Con ‘La libraia di Stalino’, ‘Dna Chef’ e ‘Fisica delle separazioni in otto movimenti’
Il Comitato Tecnico del Premio Letterario Chianti, coordinato da Michele Brancale e composto da Antonio Celano, Paolo Codazzi, Cecilia Bordone, Maria Rosa Fabiani, Claudia Lucattini, Deborah Montagnani, Andrea Pucci, Paolo Santagati, ha deliberato la selezione dei seguenti tre autori finalisti della 36esima edizione del Premio Letterario Chianti 2024, destinato a volumi di narrativa editi dal 1 gennaio 2022 al 30 giugno 2023:
Leonardo Gori, La libraia di Stalino (Tea)
Roberta Lepri, DNA Chef (Voland)
Giacomo Sartori, Fisica delle separazioni in otto movimenti (Exorma)
Menzione speciale del Presidente del Premio a Gigi Paoli per il romanzo ‘La voce del buio’ (Giunti).
Menzioni del comitato tecnico per Simona Baldelli (Il pozzo delle bambole, Sellerio) e Massimiliano Scudeletti (La laguna dei sogni sbagliati, Arkadia).
La rosa dei finalisti è stata presentata lunedì 26 febbraio da Paolo Codazzi e dai membri del comitato tecnico, con il coordinatore, la Presidente del Rotary San Casciano Chianti Caterina Pulselli, i sindaci di Greve in Chianti Paolo Sottani, di Impruneta Riccardo Lazzerini, di San Casciano Roberto Ciappi, e del consigliere regionale Massimiliano Pescini, in un incontro promosso dal Rotary San Casciano – Chianti, sponsor della manifestazione, presso il ristorante ‘Pinna rossa’.
Gli autori dei tre testi selezionati presenteranno il proprio libro alla Giuria dei Lettori, composta da oltre 300 membri, in incontri che si terranno di sabato, ore 17, nei mesi , marzo, aprile, maggio 2024, presso luoghi storici del Chianti, secondo un calendario che successivamente verrà comunicato. La cerimonia finale avverrà nel mese di maggio 2024 e ad essa saranno invitati oltre i finalisti anche gli scrittori menzionati.
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Pinuccio Badalà ha solo cinque anni quando, in un giorno d’agosto del 1980, suo padre Michele e suo zio Salvatore si trovano a Bologna, alla stazione: devono prendere il treno per tornare a casa, in Sicilia, dove la famiglia li aspetta. Zio Salvatore ha persino comprato un regalino per Pinuccio: un libro. Ma quando la sorte ci si mette di mezzo c’è poco da fare: un boato immenso, la stazione salta in aria, zio Salvatore muore sul colpo, Michele invece se la cava ma tornerà a casa dopo mesi, gravemente menomato. È così che la Storia con la esse maiuscola irrompe nella piccola storia della famiglia Badalà. Pinuccio, traumatizzato dall’evento cui non ha assistito ma di cui paga le conseguenze, non riceverà mai il regalo dello zio Salvatore, ma in qualche modo la passione per i libri gli si incollerà addosso e non lo lascerà più. Il romanzo di Vladimir Di Prima, Il buio delle tre, racconta la vita del giovane Badalà, un ragazzo che ha una sola ambizione, quella di diventare uno scrittore. Come sappiamo non è facile realizzare questo sogno: tanti hanno la passione di scrivere, pochi riescono a dar corpo ai propri sogni, a pubblicare i loro romanzi, ad avere successo, a sfondare. L’odissea di Pinuccio, descritta con molto brio dall’autore, contempla tutti i passi della via crucis: scrivere è il meno, il difficile viene dopo. Trovarsi un mentore, cercare un editore, intrufolarsi in un programma televisivo, tentare di fare amicizia con un autore già famoso o con un giornalista capace di esercitare la sua influenza… E, con l’avvento di internet, seguire i blog letterari, lasciare commenti, cercare gli indirizzi di persone influenti, importunarle come un volgarissimo troll. Nel frattempo la vita di Pinuccio si dipana, tra la madre Santina, comprensibilmente preoccupata per il suo avvenire, il maestro Magazù, suo confidente e consigliere, la possibile fidanzata Enzuccia sponsorizzata da Santina e altri esilaranti personaggi. Un romanzo che si legge con grande divertimento, scritto in una lingua elegante e un po’ ricercata: chissà, se l’avesse scritto Pinuccio avrebbe coronato il suo sogno di successo…
Marisa Salabelle
