Si avvicina la pausa natalizia, ma prima di lasciarsi andare a brindisi e festeggiamenti, diamo uno sguardo alle news letterarie di questa settimana! E apriamo con la novità firmata Eris Edizioni: Il focolare è una bestia affamata di Angelo Maria Perongini, una favola horror ambientata proprio a Natale. Proseguiamo con un saggio in libreria per Il Saggiatore dedicato a tutti gli amanti dei testi: Piccolo manuale illustrato per cercatori di font, con le illustrazioni di Giacomo Agnello Modica, per capire come e perché scriviamo certe parole. Per Arkadia Editore invece troviamo un romanzo su aspirazioni letterarie e delusioni, tra periferia e città italiana: Il buio delle tre di Vladimir Di Prima. Passiamo invece alla poesia con la silloge (anzi due) di Valerio Carbone, Ordàlia / La disciplina del tempo, edita da Edizioni Efesto. Si parla di madri e femminilità invece con la nuova uscita per Castelvecchi Editore: in libreria Donne che allattano cuccioli di lupo, di Adriana Cavarero. Recuperate anche Il fiore di Farahnaz di Yaprak Oz, in libreria per Edizioni le Assassine, un giallo sullo sfondo di una Turchia instabile. E infine, tra pirati e marinai, tra fuorilegge e idealisti troviamo Sotto il vessillo di re morte. Un mondo alla rovescia di Marcus Rediker, in libreria per Eleuthera.
Il link alla segnalazione su The Bookish Explorer: https://bitly.ws/367xn
In libreria “Il buio delle tre” del regista siciliano Vladimir Di Prima. Non è un’opera a tinte rosa, e neppure gialle o nere come oramai impone il mercato. Quello di Di Prima è un romanzo-denuncia contro il declino culturale e intellettuale del Paese negli ultimi quarant’anni. Ed è per tale motivo che “Il buio delle tre” (Arkadia editore) sarà uno dei titoli più controversi e scoppiettanti del 2024. L’idea nasce dalla voglia di denunciare lo stato di degrado dell’industria editoriale che non guarda più alla qualità letteraria. Il romanzo è stato scritto da Vladimir durante la pandemia. La vicenda narrata inizia con rimandi all’incidente di Ustica, passando per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, attraversando poi alcuni dei momenti chiave della Storia in riferimento non solo al nostro Paese ma anche all’intero globo (l’elezione di Gorbaciov, la strage di Capaci, il crollo delle torri gemelle, la cattura di Bernando Provenzano, l’attentato al Charlie Hebdo, per citare qualche esempio). Questo pretesto narrativo permette di collocare in successione la vita del protagonista, Pinuccio Badalà, figlio di un sindacalista coinvolto nella strage di Bologna e poi morto qualche anno dopo in seguito a un bizzarro incidente, il quale, a un certo punto sogna di diventare uno scrittore affermato. La legittima ambizione lo porterà, però, a scontrarsi ripetutamente contro tutti quegli ostacoli posti in essere da un sistema refrattario alla meritocrazia e al talento, un sistema descritto minuziosamente nei suoi vizi e nelle sue miserie quotidiane. Ne viene fuori un amaro e grottesco affresco dell’editoria italiana, dei costumi, dei silenzi, financo della rassegnazione che serpeggia come un male oscuro fra i gangli della provincia più remota. Lo stile e la scrittura, elementi che caratterizzano il testo insieme alla costante ironia di fondo, restituiscono grande scorrevolezza alla lettura suscitando contrapposti sentimenti di rabbia ed empatia. Un romanzo insolito e molto coraggioso, in aperta rottura con le mode del momento e che sfida, senza timore di ripercussioni, la decadenza dei tempi.
Vladimir Di Prima
È nato a Catania nel 1977. Dopo la maturità classica si laurea in Legge e successivamente consegue un Master di secondo livello in Criminologia. Da oltre vent’anni fa parte del comitato organizzativo del Premio Brancati. Film-maker indipendente (ha collaborato, fra gli altri, con Lucio Dalla) ha all’attivo diversi riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale. È autore de Le incompiute smorfie (2014), Avaria (2020) e La banda Brancati (2021). Nel 2023 ha realizzato un docufilm con protagonisti Giuseppe Lo Piccolo, Marino Bartoletti e altri importanti attori del palcoscenico nazionale.
