Rosario Palazzolo


Caprarica, bellomo e Anna Giurickovic Dato: tutte le stelle dell’“Etnabook”

Il Festival del libro e della cultura svela gli ospiti di un programma ricco di eventi, di scena dal 25 al 27 settembre a Catania

Etnabook, il Festival del libro e della cultura, co-organizzato con il Comune di Catania, è pronto a svelare al pubblico tutti gli ospiti che saranno protagonisti di questa edizione 2020. Per tale ragione, domani alle 10, nella Saletta Sant’Agata del Palazzo della Cultura di Catania, in via Vittorio Emanuele II, 121, sarà indetta una conferenza stampa di presentazione. Interverranno il vicesindaco di Catania, Roberto Bonaccorsi, l’assessore alla Cultura e alle Politiche scolastiche, Barbara Mirabella, e il presidente di Etnabook, Cirino Cristaldi. A moderare l’incontro sarà la giornalista Sara Adorno. Duranate la conferenza, dopo i dovuti saluti istituzionali, verrà esposto al pubblico il programma delle tre giornate del Festival con tutti i prestigiosi ospiti, gli eventi collaterali, le librerie aderenti, le case editrici che hanno sposato il progetto e i finalisti del prestigioso Premio Letterario “Cultura sotto il vulcano”. Tra le anticipazioni, va menzionata la presenza di Antonio Caprarica, Barbara Bellomo, Rosario Palazzolo, Claudio Pelizzeni, Sara Rattaro e Anna Giurickovic Dato. La partecipazione all’incontro è aperta a giornalisti e cittadini. Etnabook, anche quest’anno, pur con le incertezze dovute all’emergenza Covid-19, ha inteso fortemente essere presente tra gli eventi culturali della città, forte di un richiamo che risponde alla necessità e all’importanza del ruolo della cultura in tutte le sue forme e, in questo caso, alla Letteratura e alla scrittura in genere per il rilancio di una società che ha sete ed eventi di forte richiamo culturale.



QUELLA VITA DI ME**A DI CUI ANDARE ORGOGLIOSI. BECCATEVI QUESTO CAPOLAVORO: SI INTITOLA “LA VITA SCHIFA”, LO HA SCRITTO ROSARIO PALAZZOLO. PER FORTUNA, SI TIENE ALLA LARGA DAI ROMANZI ITALIANI DEGLI ULTIMI TRENT’ANNI

Questo è solo il parere di un autore, di uno scrittore che decide di occuparsi di un altro scrittore. E per quanto emendabile, questa puntualizzazione diventa necessaria quando uno come me (che ha fatto dell’integralismo estetico la propria religione) incontra un romanzo come La vita schifa (un’opera che diversi critici avranno chiuso a pagina tre, ma che proprio per questo merita un coraggioso approfondimento di cui spero di essere degno). Rosario Palazzolo non è uno scrittore puro. È un attore, tra le altre cose nel cast de Il Traditore di Marco Bellocchio. Ma ha sempre scritto monologhi e testi teatrali, racconti e romanzi. Ed ha sempre letto, essendo costretto a farlo per mestiere (gli scrittori possono bluffare sulla loro formazione, gli attori no perché i copioni non si possono improvvisare). E la prima sensazione che mi è venuta addosso, immergendomi ne La vita schifa, è che le letture di anni di palcoscenico si siano stratificate con una magnifica casualità, si siano sovrapposte come placche tettoniche in una specie di patchwork, raccogliendosi intorno a una trama di per sé non molto originale – sebbene frutto di una lodevole intuizione – fino a collocarsi in precise cavità coniche come la kriptonite di Superman. Ognuna al suo posto, con pochissime eccezioni. Questa perfezione involontaria, quasi inconsapevole, fa de La vita schifa (Arkadia Edizioni, collana SideKar diretta da Ivana e Mariela Peritore e Patrizio Zurru) uno dei libri più belli letti negli ultimi anni.

