Il buio delle tre è il nuovo romanzo dello scrittore siciliano Vladimir di Prima. In queste pagine c’è un intelligente dose di umorismo amaro. Con una scrittura che non rinuncia mai a una irriverente ironia Di Prima, raccontando le peripezie picaresche di Pinuccio Badalà che vuole solo esistere, avere dignità di scrittore e accedere a quell’ambita lotteria di chi si gioca l’unico premio: l’eternità dei grandi, ci consegna un ritratto fedele e spietato dei cosiddetti salotti buoni della cultura e del corrotto mondo editoriale nostrano. Badalà vive nella lontana Sicilia, figlio di un sindacalista coinvolto come vittima nella strage di Bologna, decide che vuole diventare uno scrittore, convinto ingenuamente che basta avere un talento letterario per essere pubblicato dalle case editrici che contano. Badalà crede di avere tutto le carte in regola per riuscire ad imporsi nel mondo letterario. Allora incomincia a tampinare editori e agenti letterari, parte alla volta del continente, fa veri e propri viaggi della speranza, incontra direttori editoriali e agenzie letterarie, manda mail e resta perennemente in attesa di una risposta positiva che non arriverà mai. Di Prima attraverso le vicende di Badalà con un estremo disincanto nel suo romanzo ci racconta tutta l’ambiguità trasformista del mondo culturale italiano e la decadenza morale dei suoi costumi. Un mondo in cui il merito è sempre sostituito dall’omologazione e dal marketing. Un mondo in cui l’industria editoriale è una forma di potere che non ha niente a che fare con la letteratura e «se il potere è il mantenimento di un equilibrio, il controllo crea quell’equilibrio». Badalà, aspirante scrittore di romanzi dallo stile pretenzioso, autore bistrattato di invisibili edizioni quali La memoria dello stagno e Fagioli vivrà nel disagio assoluto come un dramma sulla propria pelle l’insignificanza di un mondo culturale che con il suo operato si occupa di tenere costante un livello di bassa coscienza, promuovendo scrittori che accettano il modello vigente del depotenziamento della parola. Badalà vuole rimanere se stesso e in certo senso intende far parte di un grande circo dell’editoria. Vuole farsi notare appellandosi alle sue esclusive qualità di scrittore. Ma questo atteggiamento lo porterà all’isolamento e sarà presto considerato un sovvertitore e un disturbatore seriale di editori e agenti letterari. «Dunque: – scrive Di Prima – il sistema riconosce il genio, ma lo ignora volutamente, anzi cerca in tutti i modi di oscurarlo perché potrebbe nuocere a un equilibrio fondato sulla mediocrità». Il buio delle tre è un romanzo coraggioso, un vero e proprio atto di denuncia perché nella triste storia della nostra letteratura e del suo strano mondo culturale sono numerosi gli scrittori geniali che sono stati in vita considerati autori da evitare soltanto perché non inclini al compromesso e all’obbedienza ai canoni imposti dal sistema. Di Prima nelle pagine del suo romanzo ci ricorda la tragica figura di Guido Morselli, scrittore ritenuto appunto scomodo e sovversivo, e quindi impubblicabile. Una penna straordinaria che non meritava in vita, così tanto disprezzo e indifferenza. Lo scrittore siciliano fa una precisa scelta di campo che noi apprezziamo molto: non risparmia critiche pungenti al contemporaneo mondo dell’industria culturale che con la sua mediocre cultura del livello basso di coscienza, lascia indietro, oggi più di ieri, scrittori che scelgono di essere irregolari con il loro vocabolario ampio che contiene parole libere e un pensiero critico.