Il link alla recensione su Palermomania: https://bitly.ws/35s2J
L’idea nasce dalla voglia di denunciare lo stato di degrado dell’industria editoriale che non guarda più alla qualità letteraria.
È uscito lo scorso 8 dicembre 2023 in libreria il libro dal titolo “Il buio delle tre” del regista siciliano Vladimir Di Prima. Quello di Di Prima è un romanzo-denuncia contro il declino culturale e intellettuale del Paese negli ultimi quarant’anni. L’idea nasce dalla voglia di denunciare lo stato di degrado dell’industria editoriale che non guarda più alla qualità letteraria. Il romanzo è stato scritto da Vladimir durante la pandemia. La vicenda narrata inizia con rimandi all’incidente di Ustica, passando per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, attraversando poi alcuni dei momenti chiave della Storia in riferimento non solo al nostro Paese ma anche all’intero globo (l’elezione di Gorbaciov, la strage di Capaci, il crollo delle torri gemelle, la cattura di Bernando Provenzano, l’attentato al Charlie Hebdo, per citare qualche esempio). Questo pretesto narrativo permette di collocare in successione la vita del protagonista, Pinuccio Badalà, figlio di un sindacalista coinvolto nella strage di Bologna e poi morto qualche anno dopo in seguito a un bizzarro incidente, il quale, a un certo punto sogna di diventare uno scrittore affermato. La legittima ambizione lo porterà, però, a scontrarsi ripetutamente contro tutti quegli ostacoli posti in essere da un sistema refrattario alla meritocrazia e al talento, un sistema descritto minuziosamente nei suoi vizi e nelle sue miserie quotidiane. Ne viene fuori un amaro e grottesco affresco dell’editoria italiana, dei costumi, dei silenzi, financo della rassegnazione che serpeggia come un male oscuro fra i gangli della provincia più remota. Vladimir Di Prima è nato a Catania nel 1977. Dopo la maturità classica si laurea in Legge e successivamente consegue un Master di secondo livello in Criminologia. Da oltre vent’anni fa parte del comitato organizzativo del Premio Brancati.
Film-maker indipendente (ha collaborato, fra gli altri, con Lucio Dalla) ha all’attivo diversi riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale. È autore de Le incompiute smorfie (2014), Avaria (2020) e La banda Brancati (2021). Nel 2023 ha realizzato un docufilm con protagonisti Giuseppe Lo Piccolo, Marino Bartoletti e altri importanti attori del palcoscenico nazionale.
Flavio Sirna
Il link alla recensione su Catania Today: https://bitly.ws/35rYw
È uscito l’8 dicembre “Il buio delle tre” del regista siciliano Vladimir Di Prima. Non è un’opera a tinte rosa, e neppure gialle o nere come oramai impone il mercato. Quello di Di Prima è un romanzo-denuncia contro il declino culturale e intellettuale del Paese negli ultimi quarant’anni. Ed è per tale motivo che “Il buio delle tre” (Arkadia editore) sarà uno dei titoli più controversi e scoppiettanti del 2024. L’idea nasce dalla voglia di denunciare lo stato di degrado dell’industria editoriale che non guarda più alla qualità letteraria. Il romanzo è stato scritto da Vladimir durante la pandemia. La vicenda narrata inizia con rimandi all’incidente di Ustica, passando per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, attraversando poi alcuni dei momenti chiave della Storia in riferimento non solo al nostro Paese ma anche all’intero globo (l’elezione di Gorbaciov, la strage di Capaci, il crollo delle torri gemelle, la cattura di Bernando Provenzano, l’attentato al Charlie Hebdo, per citare qualche esempio). Questo pretesto narrativo permette di collocare in successione la vita del protagonista, Pinuccio Badalà, figlio di un sindacalista coinvolto nella strage di Bologna e poi morto qualche anno dopo in seguito a un bizzarro incidente, il quale, a un certo punto sogna di diventare uno scrittore affermato. La legittima ambizione lo porterà, però, a scontrarsi ripetutamente contro tutti quegli ostacoli posti in essere da un sistema refrattario alla meritocrazia e al talento, un sistema descritto minuziosamente nei suoi vizi e nelle sue miserie quotidiane. Ne viene fuori un amaro e grottesco affresco dell’editoria italiana, dei costumi, dei silenzi, financo della rassegnazione che serpeggia come un male oscuro fra i gangli della provincia più remota. Lo stile e la scrittura, elementi che caratterizzano il testo insieme alla costante ironia di fondo, restituiscono grande scorrevolezza alla lettura suscitando contrapposti sentimenti di rabbia ed empatia. Un romanzo insolito e molto coraggioso, in aperta rottura con le mode del momento e che sfida, senza timore di ripercussioni, la decadenza dei tempi.