Che Dio ci liberi dalla trama

Liberiamoci subito della presenza/assenza di Ernesto Scossa, killer di mafia che – una volta morto, anzi proprio in qualità di morto ammazzato – guarda la sua vita dal di fuori e la radiografa con lo scanner delle parole. Ne scaturisce una confessione amarognola, un atto d’accusa verso il mondo che respinge le persone in un angolo e verso sé stesso in quanto angolo del mondo. Ma non è questo che m’interessa evidenziare del romanzo, quanto la sua estetica e la sua lingua. Elementi che combinati diventano musica, giri di frasi che finiscono sempre nel modo giusto, senza mai una sbavatura, grovigli di pensieri misurati persino nell’abbuffata di aggettivi, schiocco di note che nascondono l’invadenza del racconto e fanno sembrare tutto così adeguato, necessario, puntuale come la morte (appunto). Scritto nel siciliano vero – non la lingua di Camilleri, ma un siciliano così vero da azzannare mentre lo leggi e lo sbagli – di chi a Palermo deve tutto, La vita schifa attraversa le stagioni di questo Ernesto con la presunta anarchia e la rinnegata lucidità dei veri artisti. Di chi sa dove condurre il Lettore, perché padrone della storia e libero da ogni compromesso commerciale. «(…) mi ricordo di lei distesa, piccola come le cose minute, mi ricordo che allungo una mano per toccarla e nel mio pensiero, nel mentre che la tocco, di colpo spariscono tutte cose, come se il padreterno ha deciso di voltarci pagina, era l’ottantacinque e io avevo quasi nove anni, nove anni, e cosa potevo saperne a nove anni, delle cose che cambiano, come potevo figurarmi le rivoluzioni del tempo che fanno scoppia lo spazio, tipo certe telenovele che si guardava mia madre, dove a un certo punto sparivano tutti, pure le città: sabrina morì nell’ottantacinque, il vecchio coi baffi se ne andò in pensione e il bar cominciò a vendere pure patatine, mia nonna la portarono al ricovero e io cominciai a odiare il fuxia, e i capelli annodati». Sorvolando sull’interpunzione, nel senso che sono davvero poche le virgole non necessarie al testo, il romanzo è quasi tutto avvolto in queste nuvole narrative straordinariamente brevi, veloci ed eroiche. Ecosistemi che non hanno bisogno di nulla e che nulla chiedono al Lettore, se non di fidarsi della scelta che ha fatto. Ecco, Rosario Palazzolo ha il merito di onorare quel patto non scritto – invece andrebbe stipulato ogni santo giorno, ad ogni scontrino emesso da una libreria – tra Lettore e autore. Non promette nulla, libera subito dall’orgasmo della trama – pronti partenza svelata, morto che parla – eppure accompagna per mano lungo strade strette e incantevoli, ai cui lati non ci sono stese le calze degli operai ad asciugare ma passati prossimi, trapassati, indicativi strabici e futuri anteriori che disorientano senza smarrire, incalzano senza spaventare. La vita schifa quasi non ha trama, ed è un bene che Editore e Curatori abbiano favorito questa condizione senza imporre – come forse avrebbe fatto qualsiasi altra casa editrice di medio/grande entità – una soluzione storica e filologica, una continuità narrativa prossima al severo sviluppo degli eventi. Palazzolo si fa dirigere dal testosterone, peculiarità che impone anche al suo personaggio, e utilizza la virilità come indicatore di una bussola: punta là dove c’è da fottere, oltre che da uccidere, e in questa rincorsa semiseria e drammatica allo sticchio si snoda una personalità rara, un personaggio senza carne, quasi spirituale, un uomo del quale – grazie al cielo – nessuno si ferma a dire com’è fatto e cos’ha detto, perché al Lettore interessa solo farsi attraversare da Scossa.

