Come poteva essere diversamente? Rosario Palazzolo segnalato al Premio Strega da Alberto Galla con il suo Con tutto il mio cuore rimasto per Arkadia Editore nella collana sideKar. Una lunga lettera di un bambino – Concetto Acquaviva – a Gesù. Una lettera profonda nella sua semplicità. Una lettera di domande senza risposte, di dubbi laceranti e importanti esaltati dalla purezza disarmante di un bambino, di osservazioni acute e giuste poste con estrema autenticità: «Gesù […] nei tuoi racconti ora che ci penso c’è sempre l’alleluia per il tizio ladrone nella croce che ti difende, il figliolo prodigo partito che poi ritorna, la porca maddalena che infine si pente, e mai un complimento per i nativi delicati, per quelli che fanno la retta via senza manco un briciolo di indicazione». E ancora: «Com’è che c’hai costruiti così, gesù bello, deficienti e codamoscia, perché non ci hai impastati con l’intelligenza giusta, il coraggio necessario, la raggia a tempo debito». E poi l’amore, quello che ci coinvolge, che si fa idealizzare fino a deluderci nel profondo quando si svela nelle sue forme più comuni: «Ci sono certuni che per quanto fantasticano sopra l’amore poi non riescono a innamorarsi mai di nessuno, e questo perché quando l’immaginazione è lasciata troppo libera diventa un pericolo grandissimo, ti fa sognare qualcosa senza che tu conosci davvero qualcosa». Un padre, una madre, un prete e un bambino. Il bambino, quello che rappresenta l’anima candida di chi conosce all’improvviso il male e se ne stupisce profondamente, enormemente, cercando spiegazioni nella fede più profonda, una fede semplicisticamente religiosa ma decisamente universale della quale solo un cuore giovane con il suo dolore può essere capace. Palazzolo ci regala un romanzo sulla verità nascosta, sulla mistificazione della realtà e lo fa attraverso una figura puro che professa speranza: «La maledetta speranza c’ha il brutto vizio di acchiapparti il cuore a tradimento, di succhiartelo, di smacchiartelo immediato, di non lasciarti neanche uno spiraglio aperto per la sporca realtà». Una sporca realtà inevitabilmente arriva. Con una scrittura potentissima Palazzolo ci dona una narrazione di destabilizzante bellezza e di labirintiche trame. Ci riempie di pugni e ci abbraccia continuamente lasciandoci storditi e frastornati. Già proposto da Giulia Ciarapica per il Premio Strega 2020 con La vita schifa (Arkadia Editore), con la proposta di questo libro nell’anno corrente Palazzolo si conferma una garanzia per le sue storie e per la sua magistrale e coinvolgente scrittura. Assolutamente da leggere.
“Con tutto il mio cuore rimasto”: alla ricerca del vero.
Se è vero che il lettore, per legge ordinaria, è parte integrante del processo creativo che origina da un’esigenza profonda di chi mette mano allo scrivere, con certi autori ciò parrebbe essere più vero, laddove non solo il nucleo della storia è tale da richiederne una partecipazione più attiva che altrove, ma anche la struttura si impone all’attenzione del medesimo più che in qualità di stimolo alla sua parte intellettiva, come specchio di una pluralità di livelli della narrazione dietro cui non è irragionevole pensare ci siano anche gradi di approfondimento differenti e tutti egualmente possibili. Come in un gioco, sta al lettore scegliere dove fermarsi esattamente o, parallelamente, comprendere fino a che punto gli sia consentito procedere oltre. In qualche modo, il romanzo che Ork oggi ospita si pone, nell’ottica di quella che è la socialità dell’opera d’arte (come l’autore ha esplicitato nella recente presentazione bolognese al Teatro Arena del Sole), come un continuo rimando al lettore, parziale artefice o quantomeno attivatore della potenzialità offerta dalla tensione drammatica della vicenda, la cui dimensione emotiva è di pari importanza rispetto a quella intellettiva, poiché l’una senza l’altra non è minimamente funzionale al percorso di ricerca della verità in cui si traduce una delle possibili letture del medesimo. “Con tutto il mio cuore rimasto”, edito da Arkadia, si spinge anche un passo oltre, includendo nella visione autoriale un’osservazione critica della società tutta, poiché