e nelle ferite, e alla fine di ogni pubblicazione mi sentivo sfinita, tanto che per mesi non riuscivo a scrivere più nulla. Avevo bisogno di depurarmi. Quando ho scelto la forma del racconto, anche se non tradizionale, mi sono sentita felice e molto curiosa, è bello cambiare, mettersi in gioco e rischiare.
C’è qualche autore contemporaneo che ti ha ispirato nella scelta della forma narrativa?
Per la scelta della forma narrativa no, nessuno di preciso, ma alla fine veniamo influenzati più o meno inconsciamente da tutto ciò che leggiamo e ammiriamo. Ho letto tante raccolte di racconti (non solo contemporanee) durante la stesura de Il lato nascosto delle storie, alcuni autori li ho riletti, come Carver o Richard Yates, altri sono stati una scoperta straordinaria, come Scommessa su un fantino morto di Irwin Shaw e Gesù dell’uragano e altre storie di James Lee Burke. Ma se posso citare un libro che non c’entra nulla con il mio progetto né con la forma del racconto, ma che mi ha letteralmente travolto e ammaliato, dico Lonesome Dove di Larry McMurtry: un colpo di fulmine, un romanzo che ne contiene altri dieci o un romanzo fatto di centinaia di racconti, un inno alla libertà, al coraggio e all’immaginazione di cui oggi abbiamo bisogno un po’ tutti.
Lavori in molti ambiti della cultura, scrivi, hai un’officina letteraria in cui organizzi incontri e laboratori, ti occupi di teatro e hai fatto la giornalista culturale anche in televisione. Cosa ti piace di più fare?
Mi piace tutto, in realtà. È l’amore per la letteratura declinato in varie forme, esperienze diverse ma in sintonia tra loro: mi appassiona scrivere, aiutare gli autori alle prime armi, recensire i libri che amo, far parte della giuria dei concorsi letterari, intervistare gli artisti che ammiro, scrivere articoli per i giornali, organizzare da anni un concorso per il teatro. Ma se devo scegliere due esperienze in particolare perché diverse da quanto fatto finora e perché caratterizzate da un lavoro di squadra che la scrittura in generale non prevede, ricordo con gratitudine la rubrica culturale in televisione con ospiti in studio e il progetto della trilogia fotografica e narrativa sulle bellezze storiche, artistiche e culturali della mia terra, l’Abruzzo.
Vivi e lavori in Abruzzo, pensi che stare lontani dalle grandi città come Roma, Napoli o Milano sia un privilegio oppure ti manca qualcosa delle metropoli?
Per stare in tema con il mio libro, condivido tutti e due i punti di vista: è un privilegio vivere in una terra magnifica come l’Abruzzo – ricca di natura, di storia, di pace – e fare qualcosa di buono in una piccola città come la mia, perché credo fortemente nell’importanza e nella necessità di promuovere cultura proprio dove ci sono meno possibilità e meno risorse rispetto ai grandi centri; al tempo stesso mi mancano le occasioni di cui le metropoli sono ricche, gli eventi, le mostre, le fiere. Ma amo viaggiare, quindi le distanze non mi spaventano.
Scrivi che ogni libro è un viaggio, cosa significa per te scrivere?
In aggiunta alla risposta che ho dato alla prima domanda, penso che la scrittura sia essenzialmente conoscenza, sia dal punto di vista del lettore che scopre o impara cose nuove, sia dal punto di vista dello scrittore, che si mette in gioco, si denuda, riflette su se stesso in relazione al mondo, e fa esperienza insieme ai suoi personaggi che si muovono e si trasformano sotto i suoi occhi, diventando ciò che all’inizio non pensava potessero essere. Un viaggio interiore dunque, e al contempo un viaggio reale fatto di connessioni, di tappe, di scoperte, di un dialogo con i lettori – quelli che ti leggono soltanto e quelli che incontri durante le presentazioni – e anche con il tuo editore: quando sei fortunato (e con Arkadia io lo sono davvero) ti sostiene, ti consiglia, ti fa viaggiare nel modo migliore.