Nemmeno letto al premio Strega

La vita schifa è stato segnalato, più che opportunamente da una brava filologa come Giulia Ciarapica, all’ultimo premio Strega. Nemmeno preso in considerazione, anzi conoscendo i meccanismi forse nemmeno sfogliato dai giurati, il romanzo non è entrato in dozzina. Non lo faccio notare per stupore, ma perché i limiti di questi meccanismi sono così evidenti che, se avessero letto La vita schifa, i componenti del comitato direttivo si sarebbero accorti che questo libro si tiene alla larga da tutti i romanzi italiani degli ultimi trent’anni. Non è un romanzo banale, non è un romanzo borghese né noioso, non è romanzo sulla storia del Paese – che qualcuno ci liberi da queste sofferenze – e non è nemmeno il romanzo di un autore mandato dal Picone di turno: PD, Forza Italia o Sinistra radical chic che cita Hegel con disprezzo e legge Fabio Volo. Se lo avessero letto, quelli dello Strega avrebbero notato che La vita schifa è un capolavoro perché non ambisce a sopprimere nessuno dei difetti su cui si lavora per mesi nelle scuole di scrittura, non asseconda le pulsioni degli editor di far chiarezza dentro pagine in cui non ci sarebbe nulla da chiarire, non strizza l’occhio alle versioni più becere dei gialli verso cui da una dozzina d’anni proviamo una pulsione erotica tanto potente quanto ingiustificata, non apparecchia frasi memorabili con l’ambizione che finiscano in Smemoranda o nelle fascette editoriali che dicono cose tutte uguali e inutili allo stesso modo. La vita schifa è un capolavoro perché non ha alcuna ambizione di esserlo, perché non soffre della febbre sottocutanea dell’eternità. «Grazie molte, e sono io che ti devo ringraziare, gli avrei detto, a questo, perché soldi ce n’erano rimasti pochi visto che avevo chiesto a katia di non prenderne alla banca ché se uno deva andare a morire mica gli servono, e poi erano soldi dell’altra vita, c’avevo detto, e l’altra vita era finita, e per primo dovevamo crederci noi alla nostra morte o qualcosa del genere, mi pare, e così, il giorno dell’epifania, dopo l’applauso, tutto il paese è venuto a presentarsi con noi, tutti in fila con io sono tizio e io sono caio, e porco il precipizio erano dieci giorni che la gente sapeva che eravamo a apecchio e manco un saluto e adesso eccoli tutti apparati come se eravamo apparsi dal nulla in quel momento là». La vita schifa è straordinario per tante ragioni: soprattutto perché ignora la bigotta scuola italiana, quel retrogusto cattocomunista che ne immobilizza ogni (vera) evoluzione dai tempi di Ennio Flaiano. Senza storia, senza protagonisti, senza artefici, senza vincitori e vinti, ma con la forza della vita (sebbene schifa) che da sola basta a spingere un romanzo che avrebbe meritato molto di più quello che finora ha avuto.

Davide Grittani



Le riflessioni post mortem di un killer della mafia

Io credo solo nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo per me è il senso dello scrivere”. Credo che questo pensiero di Ennio Flaiano sia stato sposato in pieno da Rosario Palazzolo nel suo ultimo libro La Vita Schifa edito da Arkadia. Il suo stile a volte quasi privo di punteggiatura, come un flusso di coscienza, travolge il lettore. Lo sorprende, non lo molla, fino alla fine e ti diverte anche con quelle inflessioni dialettali siciliane. L’incipit è già un primo dono: “Quando sono morto io si fece festa, una festa stramba e inutile ridicola come le cose ridicole, una festa che ognuno se ne stava a casa sua a gioire in silenzio…”. Ernesto racconta la sua vita, la racconta da morto, un anno dopo. È un killer scelto dalla mafia, prima da ragazzo e poi da uomo, per andare a risolvere questioni fuori dalla Sicilia. Ma è morto davvero Ernesto? Non importa per il lettore. Con la sua lingua viva e mischiata dice quello che l’autore gli pone nei pensieri. Ernesto così ci racconta la sua storia. da morto è come una radio. La radio fa un ronzio di vita e di morte: “… e io pure avevo provato una gioia incapita e una paura così, come se tutta la smania che sentivo, tutto quel bisogno attaccato, quella gobba improvvisa, mi avrebbero potuto soltanto morire, come del resto è successo”. Un libro sulla colpa e sull’impossibilità di redimersi, ricordando nei temi il capolavoro di Dostoevskij: Delitto e Castigo. “L’ammazzatore” riflette sulla colpa e la redenzione. Propone un antidoto alla colpa, la sottopone a molte attenuanti e giustificazioni, la uccide e la seppellisce. Deve essere esposta, invece la colpa, su un piedistallo perché non la si dimentichi se ci ricapita di vivere ancora. Il siciliano e l’italiano sono fusi e nasce una terza lingua. Lo stile datoci da Rosario Palazzolo, con il suo amaro sarcasmo, lo rende unico e conia nuove parole. Vocaboli che s’incrostano di realtà, rompono le righe e si liberano disordinatamente nelle piazze e nelle vie tra la gente. Si allentano la cintura e cravatta e mostrano la lingua e si sporcano le mani. Con le mani sporche e insozzate le parole di Palazzolo ci fanno riflettere sulla morte e sulla vita, nostra e altrui.

Maria Laura Labriola



La vita schifa

È tra le proposte per il Premio Strega 2020 La vita schifa, di Rosario Palazzolo, storia di introspezione psicologica originale, che non fa sconti al lettore. Un uomo racconta, dopo essere morto, il suo ultimo anno sulla terra. Si chiama Ernesto, è palermitano, e nella vita ha scelto di essere un “ammazzatore”. Ora che è defunto, e può guardare tutto da una prospettiva diversa, torna con la memoria alla sua infanzia disagiata, all’adolescenza e alla giovinezza scarse di prospettive, alla promessa illusoria di un riscatto. In un flusso di coscienza cupo ma anche pieno di giochi di parole, di espressioni dialettali, di ironia e digressioni, l’autore parla della colpa che non trova redenzione, e che andrebbe annoverata senza sconti tra i grandi fallimenti dell’esistenza.