Il link alla recensione su InfoOggi: https://bitly.ws/35dJ9
Esce oggi, 8 dicembre, in libreria “Il buio delle tre” del regista siciliano Vladimir Di Prima. Non è un’opera a tinte rosa, e neppure gialle o nere come oramai impone il mercato. Quello di Di Prima è un romanzo-denuncia contro il declino culturale e intellettuale del Paese negli ultimi quarant’anni. Ed è per tale motivo che “Il buio delle tre” (Arkadia editore) sarà uno dei titoli più controversi e scoppiettanti del 2024. L’idea nasce dalla voglia di denunciare lo stato di degrado dell’industria editoriale che non guarda più alla qualità letteraria. Il romanzo è stato scritto da Vladimir durante la pandemia. La vicenda narrata inizia con rimandi all’incidente di Ustica, passando per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, attraversando poi alcuni dei momenti chiave della Storia in riferimento non solo al nostro Paese ma anche all’intero globo (l’elezione di Gorbaciov, la strage di Capaci, il crollo delle torri gemelle, la cattura di Bernando Provenzano, l’attentato al Charlie Hebdo, per citare qualche esempio). Questo pretesto narrativo permette di collocare in successione la vita del protagonista, Pinuccio Badalà, figlio di un sindacalista coinvolto nella strage di Bologna e poi morto qualche anno dopo in seguito a un bizzarro incidente, il quale, a un certo punto sogna di diventare uno scrittore affermato. La legittima ambizione lo porterà, però, a scontrarsi ripetutamente contro tutti quegli ostacoli posti in essere da un sistema refrattario alla meritocrazia e al talento, un sistema descritto minuziosamente nei suoi vizi e nelle sue miserie quotidiane. Ne viene fuori un amaro e grottesco affresco dell’editoria italiana, dei costumi, dei silenzi, financo della rassegnazione che serpeggia come un male oscuro fra i gangli della provincia più remota. Lo stile e la scrittura, elementi che caratterizzano il testo insieme alla costante ironia di fondo, restituiscono grande scorrevolezza alla lettura suscitando contrapposti sentimenti di rabbia ed empatia. Un romanzo insolito e molto coraggioso, in aperta rottura con le mode del momento e che sfida, senza timore di ripercussioni, la decadenza dei tempi.
VLADIMIR DI PRIMA
È nato a Catania nel 1977. Dopo la maturità classica si laurea in Legge e successivamente consegue un Master di secondo livello in Criminologia. Da oltre vent’anni fa parte del comitato organizzativo del Premio Brancati. Film-maker indipendente (ha collaborato, fra gli altri, con Lucio Dalla) ha all’attivo diversi riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale. È autore de Le incompiute smorfie (2014), Avaria (2020) e La banda Brancati (2021). Nel 2023 ha realizzato un docufilm con protagonisti Giuseppe Lo Piccolo, Marino Bartoletti e altri importanti attori del palcoscenico nazionale.
