Senza rotta


Il romanzo dell’addio?

Questo è un romanzo difficile e intenso, capace però di coinvolgere con emozioni profonde il leore paziente. Soprattutto i lettore amante di cose tedesche, anzi germaniche, anzi di quella Germania un po’ speciale che fu la Ddr, Repubblica Democratica Tedesca, e dell’ambiente berlinese, ma non solo, all’epoca del socialismo reale. Circola un’aria di scavo memoriale, e un tantino elegiaca, nella ricostruzione che Stefano Zangrando fa di quel periodo e della figura enigmatica di Peter Brasch, che esce però viva dai vari pezzi che l’autore raccoglie pescando dai più diversi materiali. Ma è una figura che, pur nelle tante angolature che la delineano, rimane sfuggente e misteriosa, emblema di una insondabilità riferibile forse a ciascuno: Ti vedo, o almeno credo. E’ uno dei momenti più sfocati della tua biografia. In bianco e nero, si direbbe, o forse è solo Berlino est che a quest’altezza, sei anni dopo il cosiddetto crollo del Muro, è ancora immersa in larga parte in un grigio fatiscente, che smorza i facili entusiasmi nostalgici di chi ti vede dal futuro: dal variopinto supermarket dell’Europa d’inizio millennio. Mentre descrive e racconta, nel suo lavoro di investigazione letteraria, Zangrando si mee nei panni di un osservatore attento a far parlare il personaggio, ma lasciandolo coi suoi dubbi, le sue gioie (poche) e le sue disperazioni. Spesso anzi gli parla, lo racconta in seconda persona, sentendosi un compagno di strada che vorrebbe con lui aprire un dialogo al presente. I colloqui a tu per tu con Peter B. sorreggono tuo l’impianto narrativo, e diventano rabbiosa interlocuzione nell’epilogo surreale in cui si mescola la scrittura di Zangrando con quella di Peter e il vissuto berlinese del primo con quello del secondo, nel momento della sua morte e della sua immaginata resurrezione 15 anni dopo, la sera in cui avrebbe compito i sessanta anni e gli amici di Prenzlauerberg hanno organizzato una serata per festeggiarlo. In queste ultime struggenti pagine l’autore confessa di aver capito il motivo del suo interesse per l’amico mai conosciuto sul quale ha ricamato il romanzo. La serata, inizialmente seria e commossa, provoca poi disagio nell’autore che si allontana, preso da un senso di grottesco. E nel percorso visionario lungo i viali di Berlino fino alla casa che era stata dimora di Peter, comprende che quella esperienza è finita, che quel mondo di intellettuali post-socialisti di seconda e terza fila uniti dal ricordo dell’amico scomparso è finito, che quella Berlino degli ultimi anni del socialismo e dei primi dopo la Wende è finita. Finita anche nella architettura della nuova cià “rifaa”, nei locali, nelle persone: Seduto a lato del palco, fumando e bevendo davanti a quella declamazione sublime e sinistra, compresi tu’a un trao che stavamo celebrando un addio… era un mondo in via d’estinzione – perché, così com’era morto Peter, prima o poi tua quella Berlino sarebbe invecchiata e poi morta, morta. E allora capii che io stesso… tendevo a un addio, o almeno a un bilancio: a tirare le somme di quel che Berlino era stata per me per un decennio e più.. Quello che resta sono le testimonianze di chi lo ha conosciuto, che vengono rielaborate in un montaggio diegetico e quasi teatrale, gli scarni documenti di archivio e di filmati post 89, lettere, spezzoni delle opere e delle novelle di Peter Brasch, traduzioni originali di testi riportati alla luce, altrimenti dimenticati rispetto ad eredità più celebrate di più autorevoli autori della letteratura di quel periodo. Bisogna dire infatti che il protagonista o, meglio, il deuteragonista ( e non certo rispetto al fratello “maggiore”) era appunto il “fratello minore” del ben