Eleonora Molisani

 



La vita schifa, il festival dell’ossimoro di Rosario Palazzolo

«Quando sono morto io si fece festa, una festa stramba e inutile, ridicola come le cose ridicole, una festa che ognuno se ne stava a casa sua a gioire in silenzio, una festa senza brindo, una festa muta, una festa che se mettiamo uno passava di là non se ne accorgeva che c’era quella festa, era una festa cacchia, una festa senza cerimonie, una festa guasta[…]»

Rosario Palazzolo è da sempre un portatore (in)sano di linguaggio. Chi abbia letto i suoi precedenti romanzi, cito qui il meraviglioso Cattiverìa (Perdisa pop 2013) – un libro nel quale il linguaggio veniva reinventato pagina dopo pagina, fondendosi e scomponendosi per riscoprirsi diverso. Il dialetto siciliano, le sgrammaticature e l’italiano si reggevano tenendosi per mano, a volte si abbracciavano, altre si prendevano a schiaffi e lo facevano dentro una corsa di punteggiatura stesa a perdifiato. Una meraviglia. La stessa cosa, Palazzolo, che è anche drammaturgo, attore, regista teatrale, la fa quando scrive per il teatro, consiglio agli appassionati di andarsi a cercare gli articoli o i video che raccontano di Letizia Forever, una delle cose più affascinanti e magiche che siano andate in scena negli ultimi anni in Italia.

Quindi per raccontarvi La vita schifa (Arkadia, 2020), il libro più recente di Palazzolo, bisogna partire proprio dal linguaggio e dal fatto che lo stile conti molto più della trama. Come dice il grandissimo Rodrigo Fresán è lo stile che fa l’autore, la struttura è importante, la trama è secondaria. La lingua fa il resto.

Lo stile, allora. Palazzolo scrive in maniera accurata, precisa. Lavora contemporaneamente sulla singola parola e sul complesso della storia che vuole raccontarci. Le parole, i verbi, la punteggiatura diventano modulabili, si stringono, si allungano, suonano. Non si accontentano di descrivere una scena, o un personaggio, la assecondano e la cambiano. A ogni termine pronunciato non basta stare in bocca al protagonista ma gestirlo, starci insieme, così che ogni personaggio, dal principale a quello che compare in una sola pagina, diventa un’estensione della lingua, un complemento della parola, quando c’è un verbo è lui stesso il verbo, non nel senso religioso ma nel senso della letteratura. Questo fa Palazzolo, questo a noi interessa.

Le parole scelte, le frasi composte, si mettono a fare una corsa velocissima nelle pagine, le virgole si susseguono, le principali e le secondarie si nutrono l’una dell’altra, le subordinate comandano, le maiuscole quasi non esistono perché non servono, perché ogni parola è mangiata, sputata, se amore è con la minuscola perché non può esserlo palermo?erò ci ho messo dieci anni per leggerla e per capire che questa era una storia da raccontare.

Mia nonna era stile amandalìr, però più rotta, mezza corta, fatta di una specie che non si capiva se era femmina oppure no, per primo perché c’aveva la voce grossa, a uso canina, che pure mio nonno ci tremava, e poi perché si truccava tutta rossetto e occhi pitturati che io non ce li ho visti mai, gli occhi veri, a mia nonna, e difatti quando camminava per la strada, pure se tutti si abbassavano la testa per la paura, in fondo sghignazzavano sicuro, e lei manco una felicità, c’aveva nel senso di dimostrarla, e mai una parola bella per nessuno, e soprattutto per me, che ero quello venuto male nella famiglia, il fesso di testa, e infatti io, quando ero piccolo, mi pareva di essere il più sbagliato, l’errore costruito persona […]

La storia, per un attimo. Ernesto racconta la sua vita, la racconta da morto, un anno dopo, un anno preciso, sputato, come direbbe lui, da quando è morto. Ernesto è l’ammazzatore, l’uomo, e prima ancora il ragazzo, che viene scelto dalla mafia per andare a risolvere questioni fuori dalla Sicilia. Ernesto va, trova chi ha fatto lo sgarro, o chi è soltanto parente di chi commise il torto, magari venti, trent’anni prima, e gli spara, poi torna in Sicilia. Ma è morto davvero Ernesto? Non importa, è secondario, al lettore deve importare la prima persona, il narratore Ernesto che dice, con questa lingua viva e mischiata, quello che Palazzolo ha pensato per lui, e Ernesto racconta.