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In un’epoca remota e circonfusa di leggenda, il XIII secolo siciliano, gli specchi erano così rari che a Palermo alcuni uomini di cultura araba con il senso degli affari avevano preso a collocarne agli angoli delle strade, in modo che i passanti più vanitosi, dietro un piccolo compenso, potessero controllare l’acconciatura o lo stato dei vestiti. Uno di questi specchi non era di metallo, ma di finissima tela di papiro armeno; si riteneva inoltre che potesse catturare l’immagine riflessa, come una fotografia avanti lettera, a patto che i soggetti che si specchiavano fossero innamorati. È da qui che prende avvio Lo specchio armeno (Arkadia, pagg. 188, euro 16) di Paolo Codazzi, scrittore che per tenuta, statura intellettuale e ambizione linguistica merita di essere annoverato fra i nostri migliori narratori. Al centro del romanzo, che viaggia fra il Medioevo siciliano, il Rinascimento e il presente, è un pittore-copista fiorentino sentimentalmente bloccato, Cosimo Armagnati. A torto lo si definirebbe un falsario, visto che replica quadri con libertà, attingendo all’essenza dell’opera più che alla sua forma esteriore. Quando però un committente gli chiede di duplicare un ritratto femminile custodito in una celebre pinacoteca palermitana, lo stesso che il protagonista aveva visto da bambino su un sussidiario, l’essenza si rivela ingestibile: con il passare degli anni, la donna del dipinto si era trasformata in un archetipo irraggiungibile, condannando Cosimo a un rigido celibato sentimentale. Il «miracolo» di una sua riapparizione al di là dei secoli si verifica nell’aeroporto di Punta Raisi, miracolo moltiplicato in nuove metamorfosi quando il romanzo si sposta in un Quattrocento dominato dalla caccia alle streghe e l’Inquisizione spagnola, istituzione repressiva che per un breve periodo fu imposta anche ai siciliani. La trama, mirabilmente intrecciata, comprende la lettura notarile del lascito testamentario di un ricco magistrato, la scomparsa dalla sua libreria di un volume olandese che anticipa di tre secoli le illuminate proposte di Cesare Beccaria, la vita more uxorio di un alto prelato con una strega… Altrettante linea di fuga per il piacere del lettore; Codazzi scrive (e pensa) talmente bene che può permettersi tutto il «romanzesco» che vuole.
Fabrizio Ottaviani
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Sabato alle 17, nei locali della libreria Ubik, è in programma la presentazione del romanzo ‘La laguna dei sogni sbagliati’, di Massimiliano Scudeletti. Dialoga con l’autore lo scrittore Paolo Panzacchi. Venezia, anni Novanta. Alessandro Onofri ha dodici anni e, dalla morte dei suoi genitori, vive con una vecchia zia eccentrica amante dell’esoterismo. È una vita quasi normale la sua, tra nuovi amici e primi amori, ma il trauma subito lo porta a incespicare tra fantasia e realtà, e a rincorrere il sogno di evocare i fantasmi dei suoi genitori. Per quella magia farebbe qualsiasi cosa. La zia gli ha insegnato che una terra malata genera mostri e forse così si spiega il fiorire di sette sataniche, gli atti di violenza e i delitti rituali che stanno travolgendo la provincia della città mai così lontana dalla sua immagine da cartolina. Intanto, l’inquinamento del petrolchimico di Porto Marghera è al suo apice e le cupe vampe della guerra jugoslava illuminano la fine del millennio. Il mondo di Alessandro è scosso dall’arrivo di un’inquietante insegnante che terrorizza gli alunni. Perché cerca di indirizzarlo in un percorso iniziatico che unisce Crowley, DeLavey e altri maestri dell’occulto a un pittore russo della metà del secolo scorso, tanto misterioso quanto delirante? Solo gli amici, un improbabile maestro di arti tradizionali cinesi oltre alla presenza formidabile della zia e della sua congrega potranno lottare per la sua anima e salvarlo dalle sue peggiori paure. Una storia in cui esoterismo, paure e strani personaggi si mescolano in una Venezia mai così lontana dalla sua immagine da cartolina.