Palazzolo riconoscendo la responsabilità del lettore, la dignità del ruolo agente che esso ricopre, stimola all’azione, all’attivazione del pensiero, smuove dalla fissità del nostro ruolo di silenti e inerti consumatori e ci induce più o meno sottilmente a credere che l’orrore del mondo intorno non sia esclusiva responsabilità degli altri o dei più alti in grado. A ben guardare, siamo tutti dentro. Che lo si voglia o no. E scuotere attraverso la drammaticità e la violenza della storia narrata e la complessità della ricostruzione di una pluralità di piani narrativi è la modalità che gli è congeniale, rinnovando, anche se solo in parte, il senso di spiazzamento generato dal romanzo precedente, il cui protagonista, l’indimenticato Ernesto Scossa, è bene impresso nella mente del lettore quale perfetto emblema della impossibilità di una reductio ad unum a conclusione di un qualsiasi tentativo umano di conoscenza del prossimo. La nuova creatura dello scrittore palermitano non fa rimpiangere la precedente, se non per un eccesso di ambizione costruttiva che, talvolta, pare travalicare la giusta dimensione funzionale all’equilibrio dell’opera. Glielo si perdona in relazione al bottino che regala al lettore intrepido e che include la creazione di un personaggio destinato alla medesima felice, quanto a resistenza nel tempo, sorte del suo predecessore. Per il resto, la felicità è una strana storia di fronte alla quale il tredicenne Concetto non sa che posizione prendere, salvo esserne investito tutte le volte in cui la sua visione speciale del mondo trionfa sull’orrore delle azioni umane, sulla violenza insospettabile di chi dovrebbe essere garante dell’ordine, naturale o superiore, delle cose e, invece, ne è principale artefice, della violazione del medesimo, in un sovvertimento di posizione dei giusti che spiazza e prepara il terreno alla fine dei sogni anche nelle anime più ingenue la cui specialità preserva dalla decadenza e dall’esaurimento terreno della potenza idealistica e affettiva, ma non per sempre (“Ché se uno se ne va in giro con la testa troppo spalancata, io credo, poi finisce che non campa più, finisce che ogni cosa che ci entra gli pare insopportabile, finisce che magari s’ammazza impiccato”). Il cuore è destinato a incrinarsi, a piegarsi su sé stesso, se fuori nessuno è in grado di accudirne gli esiti del suo costante lavorio, se l’amore che ne è nutrimento primario incontra l’ostilità del principio generatore materno, una sorta di abbozzo malriuscito di donna che non conosce le forme dell’accoglienza, non preserva dallo sconfinamento della liquidità emotiva perché essa per prima non ne ha fatto esperienza. Chiusa in una torre di falsa sapienza e verità precostituite in cui catalogare l’esistenza intera, essa tralascia obbligatoriamente, in conformità a un’esigenza egoistica di sopravvivenza personale, gli umori reconditi e tutto quell’apparato di istinti e desideri, di paure e fragilità che ne restituiscono l’anima, ma ne destabilizzano la portata, rivelando incapacità e negazioni a monte. Ma alla madre di Concetto, per cui tutto è risoluzione meccanicistica di eventi, dell’anima interessa quel poco che basta a garantirne la vita eterna oltre questo mondo dalle cui spire occorre difendersi, non perché inducano in tentazione, ma perché, facendolo, espongono il tentato al pubblico dominio, al giudizio inappellabile sulle forme, alla condanna che investe l’apparenza, al processo di soggiogamento alla verità ricostruibile alla luce dei fatti visibili. La madre è l’origine, ma anche la manifestazione del pensiero comune, il contraddittorio fallito, perché non esiste lo spazio del dialogo, solo l’assolutismo della verità che si radica sulle forme, ma l’identità quasi mai passa da esse se non per la necessità di spiegarsi agli occhi umani che le rincorrono per renderla comprensibile, leggibile, spiegabile, quell’identità. La forma è ciò che serve perché si passi dalla dimensione del cuore a quella dell’intelletto, ma è in questo transito che si perde qualcosa, l’anima, il senso profondo delle cose, quello che siamo veramente. E spesso la verità, ammesso ne esista una, è in quel complicato