Senza rotta


L’ambasciatore delle foreste – Paolo Ciampi

Non è facile introdursi nella vita di un uomo appartenuto ad un’epoca passata, raccontarla, risparmiarla dal proprio giudizio di uomo moderno. Bisogna entrare in punta di piedi, osservarne ogni sfaccettatura, comprenderne i perché.

Paolo Ciampi si imbatte casualmente nella storia di George Perkins Marsh e con “L’ambasciatore delle foreste” (Ed. Arkadia, 2018) realizza un ritratto sincero e affettuoso di questo personaggio importante, stranamente poco noto. Nella biografia redatta da David Lowenthal, Perkins Marsh viene definito “Profeta della Conservazione”. Ciampi declina questo appellativo facendoci avvicinare a colui che divenne il padre dell’ecologia, quando questo termine ancora non aveva un significato concreto.

George, così amichevolmente chiamato dall’autore, nacque il 15 marzo 1801 a Woodstock, nel Vermont, a stretto contatto con i boschi. E i boschi lo accompagneranno sempre nella vita, in un modo o nell’altro. 

 “Un bosco vicino è come un libro da tenere sempre sul comodino, per ciò che ci può insegnare. Il senso del tempo, per esempio. Oppure la responsabilità nei confronti di questa vita e insieme la possibilità di una vita diversa.”

Non eccelse negli affari, registrando svariati fallimenti. Malgrado un’esistenza percorsa da lutti e difficoltà, prestò un onorevole servizio come diplomatico in rappresentanza degli Stati Uniti prima a Istanbul e poi in un’Italia appena nata, proprio mentre la sua terra si immergeva in una lacerante guerra di secessione. 

Ma un uomo non è fatto solo da un elenco di eventi o di occupazioni. Difatti George fu un instancabile viaggiatore, dotato di un “robusto appetito per ogni conoscenza” e, incarichi istituzionali a parte, rimase sempre “un acrobata in precario equilibrio. Sospeso tra la voglia di dare il meglio di sé e la voglia di fare altro”, ossia vedere il mondo e le sue meraviglie. 

 “A volte si sceglie, a volte ci si fa scegliere da un luogo di cui […] si intuisce il contorno delle possibilità che offre. Ovvero di un’altra possibilità di essere se stessi.”

Proprio dal suo amore per la Natura e dalle riflessioni svolte durante i suoi viaggi, nel 1864 nacque “L’uomo e la natura. La geografia fisica modificata per opera dell’uomo”. Impressionato dalle avvisaglie di distruzione emerse con l’avanzare del progresso nel XIX secolo, il lungimirante George ribaltò la prospettiva del suo tempo e indagò sulle responsabilità umane nei cambiamenti ambientali.

 “E’ l’apprendista stregone, l’uomo. Disperde spensieratamente ciò che gli è alleato, per scatenare ciò che è destinato a rivoltarglisi contro”.

Paolo Ciampi ci fa capire che, se è possibile definire il valore di una persona in base al contributo che ha lasciato al mondo, senza dubbio Perkins Marsh fu incredibilmente prezioso. La sua opera ebbe infatti un’eco immensa e originò un’attenzione verso la Natura che, nella seconda metà dell’800, si manifestò con la creazione dei primi parchi nazionali degli Stati Uniti. L’influenza positiva non si limitò al Nuovo Mondo, bensì si espanse ispirando numerosi provvedimenti a tutela dell’ambiente nei decenni a seguire, giungendo fino ai giorni nostri. Fu così che ciò che sta fuori acquisì sempre più importanza per il suo legame con ciò che sta dentro, nello spirito, e che per parlare di civiltà divenne imprescindibile il rispetto della Natura.

L’autore non nasconde il proprio punto di vista e conclude il quadro con un invito a non seppellire le idee di George, a donar loro concretezza, perché “amare gli alberi significa amare assai più che gli alberi”.