Massimiliano Scudeletti nasce e vive a Firenze. Dopo gli studi si dedica alla realizzazione di documentari e spot televisivi prima come sceneggiatore, poi come regista. A febbraio 2018 pubblica il suo primo romanzo, ‘Little China Girl’.
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Raccontare un luogo può essere fatto in molti modi, mossi dal desiderio di esaurirli senza consumarli e questo è il senso della letteratura che li ama davvero senza approfittare della loro disponibilità assoluta
Fare del proprio luogo il luogo d’altri e dei luoghi d’altri il proprio è un po’ la via della letteratura di luogo – non parliamo di guide turistiche, quindi, anche se possono assolvere perfettamente alla funzione di viatico – o da altri detta “di viaggio” (espressione a cui preferisco la precedente perché… (il perché lo scoprirete da questa piccola rassegna di due titoli appena usciti, diversi ma contigui). Inizio dal libro di Mauro Francesco Minervino, Al monte analogo. Monte Cocuzzo. La montagna-arca (oligo) che parte da un esergo di George Gissing del 1889 e da una mappa fotografica (mappe e foto, letteralmente che l’autore chiama “prefazione visiva”) che offre da subito il campo del viaggio. Un viaggio spesso non è un andare in senso stretto ma uno stare che può essere compiuto anche da fermo. Gli scrittori di luogo lo sanno e spesso, come fa Minervino, più che passare, stanno, più che variare i luoghi, perecchianamente tentano di esaurirli. Per ogni scrittore – ed è questa la bellezza variabile del “genere” (se di genere possiamo parlare visto che è piuttosto un modo che insiste anche in libri e in autori non strettamente di luogo) – l’esaurimento del posto raccontato avviene per via di metafora ed è bello scoprire questo monte calabrese come Olimpo “che nutre ancora oggi sguardi, fantasie, illusioni” o Sainte-Victoire cezanniana (anche i pittori hanno spesso cercato di esaurire dei paesaggi) pur non avendo competenze per dipingerlo. E, anche questo, è un indizio: chi scrive veramente di luoghi usa tecniche non sue e con efficacia, pur non padroneggiandole, pur non desiderando farlo.
L’altro libro di cui volevo parlare intreccia una vita – quella dello scrittore Collodi – e un luogo. L’operazione è quindi antipodica rispetto a quella precedente. È come entrare nella cabina di regia del capolavoro Pinocchio attraverso l’autore e i suoi luoghi. Paolo Ciampi in Il babbo di Pinocchio (Arkadia editore), proseguendo in una felice linea di biografie su personaggi storici nei luoghi, ha dedicato un viaggio surreale a partire dalla prima lapide – “In questa casa nacque nel 1826 Carlo Lorenzini detto il Collodi, padre di Pinocchio” – trovata su “una via stretta, stirata per il lungo. Su un lato la mole cupa dell’ex convento di Sant’Orsola, in seguito manifattura dei tabacchi”. Dove? Ma sì a Firenze (il paese di Acchiappacitrulli?). Per la precisione Via Taddea, 21n. Insomma, se i luoghi per gli autori hanno un destino, non possono che averlo anche quelli in cui hanno vissuto (e quindi visto). In una medianica passeggiata, Ciampi ci accompagna nei luoghi fiorentini del Collodi tra i vari Caffè Michelangelo, I “palazzi severi” della “città sdegnosa, appartata” dei suoi tempi facendocela apprezzare ma senza perdere di vista il presente dell’autore. Raccontare un luogo, ci dicono questi due libri, può essere fatto in molti modi, mossi dal desiderio di esaurirli senza consumarli e questo è il senso della letteratura che li ama davvero senza approfittare della loro disponibilità assoluta.
Roberto Carvelli
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Vladimir Di Prima è nato a Catania nel 1977. Fa parte del comitato organizzatore del Premio Brancati. Filmmaker indipendente, si occupa di documentari e cortometraggi. È autore del romanzo Il buio delle tre edito da Arkadia.
