Disequilibri tra realtà e desiderio: “Uccelli di fango” su Ork
Il pianeta Ork riprende il suo viaggio e prova a farlo coerentemente a un percorso già ampiamente tracciato (il blog ha da poco festeggiato i suoi primi 4 anni di vita), alla vista del quale è abbastanza chiaro che non sono di nostro interesse i massimi sistemi, ma quelle nicchie di valore all’interno delle quali sappiamo di potere trovare pezzi di quello che siamo o di ciò che vorremmo essere. In fondo, l’estrema varietà della declinazione letteraria è parallela alla moltitudine delle nostre strade, con l’unico appunto che certi scarti qui si compiono anche in funzione di un’incapacità di contenimento del nucleo universale di una storia, che è anche una strada, che è anche un genus, ma mai una species. Il libro della odierna ripartenza si muove nello spazio di cui sopra, tra coscienza di realtà e desiderio, in quella pausa divisoria che scinde aritmicamente in due il sospiro, quello che nasce dallo sbattere del secondo contro l’antagonismo della materia. Ce lo spiega piuttosto bene l’autore, Santiago Rusiñol, in un breve, ma esaustivo comunicato al lettore, che introduce la raccolta di storie di cui si compone “Uccelli di fango” (a cura di Amaranta Sbardella), nella collana Xaimaca di Arkadia Editore: “Gli uccelli di fango sono per me le persone sbagliate. Hanno ali pur non avendo piume, sentono il bisogno di volare in alto anche se un peso gli impedisce di farlo. Quel peso è il fango di cui sono composte, lo stesso fango con cui Dio ha impastato l’uomo. Lo spirito le innalza verso l’alto, mentre la zavorra della materia le tiene inchiodate a terra. Volerebbero pure, ma così facendo sarebbero costrette a trascinarsi dietro sé stesse”. Dunque, in qualche modo, è la loro stessa natura a impedire che spicchino il volo, così come è nella loro identità il tracciato del potenziale volo che colma il vuoto delle loro esistenze nella forma propulsiva del desiderio senza che si traduca nella dimensione compiuta della realizzazione del sogno. Allora, uno stare nel mezzo, sospesi e sospiranti, perché la materia è talvolta di ostacolo all’accordo di un’esistenza con il suo potenziale di nascita.
Succede perché si nasce nel posto sbagliato e le necessità di sopravvivenza sono talmente radicate nella conduzione del regime familiare che non resta che cedere alle regole di mercato, vendere un figlio talentuoso, lasciarlo in balia del pubblico, lasciare che rinunci a sé stesso per andare incontro al godimento degli altri e alla sua morte. Dunque, lo scarto familiare che impedisce di coltivare sé stessi, che, nel blocco delle vie possibili e inascoltate del talento che è identità, radica a terra la propria creatura che si fa pesante e cosciente del proprio peso a tal punto da decidere di morirci dentro. Succede perché, anche se non si nasce nel posto sbagliato, si genera un proprio nucleo familiare le cui esigenze finiscono per piegare la propria natura umanitaria: dunque, un tradimento imposto dalla sopravvivenza altrui in uno schema paradossale dentro cui l’identità originaria cambia forma, rinuncia all’ortodossia della sua primaria manifestazione, cede al principio di realtà, diventa altro dalla purezza immacolata della partenza per declinarsi in una connotazione spuria che è garanzia di salvezza dell’altro in quanto figlio. In un umanesimo rivolto verso sé stesso. Giustificazione manipolatoria di un tradimento che, seppure imposto, è avvenuto, sancito dalla realtà che distorce le premesse e comprime nel fango. Succede anche perché, nonostante non vi siano condizioni, di partenza o nel mezzo, che ne ostacolino il volo potenziale, si sceglie di estremizzare una scelta rimanendone incastrati, perché, in un apparente paradosso, se cedere alla materia produce soluzioni spurie di tradimento più o meno evidente in funzione dell’arte manipolatoria con cui ci raccontiamo noi stessi, mantenersi in algida posizione di partenza, magari fedeli a una vocazione, genera il blocco dell’Anima, uno spaesamento direzionale che è morte prima ancora che l’Anima, post-mortem, possa prendere coscienza del martirio inflittole dal corpo che dalla materia si è tenuto talmente distante da esserne vittima. Succede perché non si è disposti a vedere quello che accade in grado di modificare l’assioma di partenza. Vittime del primario pensiero non vediamo la vita che ci passa sopra o la morte che aleggia e quello che l’una e l’altra lasciano nella percezione dell’esistente che rimane, non riusciamo a comprendere ad esempio che “non c’è una patria seconda, e che patria non è solo quella in cui si è nati, bensì anche quella in cui si è vissuti, perché patria è “anche quella dove si è andati a lottare, ad amare, a soffrire, a trascorrer la giovinezza e a piantarvi radici d’amicizia