Paolo Codazzi, “Lo specchio armeno”
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Cosimo Armagnati, è un pittore – copista, che intende la sua attività come attività creativa: in ogni opera che riproduce inserisce qualcosa di suo, secondo un indirizzo di pensiero per cui l’individualità creatrice non può annullarsi totalmente in quella di un altro artista. E’ per altro verso fedele alla lezione di alcuni maestri, tra loro distanti per epoca e produzione artistica, ma assai utili allo suo mestiere, come Cennino Cennini e Federico Joni: tende a ripercorrere, tramite minuziosi e faticosi studi, il processo creativo dell’autore con cui si confronta riesumandone le tecniche pittoriche, anche se desuete. Per il suo nuovo lavoro, Cosimo accetta di riprodurre un ritratto di donna conservato nella Galleria di Palermo. Giunge sul posto, per studiare da vicino l’opera da riprodurre. Per una singolare coincidenza, la conosce già da molto tempo, da suoi primi studi in storia dell’arte: fin da allora, è stata per lui la rappresentazione pittorica di ogni pensiero amoroso: una stilnovistica figura di donna che rappresenta la sublimazione dell’amore, un’assoluta astrazione, quell’”amore invertebrato”, che da tanto tempo frequenta i suoi pensieri, causando inibizioni, tenerezze e speranze. Questo lo spunto iniziale di Lo specchio armeno (Arkadia, 2023), di Paolo Codazzi, opera che sfugge a catalogazioni sintetiche, e che l’autore in Letteratitudine definisce “romanzo sull’amore (una delle miriadi di interpretazioni), sui cambiamenti climatici e la fragilità delle previsioni (un’opinione tra le tante), sull’inquisizione spagnola in Sicilia (particolarmente a Palermo), sulla stregoneria (senza alcun condizionamento a stereotipi consolidati), e molto altro come si conviene ad una storia (una mia storia) che inizia nel 15° secolo e si conclude (per modo di dire) ai nostri giorni”. Per amalgamare una storia dalle sfaccettature così eterogenee, Codazzi si affida ad una prosa sontuosa, di inusitata eleganza formale, in cui ogni proposizione si regge su ampie arcate di strutture ipotattiche: una scrittura di forte suggestione, orgogliosamente non contemporanea, di possibili ascendenze gaddiane. Il passo lungo scelto dall’autore si sposa senza fatica con la preziosa opera di bulino sul lessico. La si avverte specialmente nella definizione della profondità dello scavo psicologico dentro di sé a cui è destinato Cosimo, rappresentato anche tramite certa ansia nominalistica che lo pervade: come se individuare, precisandole, le cose che vede nei pochi giorni che la narrazione percorre gli servisse per non smarrirsi, per continuare a rimanere se stesso. Si affollano intorno alla tela da riprodurre diversi destini, anche distanti tra loro nel tempo, quasi che la forza delle emozioni che il quadro suscita abiti un ininterrotto presente: una congiuntura spazio temporale unica li fa convergere e vivere, nel senso più pregnante del termine, nella breve permanenza di Armagnati a Palermo. Da un remoto passato ritornano, singolarmente presenti, le vicende di Cosimo Armagnati, omonimo del pittore e illustre teologo vissuto in epoca rinascimentale, e del figlio Grumello Del Monte, autore dell’originale del ritratto della aristocratica palermitana Beatrice Gurrieri. Il ritratto voleva essere un omaggio del fidanzato, commissionato in occasione dell’imminente matrimonio, ma favorì invece una imprevista e subitanea passione amorosa tra il pittore e la ragazza. I piani temporali della vicenda tendono a sovrapporsi, creando intrecci e rimandi sottolineati da una non casuale sequenza di omonimie, utili per amplificare echi di sensazioni provenienti da un passato remoto, ma ancora misteriosamente operanti nel presente. D’altro lato, ampi stralci di due saggi intercalati nella narrazione principale legano insieme vicende e credenze remote, sollevando veli anche su un presente difficile da decifrare: un cinquecentesco trattato di botanica, la cui seconda parte consiste in minuziose istruzioni di pratiche magiche, e il ben più recente studio sull’Inquisizione siciliana del Vella, attuale sovrintendente della galleria in cui è conservato il ritratto da riprodurre, nonché discendente del fidanzato di Beatrice. Cosimo spinge al limite estremo le sue teorie di immedesimazione nell’opera di un altro, che caratterizza il suo approccio all’attività di riproduzione dei dipinti. Ma qui non si tratta di riuso di tecniche pittoriche cinquecentesche. Qui, di fronte al ritratto di donna ideale, rappresentazione iconica dell’amore sublime, l’immedesimazione è emotiva nel modo più radicale possibile. E il turbamento amoroso non ha limiti temporali, può esprimersi identico a se stesso a distanza di secoli, come lascito ad eredi che verranno chissà quando ma che lo riconosceranno perché misteriosamente dotati della medesima esasperata sensibilità. Si apre un ponte temporale che attraversa i secoli, e ciò che è impossibile alla materia avviene, almeno per una notte. Poi, una ritrovata consapevolezza restituirà il brulichio delle emozioni alla verità della sostanza imperfetta dei sentimenti, inducendo Cosimo all’accettazione, per nulla rassegnata, ma piuttosto rasserenata della propria condizione esistenziale: “Ora egli sapeva che Beatrice era stata la sua idea dell’amore, e l’eclisse della sua comparsa e sparizione in quel drammatico modo forse era perché anche per lei, soprattutto per lei, quella esercitazione del cuore, cominciata qualche secolo prima, aveva superato i limiti concessi a un’avventura dei sentimenti, dello spirito, e non era bene esaurirla, completarla, dovendo essa rimanere nell’ambito delle cose che non accadono e che perciò hanno l’assoluta perfezione che le cose accadute non possono avere.”
Luigi Preziosi
Il link alla recensione su Retroguardia 3.0: https://bitly.ws/3fSqF