Paolo Restuccia
Il link all’intervista su Storygenius: https://tinyurl.com/278acj7s
Avezzano – Il lato nascosto delle storie, è un libro le cui pagine si aprono su quei luoghi dello spirito o della mente, fate un po’ voi, dove la ragione non vorrebbe mai entrare. Una cantina buia dove le verità più scomode stanno chiuse a chiave, soffocate dal bavaglio del giudizio altrui. Sui polsi, i segni di paure antiche, che stringono la carne fino a farla sanguinare. Ognuno dei personaggi è ostaggio di un lato nascosto che definisce i contorni di territori inesplorati, lungo i cui confini si aprono abissi spaventosi. I protagonisti stanno in equilibrio precario sul filo di esistenze scialbe, ordinarie, fino a quando la vita presenta loro il conto, e l’oscurità inghiotte la tiepida fiammella tremula che tiene in vita le illusioni. Il lettore si immerge nella lettura dei racconti che descrivono personaggi irrisolti, legati fra loro da un sottile filo che sembra lo scherzo di un fato beffardo onnisciente, scappato dalla penna creativa della scrittrice, Roberta Di Pascasio, unica indiziata della fuga di questo demone dal vaso di Pandora dei libri non scritti. È il caso che si prende gioco delle nostre vite oppure siamo noi i principali artefici del nostro destino? Una domanda che potrebbe essere il sottotitolo di questa raccolta di storie minime dense di verità. La minuziosa descrizione di ambienti e luoghi, di oggetti e putridume, di mura scrostate e periferie riarse dal sole, con il loro portato di decadente abbandono, sembrano mettere in scena la disperata ricerca di una vita vera che chiede, prima di tutto, lealtà con se stessi. Il sesso come analgesico per lenire il dolore di una realtà che annichilisce, l’abbandono, la lascivia di corpi che si usano a vicenda alla ricerca del piacere nel vuoto di esistenze apparentemente senza prospettiva, sono solo alcuni dei tratti distintivi di un’atmosfera fosca che trasferisce al lettore una sensazione di straniamento. In ognuno dei dieci racconti che compongono la raccolta emerge il profilo di un protagonista sul quale è costruita la trama di una storia popolata da personaggi minori, comparse che a loro volta diventano protagoniste nel racconto successivo, non necessariamente in ordine consequenziale. Questa trovata narrativa è molto efficace nello spingere il lettore a riflettere sugli infiniti ruoli che può assumere un individuo nella vita, dove troppo spesso ci si accapiglia per occupare il centro della scena nell’illusione di essere i protagonisti della storia, inconsapevoli del rischio affatto infondato, di ritrovarsi relegati ad anonimi spettatori di quinta fila. L’occhio discreto della scrittrice tenta di offrire una risposta attraverso la semplicità degli ultimi, di quelli che non hanno più nemmeno il diritto né la dignità di appartenere al consorzio umano. Una coperta per affrontare il freddo delle notti, uno spazzolino da denti che vale più del denaro, e un sorriso che diventa un’ancora di salvezza per una vita spesa malamente inseguendo le apparenze. Le terre estreme del degrado umano, fra senza tetto che vagano per la città e giovani criminali, e quelle apparentemente più rassicuranti dei piccoli borghesi incatenati al perbenismo tossico di un mondo crepuscolare, sono descritte dalla Di Pascasio con precisione quasi maniacale. Storie che hanno il sapore acidulo del mondo rarefatto raccontato da Raymond Carver, capace di rendere epica la descrizione di un pomeriggio trascorso in lavanderia. Forse sta tutto lì il senso di un intreccio narrativo che ti fa chiedere: ma quand’è che una storia finisce e inizia l’altra? In effetti il libro, si potrebbe leggerlo partendo dall’ultima storia, andando a ritroso verso la prima. Il suo valore, in questo gioco di incastri, non cambierebbe di una virgola. Al lettore non resta che lasciarsi avvolgere da questi racconti nel tentativo di vedere cos’è nascosto oltre ciò che sembra. Riconoscere un dolore lontano nella strafottenza di un bullo o nell’aggressività verbale di questi tempi vuol dire far luce sul lato nascosto di storie che corrono via veloci senza lasciare il tempo di guardare oltre il buio del conformismo.
Alfio Di Battista
Il link alla recensione su NoticeWay: https://tinyurl.com/57zbdhuv
Avezzano. “Il lato nascosto delle storie”, edito da Arkadia, è un’opera che si colloca a metà strada tra una raccolta di racconti e un romanzo a episodi. L’autrice costruisce un mosaico narrativo in cui ogni tassello, pur autonomo, trova il proprio significato nell’unione con gli altri. Quella che inizialmente appare come una serie di vicende indipendenti si rivela parte di un ingranaggio più grande, dove le vite dei protagonisti si intrecciano, spesso senza che ne siano del tutto consapevoli. Ogni storia, pur restando a sé stante, si alimenta di un tema comune: l’incapacità umana di governare il proprio destino, la sensazione di essere spettatori passivi del proprio fallimento, in un mondo che non lascia spazio al controllo. Il romanzo è pieno di materiale umano, di quelle emozioni e tensioni che rispecchiano le nostre vulnerabilità più profonde. Ci sono racconti di un ex carcerato innocente e della moglie che ha creduto alla sua colpevolezza, di un insegnante ingiustamente accusata e del suo allievo che trasforma la solitudine in vendetta. Ogni personaggio rappresenta una maschera sociale dietro la quale si nasconde un universo emotivo complesso, fatto di scelte sbagliate, errori, ma anche di occasioni di rinascita. E proprio in questo sta la forza del libro: l’autrice, come un’abilissima sarta, cuce con estrema cura le vite dei suoi protagonisti, facendoci entrare nei loro panni, nei loro pensieri, nelle loro paure. Il linguaggio è mutevole e straordinariamente scalabile: si passa dalle voci acerbe di adolescenti bullizzati che cercano disperatamente il proprio posto nel mondo, alla forma forbita e quasi antiquata di un vecchio giudice, ormai fuori tempo per la società moderna. Questa versatilità stilistica non è mai fine a se stessa, ma è funzionale alla rappresentazione di un mondo in cui ogni individuo vive con una faccia pubblica e una privata, costantemente in bilico tra ciò che mostra e ciò che cela. Leggere “Il lato nascosto delle storie” è come immergersi in una girandola di personaggi, ognuno con il suo dramma personale, ma tutti incastrati in un meccanismo che va oltre il loro personaggio. E proprio qui emerge il cuore pulsante del romanzo: in un mondo spesso semplificato e diviso tra il bianco e il nero, la Di Pascasio ci invita a esplorare quel limbo di grigi su cui troppo raramente ci soffermiamo a riflettere. “Ogni storia ha due lati”, ed è questa consapevolezza a rendere potente la frase che forse più di tutte racchiude l’essenza del libro: “Siamo tutti colpevoli e tutti innocenti”. “Il lato nascosto delle storie” è una riflessione profonda sulla vita, sul fallimento e sulla capacità o incapacità di riprendere il controllo della propria esistenza. È un’opera che non offre soluzioni, ma che costringe a guardare dentro di sé, tra i margini di ciò che mostriamo al mondo e ciò che ci teniamo dentro. Una lettura coinvolgente e forte, che lascia il segno. Un bel segno.
Francesco Proia
Il link alla recensione su AbruzzoLive: https://tinyurl.com/57r8macz