noto e fortunato Thomas Brasch, entrambi membri di una famiglia di intellettuali e scrittori attivi dagli anni Sessanta nella Ddr, famiglia vissuta in parte sotto l’ombra protettiva del sistema tedesco orientale; e di cui Peter era l’anima ribelle, meno ortodossa, sempre in conflio col padre, alto funzionario del partito, e spesso in contrasto anche col fratello che percorre parallelamente una carriera letteraria più stabile e conforme alle direttive culturali ed artistiche che vengono dall’alto. Peter è però anche meno costante nel lavoro letterario, i risultati sono incerti e discontinui, il successo non gli arride come sicuramente si aspetta. La sua vita resta in ombra, incontra fallimenti e conseguenti delusioni, e anche nella vita privata sono frequenti le fasi di infelicità e depressione che lo portano a vivere con difficoltà anche gli anni del nuovo assetto nella repubblica riunificata.
Il ritratto dello scrittore si interseca con quello della società e del sistema della Ddr: sia nel modo in cui questa società la vede Peter Brasch che nella interpretazione che ne dà Zangrando, facendo proprie le parole stesse di Peter: “Non ha senso parlare di una Ddr-Identität, c’è semmai un Ddr-Gefühl, un senso di provenienza e di appartenenza”, sentimento comune a molti cittadini dell’est dopo la riunificazione. Non “Ostalgie”, nessun desiderio di restaurazione del vecchio sistema, ma sostanziale scetticismo sul nuovo assetto e nessuna fiducia nel mito capitalistico: Presto sarà tuo uguale e ugualmente asfissiante, in questa fregatura chiamata capitalismo. Se la Germania dell’est era una ‘diatria’, dirai fra un paio d’anni in una intervista, quella di oggi è una ‘democratura’ – tu e i tuoi giochi di parole, non puoi proprio farne a meno (p.21).
Zangrando, che pure in Amateurs aveva visto nella capitale tedesca la scoperta del nuovo mondo e quasi l’iniziazione alla avventura della vita adulta, sembra ora voler dire addio alla cià (la donna diseredata che mi aveva accolto e raccontato una delle sue molte storie), quasi a chiudere un capitolo della propria vita e dei propri sogni. Difficile pensare che una cià tanto amata, tanto centrale per lui, possa sbiadire nella irriconoscibilità e scomparire come scomparso è Peter B. Il legame con quel mondo è per Zangrando troppo intenso e vorremmo attendere, lo speriamo almeno, nelle prossime opere del giovane scrittore un ritrovamento e una riappacificazione con quei luoghi, la loro storia e col senso profondo delle esperienze ivi trascorse.
Pur nella prosa accurata, levigata, piana della narrazione, la struttura appare complessa per l’intreccio delle parti, dei piani, dei tempi e dei luoghi, dei punti di vista. Qualcuno ha accennato ad un “furioso eclettismo stilistico” di Zangrando, ma l’osservazione vale non tanto per il lessico e la prosa in sé, quanto piuttosto per l’architettura strutturale delle 200 pagine, per i materiali estrapolati che, come dicevamo, sono compositi e giustapposti frontalmente, senza soluzioni di continuità. Difficile distinguere le parti in cui è il vero protagonista (Zangrando) o l’apparente (Peter B.) che parla. La forma sperimentale, con la suddivisione nelle tre parti (TU, LORO, NOI) consente all’autore, che si sdoppia in personaggio, di conversare direttamente anche con se stesso; ma la tecnica è ardua anche perché in questo Bildungsroman l’intento biografico è continuamente sopraffatto dalla pulsione autobiografica. Per restituire alla luce una figura di scrittore dimenticato, l’autore svolge un bilancio con se stesso e con le proprie aspirazioni. Ciò non è naturalmente una novità nel romanzo contemporaneo, ma il modo in cui Zangrando lo ha fatto dimostra originalità e pieno controllo. 