Lo intervista lo scrittore Marino Magliani, autore – tra le altre opere – de Il bambino e le isole (un sogno di Calvino), pubblicato da 66Thand2nd, e di Peninsulario, pubblicato da Italo Svevo. Magliani è uno dei curatori della collana Senza rotta che accoglie la nuova opera di Di Prima.
La trama del tuo romanzo si dipana attraverso quarant’anni di storia italiana e racconta le disavventure, se così possiamo chiamarle, di un uomo dapprima giovane, e poi invecchiato, che attende risposte dal “sistema editoriale” italiano. Un problema atavico, si direbbe, raccontato tuttavia qui in maniera originale e sorprendente con un registro d’ironia tutta isolana che è il valore aggiunto di quest’opera. Qual è il significato simbolico della scena iniziale in cui i cugini Salvatore e Michele Badalà si dirigono a Roma per incontrare un rappresentante della CGIL? E come si sviluppano i loro destini all’interno del romanzo, e quale ruolo gioca questa situazione nell’intero contesto narrativo?
I due cugini, che sperimenteranno sulla propria pelle una delle pagine più tragiche della Storia italiana, sono la metafora di quella provincia agganciata agli schemi tipici di un Paese che tutt’oggi sconta le conseguenze di una politica clientelare, di forme residuali di patriarcato, e di un analfabetismo di ritorno, ma anche di classismo e reticenza di fronte alle malattie. I loro destini sono ben presto definiti e questo, di riflesso, segnerà l’evoluzione del protagonista creando una frattura emotiva nel rapporto genitoriale e sentimentale.
Come viene presentata la visione del mondo di Pinuccio Badalà e in che modo si lega alla sua ambizione letteraria? A un certo punto, la madre cerca di dissuaderlo dal considerare la scrittura come mestiere, e come reagisce Pinuccio a questa prospettiva?
Il mondo di Pinuccio Badalà è figlio dell’imperante individualismo di massa, dove la concezione del sé preclude quella dell’altro e prevale su ogni concetto di collettività. A Pinuccio, in fondo, non importa nulla di cosa accade sulla Terra, concentrato com’è verso il suo unico traguardo che poi coincide con il riconoscimento. Anzi, possiamo senz’altro dire che per lui la fine del mondo è la propria morte e che niente all’infuori di sé stesso ha intrinseco valore. Ecco però il paradosso: le ambizioni, legittime o meno di Pinuccio, si scontrano giornalmente contro quell’alterità che gli nega la realizzazione personale. Alterità che si manifesta, inoltre, nella figura della madre, contrappeso terrigno e pragmatico di questa vicenda. Santina infatti, ancorata alla persistente visione dei vinti di verghiana memoria, non crede alle possibilità del figlio e quando (una volta soltanto) anche lei cederà all’illusione, la realtà dei fatti la riporterà ben presto con i piedi per terra. Pinuccio naturalmente non si rassegnerà mai al pessimismo della donna.
In che modo, allora, il tema della scrittura emerge come elemento centrale nel romanzo? E quali riflessioni vengono fornite sulla figura dello scrittore, quali sfide Pinuccio Badalà affronta nel suo percorso letterario?
L’importanza assegnata alla scrittura, dove essa assume un ruolo centrale e quasi personificato, riflette una mia considerazione sull’evoluzione della comunicazione e dell’arte nella società contemporanea. La scrittura, per me, è fondamentalmente il nucleo centrale della narrazione, ciò che permette a ogni romanzo un modo distintivo di raccontare la realtà. E la sfida di Pinuccio è proprio questa: tentare in tutti i modi di essere pubblicato passando per una scrittura giudicata, paradossalmente, troppo alta per il livello del lettore medio.
Quali personaggi significativi Pinuccio Badalà incontra nel suo cammino alla ricerca del successo letterario? In che modo questi personaggi influenzano le sue scelte e la sua concezione della scrittura?