Nicola Vacca
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Astypalea è un nome affascinante anche solo per i suoni che lo formano. Ne esiste anche una versione italiana, Stampalia, ma quella greca, probabilmente derivante da άστυ (asty) e παλαιός (“palaiòs”), cioè “città antica”, è decisamente più ricca di risonanze. Lo stesso si può dire per l’isola che designa, formata da due “ali” collegate da un istmo, che costituisce l’oggetto del nuovo libro di Tito Barbini, Storie di amori e migrazioni sull’isola dalle ali di farfalla (Arkadia Editore, 2024). Pur essendo noto come scrittore di viaggio, l’autore originario di Cortona in questo caso racconta un “suo” viaggio solo in via indiretta, perché descrive il luogo in cui, più o meno occasionalmente, è approdato circa sette anni fa, per poi innamorarsene e tornarvi ciclicamente per lunghi soggiorni. La più occidentale delle isole del Dodecaneso è tuttavia al centro di questo singolare reportage-romanzo principalmente per un altro motivo: l’essere stata il punto di approdo di alcuni profughi siriani in fuga dalla guerra che martoriava il loro paese. Barbini si sofferma in particolar modo sulla vicenda di una giovane, Samira, destinata in seguito a diventare una testimone del dramma del suo popolo e soprattutto delle donne siriane, e un’attivista impegnata in Europa. Per quella relativamente breve stagione, però, è stata la protagonista di una vicenda intima incastonata in quella storia collettiva, ovvero l’amore sbocciato tra lei e Apostolos, un pescatore e raccoglitore di sale del posto, colto e anche lui politicamente avvertito. Un amore, peraltro, dall’orizzonte già definito, perché ottenere un permesso di soggiorno per Samira, anche attraverso la trafila dell’asilo, era una strada praticamente impossibile. E, tuttavia, un amore forte e, entro quella cornice temporale, a suo modo “eterno”. L’autore riesce a rendere tutta la profondità e l’intensità di questa vicenda ricorrendo a un linguaggio semplice e poetico, carico di sdegno civile e di echi sospesi tra la storia e il mito, come da millenni è tutto ciò che proviene da questa parte del mondo. E in effetti la storia di Samira e Apostolos è un mito, ovvero un racconto denso di rimandi archetipici, e come tale, appunto, “fuori dal tempo”. E anche quando sarà finito, rimarrà pur sempre Astypalea, con le sue rocce, i suoi scorci di blu smisurato e il vento, forse capace di sollevare le ali che la formano in un’altra dimensione, in cui saranno non gli esseri umani, ma certi paradossi della storia e della politica a non aver più diritto di cittadinanza.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Tito Barbini, ex sindaco di Cortona e per molti anni impegnato nel governo della Regione Toscana, da più di venti anni è a tempo pieno un noto scrittore di viaggi. Ha pubblicato, tra le altre opere, Antartide (Polistampa, 2008), Caduti dal muro (Vallecchi, 2007, con Paolo Ciampi), I giorni del riso e della pioggia (Vallecchi, 2010), sull’itinerario compiuto in Asia risalendo il fiume Mekong, Il cacciatore di ombre. In viaggio con Don Patagonia (Aska, 2026), L’amico francese (Betti, 2021), sulla sua amicizia con F. Mitterrand, L’isola dalle ali di farfalla (Spartaco, 2020, con Paolo Ciampi), Il fabbricante di giocattoli (Arkadia, 2021) e Il treno non si fermò a Kiev (Betti, 2022).
Tito Barbini, Storie di amori e migrazioni sull’isola dalle ali di farfalla, Arkadia Editore, 2024, pp. 104
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Giornalista professionista e project generator ha esordito con il romanzo La prima ora del giorno (Giunti) cui è
seguito Il nido delle cicale (Giunti). Per Arkadia Editore ha pubblicato un racconto in Luoghi letterari. Veneto (2024).
Veronese, appassionato di jazz, cinema noir e fumetti pulp, ha pubblicato tre album di rock indipendente con il gruppo Younger Son. Il suo romanzo d’esordio è Il gioco delle maschere (Mondadori). Per Arkadia Editore ha pubblicato un racconto in Luoghi letterari. Veneto (2024).
Editor, è autrice di Lezioni di narrativa, Il romanzo che vorrei e di Morire ti fa bella (Salani). Per Arkadia Editore ha pubblicato un racconto in Luoghi letterari. Veneto (2024).