Carlo Bertorelle



Il romanzo dell’addio? 

Stefano Zangrando, Fratello minore. Sorte, amori e pagine di Peter B., Arkadia, 2018, pp. 199, Euro 15 

A volte la foto di famiglia può risultare fuorviante. Lo scrittore e regista Peter Brasch aveva dieci anni meno di suo fratello Thomas, nato nel 1945, il prediletto (poeta, scrittore e regista, noto prima nella Ddr e poi anche all’estero, quando riuscì a espatriare); ne aveva cinque meno di Klaus, attore sfortunato, e cinque più di Marion, la più giovane, che avrebbe scritto un romanzo su di loro, tutti figli di Horst Brasch, giornalista, funzionario di partito, ministro dell’istruzione popolare del Brandeburgo e varie altre cose, che si portava appresso la famiglia nelle diverse sedi dei suoi incarichi di crescente prestigio finché non divenne, nel 1966, viceministro della cultura della Germania Est.
Le vicende di questo gruppo di persone sono raccontate da Stefano Zangrando in Fratello minore. Sorte, amori e pagine di Peter B., un romanzo inchiesta che è insieme un corpo a corpo con l’opera di Peter Brasch e con un certo ambiente berlinese che Zangrando conosce a fondo e a cui deve la sua maturità di autore e di traduttore. Nel romanzo si succedono sezioni diverse: a quelle raccontate in seconda persona, con una continua allocuzione allo scrittore scomparso, si alternano le traduzioni da varie opere di Peter Brasch; nella seconda parte assistiamo a una prova teatrale nella quale le figure femminili della vita di Peter si confrontano sulle sue vicende e su quelle della Germania. Al centro, un notevole Intermezzo, dove Margit, la donna più importante nella vita di Peter, né dà forse il ritratto più efficace.
Fra le imposizioni del partito e lo sguardo onnipresente della polizia politica, i fratelli Brasch crebbero soprattutto nella pratica artistica, vissuta spesso come veicolo di un’alternativa al presente: non tanto per fuggire a ovest – come avrebbe fatto Thomas, più critico nei confronti della Ddr, ma certo non dissidente – quanto per dare corpo alla fragile illusione di un’opposizione interna. Negli anni sessanta e settanta del Novecento le aspirazioni e perfino gesti quotidiani dei fratelli e dei loro amici sembrano estremamente difficili; gli affetti e le inevitabili rivalità sono sommersi dall’alcool, in cui affonda per prima la madre, Gerda. Sulle tracce di Peter, Zangrando ripercorre i tentativi di un autore che segue il corso della vita senza riuscire a imprimergli una svolta, come invece sa fare il fratello maggiore, che in occidente pubblica circa un libro all’anno. La vita di Peter trascorre all’insegna di una periodica dissipazione. Negli intervalli lavora a teatro, ma soprattutto alla radio, dove realizza adattamenti, radiodrammi. Scrive racconti per l’infanzia e incide audiostorie: quando insegna ai bambini è formidabile. Peter non riesce a imboccare fino in fondo la propria strada, e Zangrando è molto efficace nel lasciarne trasparire l’umanità, mentre lo vediamo dibattersi fra un impegno e l’altro, incapace di ripartire davvero. Come lui, i familiari e gli amici letterati bevono molto, in modo meno trionfalmente teatrale di quanto accade nei romanzi russi, come se il grigiore d’ordinanza della Ddr finisse talvolta per rifrangersi non solo nelle pozzanghere sulla strada davanti all’osteria, ma anche all’interno. Il personaggio di Katja, che è-e-non-è Katja Lange-Müller, scrittrice oggi affermata, ricorda chiaramente gli sforzi di Peter: “Aveva una sua propria consistenza di scrittore, solo che non la si trova dappertutto. Non nelle poesie, ad esempio, dove il modello di Thomas si fa troppo sentire. Ma per il resto Peter era Peter. E aveva un suo umorismo impertinente e inimitabile, che Thomas poteva scordarsi. Il solo ostacolo di Peter fu lui stesso”.
Rimasto nella Ddr, per un po’ Peter riesce a viaggiare (Austria, Norvegia, Inghilterra) ma, a causa del suo anticonformismo, si vede ritirare il passaporto. Più si procede nella ricostruzione della sua vita, più sembra che le sue speranze si infrangano contro un presente che non smette mai di essere ostile: caduto il Muro, infatti, Peter non si ritrova nella “protervia della nuova Germania”, né davanti alle esigenze di un teatro che in pochi giorni gli chiude le porte senza neanche avvertirlo. “Il denaro – commenta Katja – è la nuova forma della censura”. L’ultimo tentativo di Peter è il romanzo Schön hausen del 1999, la storia del necroforo Gianluca Cardinale che si muove in una Sicilia immaginaria; ma è una nuova delusione. Nonostante fossero divisi dal successo, i due fratelli morirono nel 2001, distrutti dall’alcool, a quattro mesi di distanza l’uno dall’altro, e questa volta fu Peter a precedere Thomas. Nelle loro lunghe telefonate notturne non si intrecciava un legame fatale come si incontra in altre vicende familiari, ma certo alcune coincidenze non passano inosservate. Si può parlare della loro fine perché il mistero di questa storia – che Zangrando racconta e immagina con partecipazione e misura – non sta tanto nella sua conclusione, quanto nel suo sviluppo, in ogni scelta sospesa fra necessità e libertà. 