Giulia Suman



Mattia Bortesi ha 30 anni e insegna italiano nelle scuole medie della provincia di Mantova. Dopo la laurea in Italianistica, conseguita all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, propone da qualche anno presso associazioni culturali, una sua personale Lectura Dantis, incentrata sull’Inferno dantesco. Mattia Bortesi collabora, nel suo paese, Sermide e Felonica, all’organizzazione di eventi letterari. Ama fare passeggiate lungo l’argine del fiume Po e suonare la chitarra nel suo progetto cantautorale, Matija. Le sue passioni sono i film di Nanni Moretti e di David Lynch e i romanzi di John Fante. Sound of salame è il suo romanzo d’esordio.



Un romanzo di amicizia e solitudine

“Quante cose che accaddero quell’anno, cose che, a ripensarci adesso, viene quasi da chiedersi come mai fossero passate in sordina”. Eppure tutto è successo in pochi mesi: quello che la vita dà nell’arco di tanti anni, toglie in una manciata di giorni. Bartolo, Lucio, Renzo, Giovanni, Roberto e Vito sono “come fratelli”; un’amicizia nata da bambini, portata avanti con fedeltà immutata lungo tutta l’adolescenza, fino all’età adulta. Uniti, sempre. Nonostante tutto, nonostante gli altri. Bartolo è il collante del gruppo, il confidente fidato poiché con Bartolo è facile parlare; Bartolo sa ascoltare, sa sempre cosa dire, sa osservare, sa aspettare, sa quando agire e quando non farlo. Bartolo ha raggiunto una posizione lavorativa sicura, ma il suo posto nel mondo, in quel suo mondo, è sempre precario. Mentre tutti parlano lui ascolta e non racconta a nessuno del suo pensiero ricorrente e incessante. Nessuno si accorge che lentamente vuole lasciarsi morire. Eppure qualche segnale era arrivato ai compagni. “Solo un po’ di stanchezza negli occhi, lo sguardo inargentato di luna calante, il sorriso un battito in ritardo rispetto agli altri, e poi un’inquietudine lenta, serpentina, trasmessa dagli occhi alle ossa e al respiro, un’ondulazione iterata del pensiero, una specie di aritmia esistenziale”. Bartolo ha deciso di morire. Intanto, però, la vita gli toglie Lucio. Lucio, l’amico buono, si suicida dopo aver perso l’amore, dopo aver perso il lavoro. Bartolo è sorpreso, ma allo stesso tempo consapevole del dolore di Lucio, di quella precarietà, di quello smacco sociale ed esistenziale. Cosa poteva dargli ancora? Cosa poteva dirgli ancora? Come avrebbe potuto evitare ciò? Le domande si susseguono, la penna di Valentina Di Cesare in L’anno che Bartolo decise di morire è un tratto veloce che dà vita a parole poetiche, a massime condivisibili e bellissime circa il senso dell’amicizia e della morte. Vita e morte qui si rincorrono; amicizia e solitudine qui si specchiano.

Giulia Siena



Migranti e contadini una lingua comune

Tra un contadino taggiasco e un migrante quale può essere il dialogo? In fondo, lo stesso che può esserci tra un lupo e un uomo di città: perché se si lasciano indietro le consuetudini, la paura di ciò che non si conosce, il timore di avanzare in territori sconosciuti – concretamente o psicologicamente – allora ogni confine, ogni frontiera si può superare, semplicemente cancellandolo. La scelta narrativa di Giacomo Revelli, sanremese di nascita e genovese di vita e lavoro, è affrontare proprio il tema della frontiera: il suo ultimo romanzo, La lingua della terra (Arkadia editrice, 200 pagine, 14 euro) sotto molti aspetti evoca un suo lavoro precedente, Nel tempo dei lupi. Una storia di confine (recentemente riedito da L’Amico ritrovato). Ci sononei due libri Le terre di ponente (Taggia e Realdo), c’è il fascino della natura, con le contraddizioni di bene e di male, che bisogna saper accettare; e c’è la necessità di accettare il confronto, sulla base di quanto insegnano le tradizioni: perché è dall’incontro senza pregiudizi che nasce la comprensione, quando non l’amicizia. E magari per intendersi serve “la lingua della terra”, la stessa in Liguria e in Africa, come capita a Bedé, il contadino innamorato  dei suoi olivi e delle sue abitudini, che sta bene solo in campagna, quando nel casone degli attrezzi trova un giovane straniero addormentato. Di quell’incontro parla distrattamente a casa, la sera, con i figli con non capiscono la sua passione per la terra, schivano il dovere di aiutarlo quando lui li sollecita ad accompagnarlo in campagna: pensano agli studi, ad andare lontano. Tra Bedé e lo straniero, invece, nasce un dialogo in cui il vocabolario comune è quello agricolo, il potare, concimare, ricostruire muretti. Ognuno parla la sua , di lingua, ma è l’idioma comune della terra che permette loro di comprendersi. E insieme, quando qualcuno  si accorge della presenza dello straniero, prendono una decisione che toccherà profondamente ke vie di entrambi. D’altronde, sono altrettanto opposti i protagonisti umani di “Nel tempo dei lupi”, Guido il tecnico di telefonia  torinese spedito a montare un’antenna tra Liguria e Francia, e il vecchio Giosué detto Burasca, che vive da eremita in un luogo dove non solo non prendono i telefoni, ma non si avventurano neanche i residenti della zona; comprese le ragione del vecchio, non senza fatica, a Guido e alle sue abitudini cittadine, a partire dall’essere sempre connesso, si oppone allora il lupo, nemico del sentire comune, ma che diventa il simbolo di un altro modo di essere sé stessi: libero e senza controlli.