Il panorama editoriale italiano è, solitamente, campo d’elezione della saggistica, tutt’al più argomento d’indagine giornalistica. Ma cosa accadrebbe se uno scrittore si prendesse la briga di farne materia romanzesca? Se, per dire, ponesse al centro della trama un giovane percosso dal destino, animo sensibile e carattere testardo, il quale, innamorato della letteratura e preda dell’istinto creativo, immolasse la vita alla scrittura perseguendo il sogno di venire pubblicato, di vedere unanimemente riconosciuto il proprio talento? È ciò che ha fatto Vladimir Di Prima con il suo quarto romanzo, Il buio delle tre, pubblicato da Arkadia Edizioni. Il personaggio in questione si chiama Pinuccio Badalà, è nato a metà degli anni Settanta e vive in un paese del Catanese (come il suo creatore, che nel centro etneo è nato e vive), e il fato si è accanito su di lui riducendogli il padre, sindacalista in viaggio a Bologna e salvo per la “cieca determinazione del caso”, a un mutilato “destinato a far finta di vivere” in seguito all’attentato dell’agosto 1980, infine strappandoglielo per un bizzarro incidente. Il titolo rimanda all’ora più fonda della notte, metafora di un precipitare nella voragine esistenziale, da cui il buon Pinuccio cerca volitivamente di riemergere “come un cane che parlava alla luna anche quando la luna non c’era”, e la vicenda si dipana lungo un quarantennio, sullo sfondo di eventi epocali (appunto la strage di Bologna, lo sgretolamento del colosso sovietico, gli attentati a Falcone e Borsellino, alle Torri Gemelle), giungendo sin quasi all’oggi; vediamo Pinuccio crescere con i comprensibili traumi, sotto l’ala di una madre apprensiva, simbolo di una cultura atavicamente passiva e remissiva davanti alle dinamiche della storia, contro la quale il giovane mette in atto una pertinace ribellione. Molla che non scatta subito, poiché, dopo la maturità scientifica, il ragazzo non trova “niente in grado di incuriosirlo più dell’inerzia a cui voleva destinarsi”. L’inerzia è motivo ricorrente: quella degli adulti e della sua terra, che si scrollerà di dosso grazie alla convinzione di essere “un predestinato”, che scrive “per entrare nella storia”. Sarà questa diversità ontologica a salvarlo dalle incomprensioni e dallo “scetticismo isolano” che lo assediano, a conferire senso alla sua vita e concedergli una possibilità di riscatto dal grigiore cui sarebbe destinato. Terra di “vane consolazioni”, la Sicilia è coprotagonista, punto di fuga e àncora di salvezza a cui sempre Pinuccio s’abbarbica per leccarsi le ferite dopo i pellegrinaggi nei respingenti reami dell’editoria italiana, abitati da figure ora ridicole e grottesche, ora ipocrite e fatue, ora tracotanti e boriose, quasi sempre incapaci, “manipolo di inetti depravati o fricchettoni metodisti piazzati a prua di una nave già sul fondo dei mari”. Per lo scrittore in cerca di conferme, che trascorre la vita “allacciato alle travi di un sogno”, quello natìo è il luogo dove escogitare trame, allestire “fiere, inviti, agenti, mascheramenti” con l’intento di piazzare i propri scritti, come quando, non privo di genio, organizza la presentazione di un libro per attirare una nota scrittrice e il suo editore – tra i momenti più esilaranti del romanzo –, scarrozzandoli per le bellezze etnee e rimpinzandoli con delizie gastronomiche prima di affibbiargli la propria opera; o ancora, si finge agente letterario, sempre con lo scopo di avere ragione delle “aberranti logiche della grande macchina editoriale italiana”. E così, tra innamoramenti ed esperienze di formazione erotica, interminabili attese e l’ideazione di trame diaboliche, incontri con i pochi in grado di manifestargli affetto e comprensione (un vecchio professore che “insegnava a essere liberi” poi misteriosamente scomparso, un ingegnere ottuagenario che s’ostina a sfilare per “i licenziosi viali di Catania” in cerca del “nettare di Dio”, un maturo scrittore, addirittura un premio Nobel agganciato con ammirevole scaltrezza), tra personaggi reali come Lucio Dalla e d’invenzione, più d’uno preda d’ipocondrie (simbolo d’un tempo infetto, la malattia attraversa il testo come un filo rosso), la narrazione si dipana lungo le montagne russe di poderose illusioni e cocenti delusioni. Il tono è quello della tragicommedia, e l’originalità non risiede solo nella trama, ma anche nell’ascendente letterario, il romanzo picaresco: Pinuccio è un moderno Lazarillo di cui, con una partecipata narrazione in terza persona, si seguono le peripezie, ma con una variante rispetto al modello di riferimento, poiché per sopravvivere il protagonista non compie azioni riprovevoli, non accetta