Walter Nardon



«Amo la provincia è di ispirazione per i miei romanzi» 

È uscito “L’anno che Bartolo decise di morire” il nuovo libro della scrittrice di Castel di Ieri 

«Non c’è un protagonista unico, ma un punto di vista privilegiato che è quello di Bartolo». Valentina Di Cesare presenta così il suo secondo romanzo, “L’anno che Bartolo decise di morire”. Il libro è da giovedì 20 in libreria per la collana di narrativa “Senza rotta” della casa editrice Arkadia, ed esce cinque anni dopo “Marta la sarta”, esordio della scrittrice originaria di Castel di Ieri. Di Cesare, insegnante di lettere a Milano, dà alle stampe quello che considera «un romanzo corale», nel quale fa i conti con temi quali la solitudine e l’incomprensione, la precarietà dei rapporti umani ma anche quella del lavoro.

Chi è Bartolo?

È un uomo di mezza età che vive in una piccola città di provincia. Ha il suo gruppo di amici che frequenta dall’infanzia, e che col passare del tempo rivelano le proprie debolezze: chi per i condizionamenti della famiglia, chi per un matrimonio infelice, chi perché pensa solo al lavoro. Bartolo è sempre presente nelle vite degli amici ma, poiché non si lamenta mai, loro pensano che stia bene e non abbia bisogno di nulla, quasi non lo considerano, e tra loro c’è solo uno che si accorge della sua forte depressione.

La precarietà è in fondo la vera protagonista di questo romanzo?

Viviamo in una società in cui sono forti l’individualismo, anche involontario, e l’incapacità di comprendere quando intorno a noi ci sia dolore, anche nelle persone più vicine che riteniamo di conoscere: percepiamo le cose solo quando emergono in maniera evidente, non ci si ferma mai a osservare i dettagli.

Nella storia di Bartolo emerge solo la precarietà dei rapporti umani?

No, anche quella sociale ed economica, dovuta alla preoccupazione per l’instabilità lavorativa. Alcuni amici di Bartolo non hanno un buon lavoro o stanno per perderlo. Altri invece godono di una certa tranquillità perché le famiglie li hanno aiutati, si sono giovati di una “raccomandazione”: è un aspetto purtroppo vivo nella nostra cultura, a causa del quale molti non comprendono determinati problemi.

Lei vive a Milano, una grande città che non ha toccato le sue corde creative.

Sinceramente mi sento più ispirata dai luoghi dove sono nata e cresciuta, che sono quelli in cui ci si scopre, dove sembra che non accada niente perché non succede nulla di sconvolgente. I piccoli centri hanno tanti svantaggi, ma di contro offrono più vicinanza alle cose, si vede più da vicino come funzionano i rapporti tra le persone ed è più difficile passare inosservati.

Le cittadine di Bartolo e Marta sono un posto in particolare?

No, cerco di non localizzare nel tempo e nello spazio le storie: ho la vocazione a non dare riferimenti perché parlo di sentimenti che considero centrali e che sono sempre gli stessi, senza far risaltare il contorno. Certe sensazioni sono uguali a tutte le latitudini e non cambiano col tempo. La scrittura è una cosa che si dà al lettore: in fondo a lui appartiene il libro, e quando si materializza a lui spetta di collocarlo in un tempo e in uno spazio.