Dice di quando era piccolo, della sua famiglia, di sua madre, di suo padre morto, del nonno, del lavoro in campagna dallo zio, dalla faccia che cambia nel tempo a ogni carta d’identità che ha dovuto rifare. Per ogni cambiamento c’era un motivo, un motivo che poco dopo è fallito. Dice di quando lavorava la terra e gli piaceva, di quando lo vennero a prendere, dice della prima pistola. Fa avanti e indietro Ernesto, prima è morto e dopo è vivo, e dopo è di nuovo morto e parla e dice. Le fidanzate, i fumetti, il servizio militare, i treni, le ammazzate. È un assassino Ernesto, ma è pure un buono, uno che si è trovato dentro le cose e non ne ha mai scelta una.

Ernesto dice degli incubi, delle sue montagne piene di paure, dice dell’amore, di come ti venga a prendere e a portarti via, di come ti scelga, di come tu non possa farci niente. Di come non possa salvarti quando sei già perduto. Lo dice con un ritmo ossessivo e coinvolgente, lo dice che ti affezioni, lo dice che ti fa vedere un quadro esatto della vita, di come le cose siano spesso segnate, di come quasi sempre non siamo capaci, di come ritrovarsi con una pistola in mano sia questione di spazi di residenza, di quartieri da dove si viene, di famiglie dentro le quali si nasce. Da morto Ernesto è come una radio e da questa radio escono fuori i mafiosi e Ivano Fossati, la madre che gli dava dello scemo e Paolo Conte, Pupo e l’amore all’improvviso. La radio fa un ronzio di vita e di morte.

e io pure questo avevo provato, una gioia incapita e una paura così, come se tutta la smania che sentivo, tutto quel bisogno attaccato, quella gobba improvvisa, mi avrebbero potuto soltanto morire, come del resto è successo.

La vita schifa è un romanzo molto bello, uno dei più interessanti usciti in questa prima parte di anno; un libro destinato a restare sempre nuovo. È un libro sulla colpa e sull’impossibilità di redimersi. La vita, per lo scrittore palermitano, è un festival dell’ossimoro, solo che sono pochissimi i riusciti come quelli che venivano a Leopardi.

Se in Cattiverìa, Palazzolo, mischiava il dialetto all’italiano, inventando una lingua terza sospesa e vorticosa, con questo romanzo fa ancora un passo in avanti, il siciliano e l’italiano ormai sono fusi, sono un solo linguaggio, allora ci si può permettere di inventarsi parole nuove, cattive o buone, resistenti, durature, tutte battenti, tutte che ti lasciano la voglia di usarle. Succede questo con i libri o con gli spettacoli teatrali di Palazzolo, succede che mentre leggi o assisti (e anche dopo) ti viene voglia di parlare come parlano i tuoi personaggi, di possedere quella parola ritmata, quella frase precisamente suonata.