Vorrei anzitutto precisare che Badalà non insegue il successo, semmai la considerazione, che è un aspetto ben diverso. Lungo il suo più che ventennale “viaggio” incontra praticamente tutti gli attori del palcoscenico editoriale nazionale. Fra scrittori, editor, agenti, uffici stampa, blogger ti posso assicurare che non manca proprio nessuno. E poco importa se non si fanno i nomi (peraltro riconoscibilissimi a un’attenta lettura). Le pedine mutano di anno in anno e la rabbia di Pinuccio non è tanto un risentimento nei confronti del singolo, quanto una rivolta contro un sistema, oramai sedimentato, di cui gli stessi protagonisti sono vittime più o meno inconsapevoli. Ricorrono, poi, personaggi certamente più positivi e umani che rafforzano la consapevolezza della scrittura del protagonista, come la figura dell’enigmatico professore o quella del compianto Severino Cesari o ancora quell’altra del premio Nobel, ma complessivamente ci si muove fra le trame di un dramma, e nel dramma sono più i fatti e i personaggi spiacevoli che quelli piacevoli.
Non pensi che questo romanzo possa in qualche modo renderti inviso alla grande editoria italiana? Del resto, anche se con profonda ironia, ci vai giù pesante.
Dimmi tu, cosa ho da perdere? La mia storia editoriale è quella di Pinuccio Badalà. La scrittura non mi ha mai portato cento grammi di pane a tavola e, per fortuna, la spesa riesco ancora a farla con altro. Il successo, se è quella cosa che si traduce con una sovraesposizione mediatica, non mi interessa. Un giorno, una nota agenzia di Milano mi disse che avrei dovuto scrivere sotto pseudonimo perché il mio nome era già bruciato. Motivo: aver pubblicato già diversi romanzi con piccoli editori. Ci risi sopra. Ora tu pensi che dopo questo romanzo subirò un’ulteriore emarginazione? Beh, più buio delle tre non può fare! E poi ben venga se questo è il prezzo da pagare per mantenere integre la mia libertà creativa e una certa coerenza intellettuale con i miei diciassette lettori.
Ragioniamo per assurdo: un grande editore, dopo essersi accorto de Il buio delle tre ti convoca in casa editrice e ti propone un contratto purché tu ti faccia carico di scrivere un romanzo con delle precise caratteristiche, se non stilistiche, quantomeno tematiche. È una cosa parecchio frequente, sai? Tu accetteresti?
Ti facilito la soluzione citando un passo emblematico de Il buio delle tre: nel 2012 Pinuccio Badalà si reca a Milano dopo essere riuscito a farsi dare un appuntamento da uno dei più influenti agenti letterari del Paese. Lascia il suo dattiloscritto a fronte di molte e reciproche perplessità, sue e dell’agente, ma questi dopo appena tre giorni lo ricontatta. L’agente è convinta di piazzarlo presso un grandissimo editore, ma Pinuccio dovrà inserire in quel suo scritto un capitolo dove figurano dei bambini trucidati. È l’occasione della vita, come dici tu, e Pinuccio cosa fa? Lascio alla tua intelligenza intuire la risposta.
Insomma, sembra quasi che la tua testardaggine rifugga il compromesso. Però, come fai dire a un personaggio ne Il buio delle tre, «ogni metallo ha un punto di fusione». Il tuo qual è?
Senz’altro l’autenticità. Sono un ricercatore di verità, in quanto la realtà come fenomeno è facilmente falsificabile. Il compromesso è sostenibile se prodotto da due interlocutori con la stessa visione. Viceversa il metallo si indurisce più che sciogliersi.
Come mai Pinuccio Badalà non cade nella trappola dell’editoria a pagamento? In fondo, dopo tutte le delusioni ricevute, sarebbe un peccato veniale.
Pinuccio è un puro, uno che crede nell’etica del lavoro e conosce perfettamente l’importanza di essere pubblicato da una casa editrice seria. L’idea della pubblicazione a pagamento non lo sfiora neppure perché ne mortificherebbe ipso facto le ambizioni. La sua visione dell’editoria, pur con le sue mille contraddizioni, si fonda sull’idea di filtro necessario fra l’opera e l’autore. Pinuccio critica semmai la funzione degli editor nella misura in cui questi vengono preposti a un giudizio senza gli strumenti necessari. E capita assai di frequente, te lo garantisco. L’editoria a pagamento andrebbe sradicata con tutte le forze e in tutte le sue forme perché produce mostri senza capacità critica. Di fronte all’ignoranza di chi dice “anch’io ho pubblicato un libro” (che si scopre essere a pagamento) cosa rispondere? Nulla, eppure quel tentativo sottrae non solo possibili lettori a un’opera meritevole, ma contribuisce a creare una devastante inflazione.