Come è cambiata dal suo esordio a questo secondo romanzo?

“Marta la sarta” è stata un po’ un’esplosione di emozioni incontrollate, con la vocazione per la scrittura che veniva fuori. In entrambi resta uno stile abbastanza riconoscibile, un’atmosfera ovattata, non un realismo vero e proprio. Poi in cinque anni si cambia, e in “Bartolo” c’è stato anche l’aiuto dell’editor che ha tirato fuori capacità che non credevo di avere.

Il suo primo libro è stato tradotto in rumeno: l’ha emozionata?

È avvincente pensare di essere letta in un’altra lingua, anche se lo facesse una sola persona. È iniziato per caso: durante un convegno all’Università di Craiova ho conosciuto un professore di lettere, siamo rimasti in contatto, gli ho spedito il libro e lui l’ha proposto a un dottorando per tradurlo. È in corso una traduzione in spagnolo e un capitolo sarà tradotto in arabo su una rivista dell’Università del Cairo: cose che nascono per caso, da rapporti umani e con un po’ di inconsapevolezza, ma dalle quali arrivano risultati importanti.

Da “Marta la sarta” ha anche tratto uno spettacolo la regista Eva Martelli: si è riconosciuta nella versione teatrale?

Mi ha molto emozionata: è stata un’interpretazione bellissima e acuta, che ha dato nuova vita ai personaggi con un’energia che non avevo visto. Vi ho ritrovato le sensazioni di quando lo scrivevo: è stato un viaggio surreale dentro me stessa, che mi ha fatto venire voglia di rileggermi.

Da insegnante di lettere come vede i ragazzi di oggi e il loro rapporto con la lettura?

È importante che leggano ed è importante che un professore sappia sostenerli e incoraggiarli con begli esempi. In questa età si inizia a far capire quanto sia importante studiare: è una bella responsabilità e io ce la metto tutta.

Andrea Rapino 



DISCORSO (NON PEDANTE) SULLA NATURA

Ho preso in mano L’ambasciatore delle foreste di Paolo Ciampi il giorno prima della proclamazione della dozzina dello Strega, per la quale il libro era candidato. Era anche una questione affettiva, trattandosi del candidato di Arkadia, la casa editrice per cui è stato pubblicato un mio romanzo, ma allo stesso tempo non un obbligo, tanto più che il tema vagamente ecologista un po’ mi lasciava perplesso. È stata quindi una prima gradita sorpresa scoprire fin dalle prime pagine che questa perplessità era condivisa dallo stesso autore (cenni biografici: fiorentino, giornalista, scrittore di viaggio). Nel libro si percorre in effetti la biografia di un intellettuale ed ecologista ante litteram, forse il primo degli ecologisti, ovvero l’americano George Perkins Marsh, studioso dai molteplici interessi e a lungo ambasciatore statunitense in Italia, nelle pieghe del diciannovesimo secolo. La seconda gradita sorpresa è stato vedere come viene trattata la storia di Marsh: è il Ciampi-giornalista che la scopre, la dimentica, la riprende, ci litiga, si appassiona, e soprattutto si mette e rimane in gioco per tutta la durata del libro, riuscendo in questo modo a chiamare empatia e partecipazione da parte del lettore. Non a caso, ancora prima di una biografia romanzata o di un libro di natura saggistica sulla natura, questo è a mio modo di vedere un libro di viaggi, come da predilezioni dell’autore, che segue il suo personaggio in traversate dell’oceano, escursioni, spedizioni nel deserto, semplici scampagnate, trovando nel mutamento di cielo, a dispetto del detto latino, le cause scatenanti, i motivi veri, della passione di Marsh per la natura (oggi diremmo, per l’ambiente), una passione che a sua volta viene accompagnata dall’approfondimento e dallo studio e si trasforma, in maniera non pedante, in trattato, in precetto, accompagnati da una certa dose di idealismo (le cose potrebbero sembrare in contraddizione, ma probabilmente è dalla giusta frizione tra praticità e utopia che possono o potrebbero nascere i cambiamenti, le evoluzioni). Tutto questo si risolve in una narrazione altrettanto non pedante, che attraversa continenti, soffermandosi a lungo in luoghi davanti a paesaggi italiani, e si nutre di suggestioni e richiami scientifico-letterari (un libro che ne contiene altri, insomma), senza mai perdere una propria qualità limpida, trasparente, lineare, solo a tratti un po’ didascalica specie in certi parallelismi con l’attualità specie italiana (deformazione professionale da giornalista?). Un libro cordiale, ecco, nel quale si viene accolti e affiancati da un autore altrettanto alla mano, mai invadente nonostante la propria presenza e mai nozionistico nonostante la natura, come già detto, biografico-scientifica dell’opera, che si situa in ultima analisi in un terreno florido, rigoglioso (per usare appunto una similitudine naturalistica) che unisce in maniera azzeccata narrativa, saggistica e divulgazione.