Il link alla recensione su MadonieLive: https://bitly.ws/34YS9
Disperdiamo emozioni lungo i tragitti che percorriamo; qualcuno forse avrà modo di riviverle. Non importa che esse siano state belle o brutte, intense o meno intense; nulla svanisce per sempre. D’altronde. anche questo è un aspetto dell’eternità. Lo specchio armeno di Paolo Codazzi ci lascia questo messaggio, dopo averci consegnato profonde riflessioni sulla Storia, sul nostro modo di pensare e sulle interpretazioni che diamo al passato. Con uno stile ricercato, nel quale la parola è ponte tra Cielo e Terra, capace di innescare una narrazione che si distribuisce su più piani temporali, lo scrittore fiorentino riempie di memoria ogni luogo e ogni anfratto che appare tra queste pagine. La trama lineare lascia spazio a uno sviluppo del tema complesso, in cui ogni confine tra narrativa e saggistica viene superato. L’obiettivo è infatti creare le condizioni tramite cui il lettore possa venire a contatto con un ambiente vivo, mutevole, ma allo stesso tempo determinato dagli eventi passati che lo hanno attraversato. Cosimo è un pittore, un copista per l’esattezza. Per lui questo non è solo un lavoro, ma è anche un’attività creativa; infatti, in ogni opera che ricompone inserisce qualcosa di suo. È un modo per fare risaltare quel principio di inarrestabile trasformazione che rende unico anche ciò che sembra identico. Dopotutto, nulla può essere riprodotto fedelmente. L’uomo è le sue emozioni, così come è la sua epoca. Per il suo nuovo lavoro, Cosimo si reca in Sicilia per studiare l’opera che dovrà copiare, ma la storia che avvolge il tutto è intrisa di Inquisizione, di stregoneria, di amore e di lutto. Tutte cose che hanno a che fare, a cinquecento anni di distanza, anche con le sue vicissitudini personali. C’è un evento in particolare che lo scuote e lo fa piombare in un lungo déjà-vu, ossia la morte della sua fidanzata, Laura, che avviene un mese prima della celebrazione del matrimonio. Man mano che Cosimo si imbatterà in questa storia, quel trauma mai superato, in cui sopravvive il lutto, contribuirà ad aprire veri e propri varchi temporali Sia ben chiaro, questo non è né un romanzo storico né un fantasy, tantomeno ci sono elementi gotici. Siamo di fronte al dramma di un uomo che fa i conti con la Storia e con coincidenze che si sviluppano intorno a temi attualissimi. Codazzi ha il merito di allineare tutto con semplicità ed efficacia, senza ricorrere a stratagemmi. È la Storia che riesce a fare il resto, ossia il “già scritto” e il “già accaduto” che vengono riproposti in altre salse. D’altronde, la nostra vita appare a volte come una ripetizione che prova a essere sconvolta dalla ricerca di una novità. Fatto sta che le emozioni sono sempre quelle. L’amore, la sofferenza, la gioia producono sempre gli stessi effetti, iniettando in noi solo una passeggera sensazione di “mai sperimentato” e di egoistico “primato”. E forse, per dirla alla Cosimo, anche la sua storia è la riproduzione di una vicenda ben più clamorosa e nota, che un pittore-demiurgo sta provando a ricopiare aggiungendo qualche elemento di novità.