Gianni Montieri



Spericolato, entusiasmante, sconvolgente 

Apro questo libro scritto in uno stile originale, sontuoso e indescrivibile con quel misto di siciliano italianizzato e grammelot mentale e incappo subito, a pagina 10, in una frase vera e solida come il monumento a Garibaldi:
La precisione è un fatto complicato, un fatto che l’uomo lo fraintende, prendi la natura per esempio: ti pare precisa solo perché sei tu che c’hai bisogno della precisione, e così ti fissi che ogni cosa è messa come se fosse messa con un pensiero che l’ha messa proprio in quel modo lì, con fiori che viene la primavera e spuntano i fiori, gli alberi e il sole e la tempesta invernale, e invece sta tutta nell’imperfetto, la natura, è il contrario della precisione, ed è solo il tuo occhio che lo vede al contrario.
Ci avevate mai pensato? Io sì, ma vai a dirlo come Palazzolo. E chi è che ci parla in questa lingua arcaico-avveniristica? Un morto, naturalmente. Un killer. Un uomo buono e cattivissimo. Paura eh?
Nato con l’aiuto del forcipe che gli ha leso qualcosa nel cervello, Ernesto Scossa cresce in Sicilia essendo considerato il povero scemo di casa, ma ad un certo momento gli viene affidato il ruolo di killer sul Continente, perché in famiglia ognuno deve guadagnarsi la pagnotta e i primi risultati sono curiosamente positivi. Nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo, neppure lui incapace com’è di fare previsioni  a breve o lungo termine. Poi commette un errore. In fondo è un romantico: si innamora, cominciano i guai e lui non sembra proprio in grado di schivarli. E’ una sorta di cucciolo d Rottweiler agitato, aggressivo, ma innocente e immemore. E con la fissa della precisione (ecco che ritorna).
Perché c’è qualcosa di impreciso, fuori posto come le bottigliette di shampoo nel bagno di casa che hanno le etichette girate, in questo amore impossibile. Impossibile perché? Ernesto non cerca una spiegazione, ma una soluzione concreta: deve nascondersi con Katia per salvare la pelle di entrambi; lo “zio” non permette che i suoi ordini vengano ignorati ed Ernesto si è allargato un po’ troppo.
Ma io vi sto raccontando una storia, mentre questo libro è altro e adesso tento di spiegarlo.
“La vita schifa” ci dice che non esiste redenzione, che la colpa – ogni colpa – ce la portiamo incisa sottopelle, che ogni buona intenzione viene annullata dagli atti crudeli, o semplicemente indifferenti, che compiamo. Siamo tutti morti nell’anima, fin da subito, da quando svillaneggiamo un compagno di scuola a quando ci facciamo crescere il pelo sullo stomaco. Non esistono santi e madonne, sono colpevoli anche loro, magari per eccesso di bontà.
No, non è un giallo questo libro. E non ci fa passare qualche ora immemori del mondo che ci circonda. E’ filosofia sgangherata e sogghignante, è tragedia greca rappresentata in una discarica, è qualcosa che ti lavora dentro.
Mi sento di ringraziare Rosario Palazzolo per questo lavoro di cesello. Anche se fa male, molto. Forse proprio per questo.

Barbara Monteverdi



“La vita schifa” di Rosario Palazzolo al Premio Strega

Sarà l’attore e drammaturgo Rosario Palazzolo, con il romanzo “La vita schifa”, a rappresentare Arkadia Editore alla 74ª edizione del Premio Strega. Secondo la giornalista e scrittrice Giulia Ciarapica, che ha proposto l’opera di Palazzolo al più prestigioso tra i premi letterari nazionali, «La vita schifa è quello che, a tutti gli effetti, può definirsi un romanzo vorticoso, in cui la complessità della trama, la profonda introspezione psicologica del protagonista e la serrata costruzione degli eventi che si inseriscono in un’atmosfera di umoristica cupezza, si sposano con la tematica principale. Il fil rouge, come si intuisce dalle prime pagine e che regge le redini della faccenda, è il tema della colpa e la conseguente inutilità delle attenuanti, ovvero l’impossibilità di redenzione». Ernesto Scossa è un killer, un ammazzatore. Un uomo buono, ma al contempo cattivissimo. Freddo, ma con una sensibilità molto spiccata. Un uomo che ha vissuto un’infanzia povera di prospettive, un’adolescenza infame, una giovinezza sonnolenta e poi d’improvviso gagliarda fino al giorno della sua morte. È lui a raccontare – da morto – il suo ultimo anno di vita: si interroga sui perché e i per come, ci catapulta in un luogo realissimo, contingente, eppure fantasmagorico, surreale, segnato da una cultura al ribasso che propone speranze a ogni cantone solo per vederle sfiorire.



“La vita schifa”, un quasi monologo che riflette sulla colpa e sulla redenzione

“La vita schifa” del drammaturgo e scrittore Rosario Palazzolo appare come un lungo monologo drammatico dominato dal flusso ininterrotto delle riflessioni e dei ricordi. Il protagonista è un killer che racconta, da morto, il suo ultimo anno di vita, riflettendo sulla colpa e sull’impossibilità della redenzione…

 

“La vita schifa” del drammaturgo e scrittore Rosario Palazzolo appare come un lungo monologo drammatico dominato dal flusso ininterrotto delle riflessioni e dei ricordi. Il protagonista è un killer che racconta, da morto, il suo ultimo anno di vita, riflettendo sulla colpa e sull’impossibilità della redenzione…

La vita schifa, pubblicato da Arkadia, appare come un monologo drammatico dominato dal flusso ininterrotto delle riflessioni e dei ricordi. Scritto da Rosario Palazzolo – drammaturgo e scrittore oltre che che regista e attore – racconta l’ultimo anno di vita di Ernesto Scossa, un uomo buono e cattivo, freddo e altrettanto sensibile.