Revelli nelle ore d’ufficio scrive contenuti per siti web, ma quando si dedica alla letteratura, usa una lingua ricca e mossa, dove l’italiano si incrocia con le parole del territorio narrato: un difficilissimo brigasco (confrontato con i pochi che ancora lo parlano, confessa l’autore) e poi il dialetto taggiasco, più svelto e familiare. ne scaturisce una lettura bella e veloce, seguendo i protagonisti lungo le strade, i boschi, i campi in cui si muovono. Dove non importa che lingua parli – fosse anche l’ululato del lupo – ma che uso ne sai fare, di queste parole. E non a caso domani, sabato 20 luglio dalle 18 in poi, Revelli presenterà La lingua della terra a Triora, nell’ambito della manifestazione Racconti migranti. Storie di uomini tra immagini, libri e parole, mentre il 2 agosto, a Chuisa Pesio, nel parco del Margueris, saranno protagonisti entrambi i romanzi nel corso dell’incontro Storia di confine.

Donatella Alfonso



Il postino di Mozzi

Si presenta senza troppe incertezze come l’autore delle sottrazioni. Mette in chiaro le regole, si tratta di corpi, e decide di rivelarne subito tre, per dimostrare la veridicità di quanto sta confessando. Tranquilli, i corpi in questione sono lettere, inviate quando ancora non esisteva la più comoda posta elettronica, oppure brevi estratti di romanzi; nel caso di raccolte di racconti, si è concesso il lusso di sceglierne uno, esemplificativo. L’intero processo potrebbe essere definito come “una solida operazione di sottrazione”, perpetrata per anni, con coscienza e metodo, dal postino di Giulio Mozzi nei confronti di Giulio Mozzi stesso e relativa alla sua corrispondenza. La cosa ha richiesto una certa abilità nel non farsi scoprire, la ricerca di cantieri o luoghi sperduti dove nascondere i plichi numerosi che arrivavano all’indirizzo del famoso talent scout letterario padovano; anche l’archivio degli innumerevoli file degli aspiranti scrittori non è stato semplice, a volte ha dovuto perfino – non poteva esimersi! – rispondere a qualche autore. Eppure, come ogni carriera che si rispetti, tutto ha un fine e in questo caso la fine è la pensione. Il postino ha, infatti, ricevuto la notizia che a breve terminerà il suo servizio alle poste italiane e quindi non si potrà più presentare all’indirizzo di Mozzi, con alcune buste sottomano da fargli firmare e altre nascoste sotto la giacca da rileggere a casa…
Libro particolarissimo, questo di Castanar, autore misterioso (dietro il cui nome esotico si nasconde un collettivo di scrittura) che in quarta di copertina viene presentato come “scrittore pensionato del Nord”. In realtà gli autori sono molteplici: Giovanni Agnoloni, Franco Arminio, Riccardo De Gennaro, Valentina Di Cesare, Marino Magliani, Alessandro Zaccuri e lo stesso Giulio Mozzi solo per citarne alcuni, ma sono molti altri, e sono tutti accomunati dal fatto che alcune loro “cose” sono state sottratte dal postino di Giulio Mozzi prima di arrivare alla loro corretta destinazione. Si crea così una panoramica, divertente e amara, del mondo sempre più faticoso, ricco, affollato e, volte, arrabbiato degli aspiranti scrittori, che riversano ogni loro speranza in Giulio Mozzi, anche lui sinceramente divorato dal dubbio di saper riconoscere il talento nelle persone che gli si affidano e di non farsi illudere, o deludere, da quei pochi, pochissimi che può e sente di dover aiutare. E se all’inizio si percepisce scientemente questo gioco narrativo, poi ci si addentra in un dedalo di rimandi e incastri nei quali ci perde volentieri per arrivare alla fine e chiedersi: ma che diavolo ho letto? Dove sta la verità? Ebbene, non lo so. Ma è questo il bello della raccolta di racconti/lettere/stralci di romanzi presentati da un pazzo postino – anche lui scrittore in cerca di riconoscimento – che è arrivato a introdursi nella casa di Mozzi mentre questi era in vacanza. Divertissement consigliatissimo a tutti gli aspiranti scrittori (ma non emulate il postino!).