Martino Ciano
Il link alla recensione su Border Liber: https://bitly.ws/34VkJ
Pinuccio Badalà è uno scrittore. Uno scrittore vero, non come quelli che imbrattano fogli perché annoiati da uno spleen che non è neanche uno spleen, ma l’assenza persino del vuoto. Il personaggio, non la persona di Vladimir Di Prima, si muove tra la gente osservando e riflettendo fatti fantasiosi: attentati, abbandono, assassinii, negazioni, falsità. Cose da libri che non hanno nulla a che vedere con la vita. E per questo Vladimir Di Prima – il personaggio? – non potrà mai essere un vero scrittore. A differenza di Badalà. Perché “scrittori non ci si improvvisa. È un mestiere che parte da lontano, da quelle recondite pulsioni di emarginazione, di scarto, di rivalsa verso un prossimo ingrato e irriconoscente, e naturalmente, da una spiccata tendenza narcisistica”. Badalà conosce le tattiche del ministero, è vero, com’è vera la sofferenza dell’essere siciliano. Di Prima no, non lo sa, eppure osa. E scrive. “Noi editori siamo gente pessima, distratta, il più delle volte insensibile; questo è bene che lo sappia.” Eppure, Di Prima vive in “un offuscamento, uno slittamento temporale […] nella codardia di accettare l’idea che la bellezza potesse finire in quel modo, umiliata dal male e da una scienza che non sapeva difenderla”. Qualcosa di assolutamente irragionevole e perverso. A differenza di Badalà. Il quale, come tutti i grandi scrittori passa da tragici rifiuti. “Questo è un segnale” e nonostante “certuni pur di non vedere il trionfo di altri rinuncerebbero mille volte al proprio”, Badalà è lungometrista. Uno scrittore che sa il fatto suo. Perché sa come si fa. Conosce le regole del gioco, anche se la “natura non l’aveva dotato di quelle virtù selvagge e virili che agganciano prontamente l’interesse di una donna”, o di un editore. Perché Badalà ama. Ama la scrittura e l’altro da sé. Ama la giustizia, come Sciascia. E ce ne fossero come Sciascia, si sa. Che poi quando qualcuno ne percorre le orme, lo si manda via. Ma Badalà sa che “chi muore nel cuore degli altri o chi non c’è mai stato, prima o dopo, è destinato a scomparire definitivamente”. Badalà lo sa perché è uno scrittore. E lo ha sempre saputo, anche se “il coro delle disgrazie non risparmia mai la vita a uno sciagurato finché non riesce a rovinargliela per sempre”. Badalà è uno che non si dà per vinto, perché ha la stoffa del campione. Perché il campione, a differenza del viziato, del debole, del raccomandato, si rialza sempre. E continua, continua, continua a colpire e a essere colpito. E picchietta, picchietta, continua a picchiettare su quella sua dannata tastiera. Ah, ecco Badalà, “seduto accanto a una grande vetrata osserva con riaccesa curiosità il viavai dei vivi. Gente con passo rapido, sempre in direzione di qualcosa, lontana dalla lentezza, dall’immobilismo del fico in Sicilia sotto il quale trascorreva giornate intere a pensare e a leggere”. Badalà si scontra con l’editoria Italiana del disinteresse per se stessa e per il prossimo. L’editoria dell’avarizia o dell’incoscienza. L’editoria dell’oblio della civiltà. Cosa grave nel Duemila. Come se la storia non fosse stata storia. E l’uomo non fosse stato uomo. Badalà si scontra con l’editoria piccolina – spesso ricca – che disprezza il significato profondo della parola letteratura. Perché, nella storia, “i figli di falsi comunisti che s’erano mangiati il Paese con posti di sottobanco, ministeri, cattedre universitarie, appalti ospedalieri. Oppure gente all’opposto: fascisti di lungo corso governati dagli aberranti miti del passato. L’Italia delle lettere era definitivamente caduta in mano a un branco di fighettini viziati.” E in tutto questo, svicolando e, cristicamente, andando avanti sotto la croce della sua macchina da scrivere, Badalà ci racconta la vita di Vladimir Di Prima. Un personaggio in cerca di editore, che si muove in una terra bruciata, la Sicilia. Dove una massa di “bambini biondissimi, bambine biondissime, tutto biondo nell’aragosta di Taormina” fa ancora i conti con le monarchiche oligarchie della cultura-noncultura-checulturanonè. Perché cultura vuol dire bene, progresso e amore. Oltre il tempo. Oltre l’aperitivo e la bottarella dell’oggi. Ma Badalà lo sa. Il problema è Di Prima. “Uno scrittore deve sempre metterlo in conto [il tempo] e sapere che non è mai corrispondente alla durata della propria esistenza. La letteratura è la macchina del tempo” e Badalà guarda “all’incorruttibilità dell’idea”. Le sue mani ci “fanno capire molto della venerazione che ha per la letteratura. È un uomo sacro […] e purtroppo gli uomini sacri oggigiorno sono vittime di un sistema che non li difende.” In Sicilia, a Milano, come a New York. Ma il povero Di Prima è qualcuno “inviso agli editori italiani”, qualcuno che scrive trame non originali con una “scrittura ambiziosa ma la storia così come il personaggio non evolvono”. E si incazza pure. Non ci siamo Di Prima. Lei non sa cosa e come deve evolvere un personaggio. Chieda a Badalà. Lui evolve. E smetta di sognare “settori coinvolti nell’industria editoriale: giornali, libri, televisioni.” Nessuno sta cercando “di tenere costante un livello di bassa coscienza, evitando che qualcuno provochi accidentali risvegli”, nessuno, nostro caro Di Prima. E “se il potere è il mantenimento di un equilibrio, il controllo crea quell’equilibrio”, lei non sa nulla, e non osi, Di Prima. Ascolti Badalà. La trama del libro s’infittisce, la notte si fa candela, s’incomincia a ragionare, i personaggi e la storia evolvono. “La mediocrità è narcotica, genera ignoranza, modella appiattimenti, annulla il giudizio critico diffondendo dogmi e legittimandoli. Il governo superiore si serve proprio di questa mediocrità per ridefinire assetti politici, manovre economiche e persino guerre”. E se è vero che ci sono “autori da evitare”, allora ci viene da chiedere “chi sono questi autori?”. La risposta non può essere che una: i veri scrittori come lei, nostro caro Di Prima. Un plauso alla casa editrice Arkadia.