Il protagonista è un killer che ripensa ai suoi ultimi mesi, quando ormai è già morto, indagandone il perché e i per come. Ernesto riflette sulla colpa e sull’impossibilità della redenzione, perché la parola redenzione, a volerci ragionare, è la più distante dalla redenzione stessa; propone un antidoto alla colpa, la assoggetta a una miriade di attenuanti, la sotterra, la dimentica. E invece la colpa andrebbe annoverata, sempre, e esposta in bella mostra fra i fallimenti dell’esistenza, affinché non si abbiano sconti in qualsiasi futuro immaginiamo di dover ancora vivere.

Palazzolo (vincitore del premio per la Critica teatrale 2016, apparso di recente nel film Il traditore di Marco Bellocchio) racconta di un uomo che ha vissuto un’infanzia povera di prospettive, un’adolescenza infame, una giovinezza sonnolenta e poi d’improvviso gagliarda, fino al giorno della sua morte. La lingua, un pastiche linguistico che mette insieme l’italiano dialettale con le sue sgrammaticature e il siciliano, è una delle caratteristiche principali di questo libro, insieme alla forma che si ispira al mondo della drammaturgia.



Delitto e castigo del killer innamorato 

Il romanzo di Rosario Palazzolo racconta di un uomo prigioniero di una sorte decisa. Una lingua carica di suoni 

Si dice che l’umanità avrà forse una possibilità di salvarsi dall’estinzione sicura, qualora si attivasse per stringere parentele tra razze diverse, insomma se l’uomo imparasse a sentirsi fratello dell’albero, cugino della pietra e ad agire di conseguenza. Non è filosofia new age, ma pensiero biologico, figlio delle neuroscienze. Stringere parentele, ampliare la morale, ritrovare il senso del gioco della matassa di lana, quello per cui si fissa un nodo e si ricomincia: con un nuovo tempo e un nuovo spazio. Con più di un tempo e più di uno spazio. A tutto questo fa pensare “La vita schifa”, Arkadia Editore, l’ultimo romanzo dello scrittore, regista, drammaturgo, attore Rosario Palazzolo, talento siciliano in un poker d’arte.
La trama è l’unica cosa semplice: Ernesto Scossa è un killer, uccide per soldi mentre vive una vita già decisa ed è così fino a quando non si innamora di katia, “con la kappa” e il minuscolo nel nome, prima traccia sovversiva. Al di là della trama niente più è semplice e lineare. Nemmeno la lettura, anzi, occorre proprio stringere una parentela nuova, trovare un accordo con questa “sintassi complessata”, con una punteggiatura che non rispetta nessuna morale, proprio come il protagonista quando sputa nella bara della nonna senza rimorso, allo stesso modo le frasi srotolano senza punti, senza maiuscole e senza subordinate (poche).
Eppure, una volta trovato l’accordo, il protagonista immondo che grida un «grido sparolato» e sa riconoscere una «faccia buscagliona», diventa un fratello da seguire agli inferi, pur sapendo che sarà un viaggio senza ritorno. Viene in mente “Fight club” di Chuck Palahniuk per certi manrovesci linguistici e il ritmo da martello pneumatico sulla tempia; ed è curioso che il romanzo, poi un film fortunatissimo, dello scrittore statunitense sia stato pubblica- to prima come racconto breve, esattamente come “La vita schifa”, il cui primo vagito si ritrova ne “L’ammazzatore”, scritto tredici anni fa da Palazzolo e diventato poi uno spettacolo teatrale per maturare infine in questo romanzo. Ricorda anche, per la capacità di creare una lingua carica di superfetazioni di senso e di suono, la scrittura che fece notare il Premio Strega Tiziano Scarpa tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio.
C’è qualcosa di arcaico e insieme di futuristico nel lavoro di Palazzolo, così come in uno dei temi principali del romanzo: la colpa. Delitto e castigo? Ancora peggio, si tratta di quell’impossibilità di essere felici, peggio ancora liberi dalla propria (mala)sorte destinati a essere trattati come «le formiche che si schiacciano solo perché sono formiche, mica perchè disturbano, e io lo so che voi mi capite pure se adesso fate la faccia come se non mi capite, e mi dite pazzo, magari, o scemo, e mi capite perché siete prigionieri pure voi, formiche obbligate a starsene qui con me, adesso, a fare la loro schifa parte».
Non è facile la lettura se non si cerca di danzare con la lingua insieme con l’autore, fino a trovarsi stretti in un tango con il protagonista, a guardare la vita sulla carta che «è una confusione di cose che capitano, che potevano pure non capitare, che non ricapiterebbero…» e proprio quando il passo si è fatto sicuro e all’unisono, la musica finisce. E sarà un dispiacere acuto, come è giusto che sia. 