Tu sei un siciliano piuttosto orgoglioso e verace. Spesso nei romanzi dei tuoi contemporanei troviamo una Sicilia mistificata, vittima di stereotipie e luoghi comuni. Nella scrittura del tuo romanzo quanto sei stato attento a non cadere nelle stesse trappole?
La mia terra, espressione di un’isola, in realtà per me è confinata al lenzuolo etneo in cui vivo e da qui ho attinto e attingo tutto quello che riporto su carta scritta. I miei personaggi nascono dall’osservazione giornaliera di vizi, abitudini, declinazioni e modi di pensare che sono perfettamente aderenti al vero. Il gallismo delle pagine iniziali del romanzo, per fare un esempio, è la precisa corrispondenza di una mentalità che tutt’oggi, in forme non molto diverse da quarant’anni fa, insiste ancora sul territorio. Eppure, come dici tu, c’era il rischio di “camillerizzarsi” o fluttuare in quella bolla creata ad arte per far tutto tranne che raccontare la Sicilia.
Fra qualche mese Il buio delle tre finirà fatalmente nel limbo delle opere dimenticate. Di fronte a questo ineluttabile destino quale sentimento provi? Naturalmente la mia è una provocazione – sono viceversa convinto che il tuo romanzo farà molto discutere – ma prendiamola un attimo per buona.
È tutta una questione di tempo, più o meno variabile da autore a autore, e col tempo c’è solo da perdere. Mi fanno ridere quelli che si prendono sul serio, quelli che si autoproclamano principini e reginette della letteratura, che si danno un atteggiamento da divi per finire sulle pagine dei giornali come se avessero un qualche merito riferito alle sorti dell’intera umanità. Ho sempre pensato che lo scrittore non sia altro che un disadattato, uno che osserva dagli angoli più remoti l’incontrollabile fluire del mondo e come può lo racconta. Lo scrittore non è tipo da aperitivi, settimane bianche, discoteche, in generale tipo per frivole mondanità; lo scrittore è figlio dell’infelicità del mondo e non ha alcun merito se non quello di essere stato estratto a sorte da quel birichino che gioca a dadi. Pertanto il mio sentimento di fronte alla dimenticanza è pressoché colmo di lucida accettazione; le cose del mondo sono sempre andate così.
Il romanzo si conclude con un accesso di ottimismo, sebbene le vicende non promettano nulla di buono. Cosa spinge il protagonista del libro, Pinuccio Badalà, a non rassegnarsi mai?
La passione. Quando c’è la passione vera, quel profondo e incorruttibile trasporto verso qualcosa, nessuna vicissitudine può ribaltare l’indirizzo intrapreso. La passione determina il destino di un uomo e si esaurisce solo con l’evento conclusivo della vita terrena. Pinuccio, dopo tutte le peripezie vissute, avrebbe tutta la ragione del mondo a dire di arrendersi verso un’evidenza che non lascia scampo, eppure non desiste. Il suo corpo è invecchiato nel tempo, ma il sogno, quello che ha cominciato a fare nelle notti dei suoi vent’anni rimane sempre giovane.
Per finire: immaginiamo ipoteticamente che Il buio delle tre possa capitare tra le mani di un grande scrittore del passato. Da chi ti piacerebbe venisse letto e perché?
Io ho un debole per Nabokov e quindi la mia scelta sarebbe pressoché automatica. Amo ogni virgola di quel genio e mi voglio convincere che qualcosa del “buio” la apprezzerebbe pure lui. Tuttavia non ti nego che questa tua domanda mi piacerebbe pensarla in altro modo: essere letto da un grande scrittore del futuro, ecco, da uno che possibilmente deve ancora nascere. Del resto si vive troppo spesso di illusioni e allora perché negarsele?