Arkadia entra nel tempio dello Strega

È in gara con “L’ambasciatore delle foreste” di Paolo Ciampi

La casa editrice cagliaritana Arkadia concorre ufficialmente alla 73esima edizione del premio Strega con “L’ambasciatore delle foreste”, romanzo dello scrittore fiorentino Paolo Ciampi. Comunicata ieri sul sito premiostrega.it e rilanciata sui social della Fondazione Bellonci, la notizia della candidatura è di straordinaria importanza per l’editoria regionale. L’opera è infatti la prima produzione interamente realizzata da un’impresa sarda a competere per il prestigioso riconoscimento.

Verso lo Strega

Proposto da Antonio Riccardi, scrittore e critico letterario, il titolo procederà ora verso le tappe successive del percorso di selezione. Primo appuntamento al festival “Libri Come” di Roma. Qui il 17 marzo saranno indicate le 12 opere da cui a giugno uscirà la cinquina che accederà alla finale dello Strega. Sinora (a mezzogiorno di oggi scade il termine ultimo per la presentazione della candidatura da parte degli Amici della Domenica) i libri ufficialmente in gara sono 50.

L’editore

Si tratta di un risultato che riempie di soddisfazione l’editore e quanti con lui lavorano nella redazione di viale Bonaria. «Per Arkadia, che quest’anno compie dieci anni di attività – dice Riccardo Mostallino Murgia – rappresenta il punto d’arrivo di un percorso coraggioso che si avvale di professionalità locali e che, forte delle proprie radici, guarda sin dal suo esordio oltre i confini dell’Isola». Un lavoro di ricerca costante per la realizzazione «di un progetto editoriale indipendente che trova il suo emblema» proprio ne “L’Ambasciatore delle foreste” di Paolo Ciampi, giornalista e scrittore fiorentino, camminatore sensibile ai problemi dell’ambiente, oggi direttore dell’Agenzia d’informazione della Regione Toscana.

L’ambasciatore

Biografia che si fa romanzo, il libro ha come protagonista George Perkins Marsh (1801-1882), primo ambasciatore Usa nell’Italia unita e ambasciatore delle foreste nel mondo. Ecologista ante litteram, la cui memoria è stata presto trascurata, fu il primo a porsi problemi diventati urgenti nel dibattito internazionale: i cambiamenti climatici e gli effetti delle azioni dell’uomo sull’ambiente.

Gli sfidanti

Un’opera d’indubbio valore letterario, visto il sostegno espresso dal critico Antonio Riccardi, che, superata la fase di ammissione, dovrà confrontarsi con almeno altri 44 titoli. Tra i nomi di spicco quello di Antonio Scurati, autore del best seller “M. il figlio del secolo”, e di Marco Missiroli col suo “Fedeltà”.

Manuela Arca

 

 

 



Il libro di Arkadia verso lo Strega?