Eleonora Lombardo



Se l’amore prende la… Scossa 

Il libro. Esce oggi “La vita schifa” di Rosario Palazzolo che accompagna il lettore nella vita di Ernesto, l’amico di sempre, quello naïf e un po’ fuori dall’usuale

Rosario Palazzolo con “La vita schifa” (Sidekar/Arkadia) non lo leggi, lo ascolti. È una sensazione di straniamento quella che colpisce il lettore che inizia a sentire la voce del protagonista, Ernesto Scossa; lo segue pendendo dalle sue labbra e non dalla sua penna. Lo segue nella sua sintassi plastica che rifiuta le lettere maiuscole e che le lettere le trasforma da segni in suoni.
Ernesto Scossa è morto, non così i suoi ricordi, a partire dall’anniversario successivo alla sua dipartita. Successivo, sì, non ho sbagliato io, non pensate a male e attendete pazientemente di arrivare a leggere le ultime pagine. Non siate impazienti perché per Ernesto è: «come se certi ricordi mi fanno il gioco d’artificio nel cervello, e un fatto qualsiasi diventa un’esplosione di mille scintille che s’inseguono, che si uniscono, che formano colori diversi, e tutti i fatti che mi sono capitati nella vita diventano un unico fatto».
Torniamo al nostro… Ernesto, che già dopo un paio di pagine inizierete a pensarlo come l’amico di sempre, quello naïf diciamo, è un po’ fuori dall’usuale, ha pochi, pochissimi punti fermi dentro e fuori ma ci insinua il dubbio che la normalità sia una convenzione a cui poterci sottrarre. Nella sua imperfezione, però, ha delle regole: «La precisione è un fatto complicato, un fatto che l’uomo lo fraintende, prendi la natura per esempio: ti pare precisa solo perché sei tu che c’hai bisogno della precisione, e così ti fissi che ogni cosa è messa come se fosse messa con un pensiero che l’ha messa proprio in quel modo lì, coi fiori che viene la primavera e spuntano i fiori, gli alberi e il sole e la tempesta invernale, e invece sta tutta nell’imperfetto, la natura, è il contrario della precisione, ed è solo il tuo occhio che la vede al contrario…».
Così iniziamo ad andare avanti e indietro fra i ricordi del protagonista, un apparente disordine anche qui che però ci stuzzica a tendere l’orecchio e prestare attenzione a tutti i passaggi della narrazione. Non è che non ci si possa distrarre, ma è come un’autostrada con le uscite una in prossimità dell’altra che se ti distrai è un casino ma neanche poi tanto ché c’è sempre un panorama nuovo. A me questo è sembrato: un viaggio in autostrada con le uscite vicine vicine: le guardi tutte e pensi che forse dovresti prenderne un’altra. Solo che Scossa è un passeggero: «Per prima la nascita, che deve essere giusta, poi bisogna che ti scelgono, è tipo come se fosse un concorso nel quale ognuno deve dimostrare le proprie qualità, solo che questo concorso è un concorso silenzioso…».
Così succede che la mano dell’ammazzatore Ernesto Scossa si ferma solo davanti un amore improvviso, davanti a un corpo che doveva freddare e invece ha riscaldato con questo sentimento nuovo, inopportuno e che qualche pensiero lo porta: «Penso che il futuro che guarda al passato è sempre una confusione di possibilità inavverate, di cui solitamente non ti pigli la colpa, e invece la colpa sei tu…».
Palazzolo ci offre una lettura apparentemente leggera, con sorrisi che si aprono improvvisi davanti alle considerazioni di un personaggio che lo è anche per se stesso, per una serie di etichette che gli sono state appiccicate e che lo interrogano. Ernesto sembra fuggire al suo destino ma lo forgia, lo plasma: «perché quando la felicità fa i capricci e non arriva da sé bisogna fabbricarsela con l’invenzione».
L’ammazzatore non cerca né la redenzione né l’assoluzione. Nessuno di noi può redimere o assol- vere alcuno, compreso se stesso, sarebbe ipocrita. Scossa ammette: «se mi capitasse a me, non salverei a nessuno, penserei a salvarmi io» – e aggiunge -: «del resto è facile maledirsi, dopo, ma non vale: dopo ne abbiamo voglia tutti, raro che ci riesci prima». Vi lascio così, sospesi, perché Ernesto in realtà ha un’anima interessante e ‘sa fare i fiori’ e, come un fiore nasce, fiorisce e muore, nasce, fiorisce e muore finché non va a tagliarsi i capelli da Gioacchino.

Salvatore Massimo Fazio Letizia Cuzzola



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