Marino Magliani
Il link all’intervista su ALIBI Online: https://bitly.ws/3dteS
L’amore come «estrema forma di felicità» e, in quanto tale, leopardianamente irraggiungibile, illusoria gioia fugace, «festa serena» destinata a trasformarsi in dovere (come insegna Gončarov). Il dramma dell’«idea dell’amore» che si proietta con la sua debordante potenza astratta in inesistenti orizzonti esistenziali privi di limiti, vivace riflesso di uno specchio leggendario, di tela armena, che «duplica e fissa i volti di soggetti innamorati», grazie a uno spirito benigno che vi dimora. Ma lo spirito non è nient’altro che la potenzialità dell’immaginazione unita all’imprevedibilità della vita, due enigmi sfuggenti che talora convergono verso l’estremo sconforto di un innamoramento che travalica i limiti spazio-temporali pur rimanendo intangibile. Tuttavia, fossilizzarsi sui propri fantasmi, sulla costanza di una convinzione aleatoria, blocca la vita, isterilisce le possibilità di godere del piacere della condivisione, delimita in un sogno torbido – nel quale il tempo e l’intensità si confondono – l’appagamento di un amore circoscritto ma concreto. Ecco il possibile assunto dello Specchio armeno di Paolo Codazzi, romanzo caleidoscopico in cui s’intrecciano, con la solita eleganza barocca dell’autore, storia e mito; in cui si saldano realtà storiche, coincidenze e memorie oniriche; in cui le omonimie, le simmetrie e le dislocazioni sapientemente avventate diventano i segnali di una ripetizione perversa ma gratificante. «Il tempo cronologico non è nella nostra mente, ma solo nell’orologio che portiamo al polso» afferma un personaggio del Pittore di ex voto, altro romanzo notevole di Codazzi (Pironti, 2017). E il tempo mentale del protagonista dello Specchio Armeno, il pittore-copista Cosimo Armagnati, oscilla tra il passato e il presente, recupera le atrocità di epoche remote – gli abusi della Santa Inquisizione, i supplizi delle donne ritenute streghe – e le fa sue con distacco, perché in tali atrocità rintraccia il dolore della non coincidenza, dell’inutilità dell’«esercitazione del cuore».
Paolo Marati
Il link alla recensione su NiedernGasse: https://bitly.ws/3cKhR
CHIANTI – Il Comitato tecnico del Premio Letterario Chianti, esaminati i testi di narrativa editi nel periodo dall’1 gennaio 2022 al 30 giugno 2023, ha compiuto una seconda selezione sui quaranta testi scelti.
Portando a 20 la rosa degli autori e delle loro opere, di seguito proposti in ordine alfabetico.
Da questa lista il Comitato trarrà, dopo ulteriori opportune selezioni e confronti, i tre autori finalisti, i cui nomi saranno comunicati entro il mese di febbraio 2024.
1- Baldelli Simona – Il pozzo delle bambole – Sellerio
2- Bicchi Luigi – Il noce dell’alderga – NIE
3- Borrasso Francesco – Sott’acqua – Giulio Perrone editore
4- Bortolotti Nicoletta – Un giorno e una donna – HarperCollins
5- Camurri Roberto – Qualcosa nella nebbia – NN editore
6- Casadio Paolo – Fiordicotone – Manni
7- Fallai Paolo – Un inverno lungo un anno – Solferino
8- Gori Leonardo – La libraia di Stalino – Tea
9- Lepri Roberta – DNA Chef – Voland
10- Lupo Giuseppe – Tabacco clan – Marsilio
11- Manganelli Lietta – Aspettando che l’inferno cominci a funzionare – La nave di Teseo
12- Nata Sebastiano – Memorie di un infedele – Bompiani
13- Ossorio Antonella – I bambini del maestrale – Neri Pozza
14- Gigi Paoli – La voce del buio – Giunti
15- Pignatelli Anna Luisa – Il campo di Gosto – Fazi
16- Sartori Giacomo – Fisica delle separazioni in otto movimenti – Exorma
17- Scudelletti Massimiliano – La laguna dei sogni sbagliati – Arkadia
18- Soriani Melania – Bly – Mondadori
19- Spampinato Lorena – Piccole cose connesse al peccato – Feltrinelli
20- Tuti Ilaria – Come vento cucito alla terra – Longanesi
Il link alla segnalazione su Il Gazzettino del Chianti: https://bitly.ws/3cyhP