raccordo di materiale fluido che esorbita dalle forme, invade le nostre certezze, si fa beffa del giudizio altrui e ci rappresenta in un informe blob dal cuore ancora pulsante. Quasi terreno di un potenziale processo, il romanzo si sviluppa in una dimensione parzialmente diaristica, rivelando la composizione di un tempo che si annuncia drammatico attraverso la narrazione che si svolge in una serie di lettere rivolte a Gesù, metafora di coscienza laica e comprensione umana, di disvelamento di sensi reconditi e possibili prossimi orizzonti, nonostante e dentro la tragedia. E se il racconto principe è la confessione del potenziale imputato, si inseriscono nel tentativo di ricostruzione della “verità” le testimonianze indirette, perché filtrate dalla voce del reo, di chi accede alla vita di Concetto distorcendola, quasi mai alleggerendola. Una pluralità di voci che, unitamente al suo silenzio spesso dettato dalla coscienza che la parola è già una veste con cui stiamo addobbando l’accaduto e, pertanto, tradisce il vero nell’istante in cui esso si fa narrato, detto, pronunciato, restituisce più che l’opportunità di un contraddittorio, l’urgenza di norme e categorie concettuali in cui fare confluire gli accadimenti, pur di ottenere un esito, una verità processuale che nessuno, neanche il lettore più attento, potrà scavalcare in nome di quella storica destinata a rimanere sepolta. Esistono voci, punti di vista, sguardi, ma nulla approda all’inappellabilità illusoria con cui l’umano prova ad arrestare artificiosamente le infinite derive di un accadimento. La dimensione affettiva ed emotiva, però, non è mai tradita: essa non è funzionale all’approccio al vero, se non in parte, ma contiene l’origine, il movente, le ragioni che spingono al gesto, divenendo l’emblema dello scarto processualistico, ma anche l’accenno di una porzione di verità. E non è mai tradita non solo perché l’autore la mantiene viva fino all’ultima pagina senza scadere in allettanti derive emotive a vantaggio di un pubblico dalla lacrima facile, ma anche perché è Concetto a incarnarla pur nell’indurimento che la vita impone alla sua fragile consistenza di anima cristianamente destrutturata e nell’obbligo conseguente di trasformarla in una tensione crescente, in una ricerca, nello spirito di chi ricompone le tessere e cerca una giustizia possibile. Recita un passaggio: “Ché proprio la devono ancora inventare la parola capace di spiegarti quello che provavo, mi sentivo come se un rumore incredibile mi stava macinando da dentro, perché era davvero difficile fare i conti con una verità che non avevo previsto, che magari da qualche parte si muoveva, non dico no, mostrandosi appena appena, e io avrei dovuto almeno intuirla, perché la verità che si presenta un poco alla volta ti dà il tempo di abituarti il cervello, di barricarti il cuore, e mi dispiace tanto che non puoi capirmi fino in fondo, caro gesù, neanche con tutto il tuo santo sforzo, ma ti assicuro che quando agli umani gli capita una certezza scritta, quando hanno il tempo di rigirarsela, quando non possono più permettersi di ignorarla, fa un dolore che non resisti più al dolore”. Sintesi perfetta della fatica di adattamento a una verità imprevista, quella con cui il protagonista viene a contatto, quella che non avrebbe immaginato come tale e che è fonte di un dolore di tale portata da renderlo cosciente della propria inettitudine, della incapacità di buttarsi dietro le spalle l’orrore che, invece, torna in veste di monito di assenza di vie di fuga. Se Concetto rimane nell’immaginario del lettore, ritagliandosi un posto tutto suo, è anche perché Palazzolo gliene restituisce l’anima mediante l’attenzione, che si fa atto poietico, riposta nella lingua che, unitamente ai silenzi, non solo diventa concausa dell’impossibilità ricostruttiva di un’unica verità storica, ma l’espressione massima della forma di conoscenza della realtà da parte del suo latore, un ammorbidimento della durezza degli accadimenti quel tanto che basta a renderli affrontabili da un’anima fragile che entra nel mondo adulto quasi per inerzia.
Mindy
Il link alla recensione su Mork Mindy Ork: https://bit.ly/36L3Rxa