INTERVISTA A VLADIMIR DI PRIMA
La prima domanda è d’obbligo: quanto di autobiografico si cela nelle vicende di Pinuccio Badalà? Chi è Vladimir Di Prima?
La domanda corretta sarebbe: quanto di autobiografico non c’è nelle vicende di Pinuccio Badalà? Allora potrei rispondere molto poco e quel poco è solo funzionale alla storia. Chi è Vladimir Di Prima? Uno che spero di incontrare prima o poi; è una vita che lo cerco.
Quanto, secondo lei, la deriva dell’editoria italiana, così come la descrive, seppur sardonicamente, nel suo “Il Buio delle tre”, influenza la società italiana di oggi?
Più che di deriva parlerei di miopia programmatica. La società italiana di oggi è il prodotto di uno sgretolamento identitario che parte da lontano. L’espressione culturale del Paese non può che essere figlia di questo processo. Non so in che misura le grandi case editrici possano intimamente influenzare la società di un Paese che legge pochissimo, ma è sicuro che regolano il mercato e regolando il mercato indirizzano opinioni, modellano fenomeni e non per ultimo spacciano per qualità ciò che a malapena è mediocre. Bisogna avere il coraggio di dire “Basta” e io con questo romanzo ci provo.
Lei inserisce le vicende di Pinuccio Badalà in un contesto storico e culturale sottolineando come la storia influenzi gli scrittori che la vivono e come gli scrittori che la vivono influenzino la storia. Quale dovrebbe essere il ruolo dello scrittore e dell’artista oggi?
Non diverso da quello che per definizione è il ruolo dell’intellettuale in ogni epoca, e cioè una figura capace di tenere in vita le coscienze attraverso due principi fondamentali: il pensiero critico e il dubbio costante.
Nel suo romanzo mette alla berlina tutta l’editoria nazionale, anche in maniera parecchio diretta, eppure non vengono fatti nomi precisi. Timore di essere querelato o scelta consapevole?
Fare i nomi non serve. Non serve al discorso in generale e non serve perché il singolo non ha colpe superiori rispetto all’establishment in cui è collocato. Certo, molti mancano di quella sensibilità artistica e intellettuale necessaria per ricoprire il ruolo, ma proprio per questo il colpevole va intercettato altrove.
Cosa si può fare per far tornare la scrittura a ciò che era prima – cosa era prima? – affinché si torni a crescere socialmente, valorialmente, abbandonando la deriva commerciale dello scrivere solo per intrattenere, non far pensare, e vendere?
La soluzione è molto semplice: si dovrebbe smettere di scrivere per almeno vent’anni istituendo viceversa una rete capillare di scuole di lettura con obbligo di frequenza. Bisogna educare le coscienze alla sacralità della scrittura quale atto ultimo, e non declassabile, dell’evoluzione spirituale. Solo un popolo di grandi lettori può sperare in un futuro migliore perché di scrittori o presunti tali ce n’è fin troppi.