e piante di simpatia”. Succede perché, anche se si vuole il sole, talvolta bisogna vivere di pioggia, perché scegliere di vivere di una passione comporta sacrificio e dedizione, competenza, dove conoscere troppo o troppo poco è fine assicurata, e ostinazione, ascolto e mediazione nella rarefazione di un desiderio troppo grande, quel flusso di esperienza dentro cui sondare l’esistenza eventuale di un talento che con la passione si accordi in un connubio armonico che è, alla fine dei giri, la realizzazione di un sogno. Succede perché talvolta la forma espressiva di un talento si muove, in un grafico potenziale, in stretta relazione con la vita e il suo andamento, ma in forme inversamente proporzionali, per cui la felicità deve bastare a sé stessa e portarsi dietro la rinuncia alle manifestazioni artistiche o talentuose. Il principio di realtà irrompe nella sua carica vitale e spazza via la poesia, l’arte, la creazione generata dalla mancanza e dal desiderio quale stimolo poietico, senza per questo precludere l’accesso alla bellezza di un ricordo latore di sofferenze e portatore sano di note nostalgiche in cui è una delle letture poetiche della vita. Succede perché ci identifichiamo talmente nelle nostre attitudini da non riuscire a staccarcene fino a morirne, perché ci ancoriamo alle sicurezze che ci identificano, dentro cui sappiamo per certo di essere e finiamo per trascurare le infinite possibilità di esistere che stanno fuori dal nostro rassicurante raggio d’azione. Dunque, qui non la realtà che ostacola, ma la scelta di non penetrare quella porzione di realtà che condurrebbe al rischio fallimentare della percezione di quello che non siamo. Succede perché accediamo a una dimensione per effetto di uno scarto che non sappiamo interpretare come manifestazione di un deficit e diventiamo latori di un risentimento verso chi lo scarto dalla vita non lo ha subito. Non rinunciamo, in qualche modo, all’idea di non essere ciò che avremmo voluto e trasponiamo nel piano di vita che ci è stato accordato tutta la carica distruttiva che un sogno mancato porta con sé nell’assenza di un riconoscimento di limiti in cui è racchiusa la nostra ostinazione e il volto cattivo delle nostre storie che, solo a guardarlo, ci renderebbe liberi di poter essere migliori. Ma questo è il terreno degli uccelli di fango e non c’è spazio per chi, in forme libertarie, pur nella rinuncia a un sogno, è riuscito a volare. Succede perché, nonostante la vita ci offra l’opportunità di sondare l’eventualità di una qualità talentuosa, non sappiamo resistere al fascino del delirio della passione che ci oscura lo sguardo rendendoci ignari viandanti delle nostre mancanze o, più semplicemente, perché, nel tentativo di dominare la natura, perdiamo di vista il male del prossimo da cui veniamo travolti o perché la velocità del tempo che scorre sulle nostre vite travolge il nostro paziente tentativo di ascoltare il passato e, monadi in un’era che corre verso un futuro inesistente, ci si dimentica del passato dentro cui saremo sepolti per sempre e finiremo senza un’illusione di foscoliana rimembranza. Succede perché la nostra solitaria e precaria coscienza di noi si incontra con l’incapacità dell’altro di vederci e finiamo annegati nel pensiero altrui perché non abbiamo avuto la forza di scorgerci in autonomia, al di fuori degli specchi riflessi in cui si srotola la dinamica dell’esistenza. Succede perché siamo talmente vittime delle nostre dipendenze da non riuscire a scegliere neanche di morire o di vivere fuori dalla identitaria condizione di malattia, rimanendo sospesi tra l’origine e il baratro. Esiste però in questa carrellata di storie rapide, dall’andamento da favola esopica, un racconto posto quasi al termine che pare, per voce e nucleo, volersi porre fuori dai giochi in una sospensione che è più di giudizio che di spazio, cercato e narrato. “L’uomo dei cani” è un uccello di fango con “la pazienza e la dignità del povero”, un uomo zoppo, gobbo, mezzo cieco e dalla salute precaria. Un uomo che non aspira ad essere diverso da quello che è e che, circondato da un gruppo di discepoli dalla natura canina, girovaga in un movimento circense di perdita e nostalgia, al termine del quale la morte del suo allievo più fidato lo apre alla coscienza della vera cecità, quella solitudine cara agli uomini di strada, quelli che non si aspettano più niente dalla vita, che non hanno desideri perché il futuro è condensato nella sopravvivenza quotidiana, dove lo stupore è la gioia fugace di una compagnia di ultimi e il desiderio un accartocciato sogno in cui ricordare la bellezza di un tempo pieno di un insolito accordo: un uomo, un cane e la vita nella sua tragica e amorevole ricorrenza.
Mindy
Il link alla recensione su Mork Mindy Ork: https://bit.ly/3lujoor