Raffaella Romano



Valentina Di Cesare, L’anno che Bartolo decise di morire

L’anno che Bartolo decise di morire nessuno si era accorto di niente, forse perché erano accadute tante cose: Vito e la moglie erano lì lì per lasciarsi, una delle più grandi fabbriche della zona stava per chiudere, Giovanni era tornato in città dopo parecchi mesi, a maggio c’era stata una violenta gelata che aveva compromesso i ciliegi, il Trofeo del Sole non si sarebbe disputato. E poi c’era Lucio. Lucio che aveva perso il lavoro due anni prima ed era più scoraggiato del solito, tanto che lo stesso Bartolo, preoccupato per lui, aveva deciso di parlarne con gli amici di sempre. Con Vito, con Renzo, con Giovanni, affinché tutti insieme si cercasse un modo per aiutarlo. E insomma, di cose quell’anno ne erano successe tante, al punto che, « a ripensarci adesso, viene quasi da chiedersi come mai fossero passate in sordina» e perché nessuno si era accorto di Bartolo, di cosa gli stava succedendo dentro, sebbene «qualche segnale qualcuno lo aveva notato: solo un po’ di stanchezza negli occhi, lo sguardo inargentato di luna calante, il sorriso un battito in ritardo rispetto agli altri, e poi un’inquietudine lenta, serpentina, trasmessa dagli occhi alle ossa e al respiro, un’ondulazione iterata del pensiero, una specie di aritmia esistenziale».
Leggere L’anno che Bartolo decise di morire, di Valentina Di Cesare, pubblicato da Arkadia Editore, significa chiedersi cosa vuol dire crescere e diventare adulti – quand’è che siamo diventati adulti? – perché potrebbe sembrare che niente di ciò che accade ci cambi veramente. Potrebbe sembrare che la vita sia “un intervallo continuo”, quando invece ogni cambiamento ci attraversa “come il rivolo che scanala le pietre” e quando ce ne accorgiamo è ormai troppo tardi. Per noi stessi e per le persone che ci sono vicine e che forse non ci conoscono, non del tutto, non in profondità. È ciò che accade a Bartolo e a Lucio e a tutti i personaggi di questo romanzo che sono cresciuti insieme, che insieme sono diventati grandi con l’illusione però di essere rimasti sempre gli stessi di quando erano bambini. Perché c’è chi riesce a vivere per sempre in questa illusione e chi no. E chi non ci riesce è perché avverte il dolore del mondo, e presta ascolto alle parole degli altri, perché se non ascoltasse le parole degli altri, non ascolterebbe neanche le sue.
L’anno che Bartolo decise di morire è ambientato in una città imprecisata e in un periodo storico indefinito. Questa indeterminatezza non è limite ma sostanza. Permette infatti di ritrarre un mondo immutabile quando invece il tempo scorre e produce strappi, lacerazioni, ferite insanabili. È come in una danza dove sembra che i movimenti siano sempre identici. I capitoli che si aprono con la ripetizione della frase del titolo, «L’anno che Bartolo decise di morire», mimano questa danza i cui movimenti appaiono identici e invece sono ogni volta più ampi, articolati, estesi, colmi di dolore, tragici, irreparabili: perché sono la conseguenza dei movimenti precedenti e li contengono tutti, gli errori compiuti, anche, e le parole non dette, i gesti taciuti e il senso di colpa che poi ci attanaglia. Perché se avessimo prestato abbastanza attenzione a quando ogni cosa è cominciata, fin dall’inizio, fin dal primo singolo passo che pure era innocente e puro e semplice, avremmo intuito come davanti a esso si profilasse invece l’ombra minacciosa del tempo che trasforma la fanciullezza in adolescenza e l’adolescenza nell’età adulta e poi in quella della maturità. Senza scampo. Senza possibilità alcuna di spezzarla, questa catena della vita che siamo.
In sintesi – e sempre ammesso che poi Bartolo muoia davvero e se tutto Bartolo o soltanto una parte di lui e quale – si potrebbe dire che l’anno in cui Bartolo decise di morire ogni cosa era in verità già cominciata ad accadere. Da prima, da anni, da lungo tempo: e se non da sempre, di certo dal momento in cui egli era venuto al mondo.
«L’anno che Bartolo decise di morire, nessuno si era accorto di niente. Parenti, amici e conoscenti non avevano sospettato nulla di quel che stava per accadere. Ogni cosa era uguale a sempre: l’estate era finita, l’azzurro del cielo si affievoliva e il sole di settembre aveva ripreso a tergiversare dietro gli alberi e le antenne della piccola città. Il vento a volte si alzava già rapido al mattino, muoveva le foglie e i rami con rumore di ventagli, e trasportava via le fronde delle piante sui balconi. Al primo accumulo di nubi, gli uccelli volavano bassi, come impauriti, sdrucendo l’orizzonte per mettersi al riparo sotto i tetti, mentre l’odore della pioggia si era già sprigionato e, in un momento, le prime gocce battevano sui vetri e le ringhiere stinte.»