Francesco De Luca
Il link alla recensione su Delufa Press: https://bitly.ws/35rUm
Come in certi quadri di realismo cinico, che possono dapprima respingere, ma a guardar bene (in questo caso a leggere bene), è possibile riconoscere icastici elementi della realtà, sia fisica dove l’uomo vive, sia riferita alla fisiognomica umana, ma anche alle assuefazioni al turpiloquio, al meta linguaggio, ai vizi, ai permanenti pregiudizi, di una porzione di personaggi facilmente assimilabile all’umanità nel suo complesso, questo romanzo, per quanto insistito e deformato da una visione apparentemente distorta alla fine deriva, sempre a leggere bene, in una qualche realtà concepita dagli stessi elementi di una figurazione classica o anche di una commedia plautina. Il libro di Massimo Salvatore Fazio, Il tornello dei dileggi, Arkadia 2021, per il contenuto di ipnotico nichilismo nella rappresentazione di un folto gruppo di personaggi (comunque un campione assimilabile), inizialmente può allarmare il lettore e la lettura, ma con il passare delle pagine si è attirati da una mimesi che per quanto alterata e ritenuta estranea alla fine, guardando bene, come in un dipinto, conduce nel labirinto delle nefande contraddizioni umane che per quanto perseverate
nelle pagine convincono dello specchiarsi di una realtà, che ci appartiene, pur affaticati ad immaginarla positiva ma che ogni giorno si rileva nella sua negazione. In questo coacervo di storie l’autore, eclettico intellettuale impegnato in filosofia, pittura, scrittura e in molte altre attività, concede al lettore, sui vari palcoscenici da Roma a Madrid, da Torino a Catania, la storia di un personaggio Paolo, apparentemente capocomico, contornato da una miriade di altri personaggi tutti sbertucciati dai trabocchetti della vita, ma anche veri comunque nell’agonismo
quotidiano dei singoli episodi confluiti nella struttura del romanzo, nel quale insistono intermittenze impetuose, dialoghi apparentemente surreali e remoti rimorchiati dalla materialità di una lingua rarefatta nel cogliere le eccezioni dei comportamenti umani senza alcun sperimentalismo, né tentativo di stupire, dove l’impresario propone, come un burattinaio di pupi, bizzarre ipotesi di comunicazione e conflitti rapporti intersoggettivi a prima vista forzati ma che in realtà testimoniano
l’imbarbarimento di società cosiddette civili immiserite da un progresso che talvolta conduce al decadimento. Romanzo incisivo, farcito di brutale e talvolta patetica ironia, disseminato di contesti esistenziali dei personaggi in un decalogo, a volte buffo, di singole dolorose istanze che si capovolgono incessantemente coinvolgendo il folto gruppo di attori di un ipotetico circolo culturale in cui ognuno può esprimere la propria opinione libero dai condizionamenti sociali, etici e di qualsiasi altra natura su qualsivoglia argomento sia vitale sia riferito semplicemente ad una partita di calcio: pretesto per un’immagine vera e tagliente della vita in cui talvolta è la realtà che imita la finzione: tante storie
come quelle illustrate negli affreschi di Buonamico Buffalmacco nel Camposanto di Pisa, che tanto stupirono i contemporanei, ritenendosi benevolmente diversi, così come questo libro sconcerta il lettore che si ritenga estraneo ai comportamenti narrati ma nei quali percepisce lo specchiarsi della propria sporca coscienza.
Paolo Codazzi
Il link alla recensione su I libri di Mompracem: https://bitly.ws/34QkN
È nato a Catania nel 1977. Dopo la maturità classica si laurea in Legge e successivamente consegue un Master di secondo livello in Criminologia. Da oltre vent’anni fa parte del comitato organizzativo del Premio Brancati. Film-maker indipendente (ha collaborato, fra gli altri, con Lucio Dalla) ha all’attivo diversi riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale. È autore de Le incompiute smorfie (2014), Avaria (2020) e de La banda Brancati (2021). Nel 2023 ha realizzato un docufilm con protagonisti Giuseppe Lo Piccolo, Marino Bartoletti e altri importanti attori del palcoscenico nazionale. Per Arkadia Editore ha pubblicato Il buio delle tre (2023).