compromessi con un mondo spietato ma rimane fedele a se stesso, e ignoriamo se la sua “purezza” (che è anche cieca ostinazione) sarà premiata con il successo. L’incipit si consuma in un micidiale iato, in cui, da momenti di scompiscevole ilarità giocati sul topos dell’isolano che viaggia nel continente si scivola in un attimo (quello devastante dell’attentato) nella tragedia. La stoffa dell’autore si estrinseca proprio nella misurata fusione dei registri (v’è anche un inserto onirico dalle tinte gialle), resi in una lingua metaforica, un lessico denso di echi dei maestri prosatori siciliani (Sciascia e Brancati su tutti), ma anche memore della lezione d’un Camilleri con la dilatazione semantica di verbi e aggettivi basata sul vernacolo, una prosodia che si stacca da quella misera e scontata di tanti romanzi contemporanei. Convincenti i dialoghi, venati d’ironia e sapidi accenti dialettali, vividi e concreti i personaggi, a partire dal Badalà, alcuni con nomi dall’umoristica pregnanza pirandelliana: Carmelo Cantalanotte, Orazio Magazù, Rosalia Quattrocchi, Cischino Menestrello. Quanto questa storia sia la trasfigurazione letteraria dell’esperienza dell’autore, se sia un riuscito esperimento di ironica autoanalisi, non è dato sapere. Certo è che, con talento comico virato sul grottesco, Di Prima cesella un’amara parodia del nostro tempo, mettendo in scena la decadenza culturale attraverso il filtro delle ambizioni di un provinciale deciso a lasciare un segno, non soltanto per vanagloria ma per autentico trasporto verso l’arte, il bisogno di “essere” e non di apparire. Ma il dilemma che ammanta il personaggio rimane irrisolto, del protagonista sappiamo solo che è un “aspirante scrittore di romanzi dallo stile pretenzioso”: Pinuccio Badalà è il classico genio incompreso o un inguaribile sognatore, icastica personificazione del piccolo borghese incapace di uscire dalla mediocrità sua e del proprio milieu? Stupido, comunque, non è, se si ritrova sull’orlo della “spirale senza sbocco della pazzia”, se arriva a comprendere che “la letteratura, in fondo, era solo un grande surrogato, un luogo inventato dagli uomini come lui per rendere più sopportabile un’esistenza che sin dal primo pianto li aveva messi in una condizione di drammatica estraneità”. E v’è un’altra certezza: il suo creatore è scrittore autentico, che conclude il romanzo con l’accortezza di lasciare all’incuriosito lettore il fantasticare gli esiti della storia.
Giuseppe Costigliola
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È molte cose insieme, questo piccolo libro di Tito Barbini, Storie di amori e migrazioni sull’isola dalle ali di farfalla. Breve, cento pagine appena, ma denso. È, per aperta e ripetuta dichiarazione dell’autore, un romanzo d’amore. È un saggio, o una serie di microsaggi, sulle migrazioni, sulla letteratura, sul mito. È un libro di viaggi, di mare e di isole; è infine un metaracconto, perché l’autore, mentre scrive, si interroga e riflette sulle ragioni del suo scrivere, sul modo in cui intende sviluppare la trama, sui dubbi che lo assalgono, sui rischi che teme di correre. Di cosa si parla, dunque, in questo libro? Di un’isola, Astypalea, la più occidentale del Dodecaneso, che Barbini chiama poeticamente “l’isola dalle ali di farfalla” (ho guardato la mappa ed effettivamente ha la forma di una farfalla). Un’isola brulla e montuosa, bagnata da un mare limpidissimo. Di un pescatore, Apostolos, e di una giovane donna, una profuga siriana chiamata Samira, che sbarca sull’isola-farfalla a bordo di un barcone insieme ad altre quarantadue persone. Dell’amore a prima vista che scoppia tra i due: un amore non destinato a codificarsi in una relazione stabile, ma che vive della propria luce per tutto il tempo che gli è concesso. Di Enea e Ulisse, illustri profughi e naufraghi, cui una civiltà più accogliente seppe offrire ospitalità. Dei profughi e dei migranti che attraversano il Mediterraneo spinti dalla necessità, dalla disperazione ma anche dalla speranza di potersi ricostruire una vita. Dei feroci sistemi che l’Europa mette in atto per impedire a profughi e migranti di entrare nel suo territorio o, quando vi entrano, per relegarli in disumane strutture di detenzione. E del richiamo del viaggio, della nostra ambivalenza tra avventura e ricerca di stabilità, tra il fascino del mare e la sicurezza della terraferma. Un piccolo libro, dunque, come dicevo molto denso, che ci trascina da un pensiero all’altro, da una suggestione all’altra, seguendo il filo dei pensieri vagabondi del suo autore.
Marisa Salabelle
Il link alla recensione su MasticadoresItalia: https://tinyurl.com/47n8af49