Valentina Di Cesare è nata a Sulmona ed è cresciuta a Castel di Ieri, in provincia dell’Aquila. È insegnante di lettere alle scuole medie e giornalista culturale. Nel 2014 ha pubblicato il suo primo romanzo Marta la sarta (Tabula Fati) mentre nel 2017 è uscito, per Urban Apnea Edizioni di Palermo, un suo racconto lungo intitolato Le strane combinazioni che fa il tempo.

Gianluca Minotti



“L’anno che Bartolo decise di morire”
L’anno che Bartolo decise di morire, fu l’anno in cui Lucio venne seppellito

L’anno che Bartolo decise di morire, Valentina Di Cesare, Arkadia. Bisogna un po’ morir per poter vivere, e arrivederci amore ciao, le nubi sono già più in là, recitano i versi di una celebre canzone che è diventata oggetto del dramma per Moretti in una sua famosa e riuscita opera e che è evocata anche nel titolo di un bel – come al solito – testo di Carlotto: Bartolo, il protagonista del brillantissimo, struggente, straziante, emozionante, commovente fino alle lacrime, perché molto difficilmente chi legge non si sentirà di ritrovarsi come dinnanzi a uno specchio rispetto alla pagina, scritto di Valentina Di Cesare, che parla all’anima con voce piena, è un uomo buono. Semplice. Puro. Che ha il dono dell’empatia, che si preoccupa sempre per gli altri e che non vuole che gli altri si preoccupino per lui, che si imbarazza, che dà prima di ricevere, che soffre di una depressione latente che per pudore non confida ai suoi amici, tutti giustamente presi dai loro problemi, ognuno dai suoi, che ama da sempre, con cui è cresciuto, perché si vergogna, pensa che in fondo non ha diritto di lamentarsi. I buoni, si sa, si mettono sempre da parte. E si sentono in colpa. Perché sperano che il resto del mondo abbia la loro stessa capacità di accorgersi prima, senza che siano necessarie parole. Forse, però, significa pretendere troppo, da sé e dagli altri. Maestoso.

Gabriele Ottaviani



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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