Stamane il verdetto

Sono 35 i libri sinora candidati per il premio Strega 2019. Stamattina si saprà se ai titoli già proposti dagli Amici della domenica, si aggiungerà “L’ambasciatore delle foreste” del fiorentino Paolo Ciampi, pubblicato da Arkadia. La notizia sarebbe straordinaria per l’editoria regionale: si tratterebbe della prima produzione interamente realizzata da un’impresa sarda a correre per il rinascimento. Il responso sarà reso noto sul sito premiostrega.it dove dal 6 febbraio sono stati rivelati, divisi in 8 gruppi, i libri scelti. Oggi (il termine per la candidatura scade domani) si potrebbe avere la sorpresa de “L’ambasciatore delle foreste”. Se dovesse arrivare, il titolo procederà verso “Libri Come” del 17 marzo, festival romano in cui saranno indicate le 12 opere da cui a giugno uscirà la cinquina. Ecco i libri finora candidati: “La straniera”  di Claudia Durastanti, “Non ho mai avuto la mia età” di Antonio Dikele Distefano, “Un marito” di Michele Vaccari, “Il figlio del secolo” di Antonio Scurati, “Arenaria” di Paolo Teobaldi, “Io ho paura” di Silvio Perrella, “Sogni e altiforni” di Giordano Lupi e Cristina De Vita, “Fedeltà” di Marco Missiroli, “Le memorie di una gatta” di Lodovica San Guedoro, “Un giorno verrà” di Giulia Caminato, “Il rumore del mondo” di Benedetta Cibrario, “Luce rubata al giorno” di Emanuele Altissimo, “Migrante per sempre” di Chiara Ingrao, “Mazzarona” di Veronica Tommasini, “Hostia” di Federico Bonadonna, “Quella metà di noi” di Paola Cereda, “Fratello cattivo” di Sandro Gros-Pietro, “Verso Sant’Elena” di Roberto Pazzi, “Da un altro mondo” di Evelina Santangelo, “Di chi è questo cuore” di Mauro Covacich, “Dai tuoi occhi solamente” di Francesca Diotavelli, “Pontescuro” di Luca Ragagnin, “Un cuore tuo malgrado” di Piero Sorrentino, “Le rughe del sorriso” di Carmine Abate, “Ulisse e il cappellaio cieco” di Raffaele Bussi, “Carnaio” di Giulio Cavalli, “Lux” di Eleonora Marangoni, “Ottanta rose mezz’ora” di Cristiano Cavina, “Sonno bianco” di Stefano Corbetta, ”Naso” di Pasquale Panella, “Addio fantasmi” di Nadia Terranova, “Passato remoto” di Vittorio Cotroneo, “La rampicante” di Davide Grittani e “Destino” di Raffalele Romagnolo.

(m.a.)



IL LIBRO DI CIAMPI

Marsh e le foreste

Tra le foreste americane, le Alpi e l’Appennino italiano una storia di amore per gli alberi e le montagne.
Con L’ambasciatore delle foreste (arkadia editore, collana Senza rotta 3, 160 pagine, 14 euro) Paolo Ciampi , giornalista e scrittore fiorentino, riscopre la figura di George Perkins Marsh (Woodstock, 15 marzo 1801 – Vallombrosa, 23 luglio 1882), primo ambasciatore degli Stati Uniti nell’Italia unita nominato da Abramo Lincoln, padre dei grandi parchi americani ed ecologista ante litteram.
Imbattutosi casualmente nella figura di George Perkins Marsh, Ciampi riporta alla luce la storia di un uomo che nel secolo del progresso e dell’industria, prima ancora che la stessa parola «ecologia» abbia fatto la sua comparsa, capisce cosa sta succedendo al mondo.
Un diplomatico che è anche ambasciatore delle foreste nel mondo, da quelle del New England a quelle del nostro Appennino, passando per i deserti dell’Africa, che regala un nuovo sguardo sugli alberi, sulle montagne, sulla stessa nostra civiltà.
Un personaggio stravagante, che frequenta a malincuore la corte dei Savoia, si appassiona alle saghe di Islanda, coltiva l’idea di portare i cammelli nelle praterie degli Stati Uniti, e che, un secolo prima dei forum internazionali e delle conferenze sul clima e sull’ambiente, parla di foreste da salvare, di cambiamenti climatici e ci allerta sulla nostra stessa possibilità di sopravvivenza. 



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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