Parliamo del libro “Il lato nascosto delle storie” con Roberta Di Pascasio
“Attraverso la scrittura ho conosciuto me stessa, ho scoperto e chiarito le mie idee, ho iniziato a trascinarle fuori con decisione e fierezza e ho imparato a decifrare la realtà”.
Roberta Di Pascasio è una scrittrice che intende indagare le tante sfumature della realtà attraverso la narrazione. Io, che la conosco da qualche tempo e ho letto gran parte della sua produzione letteraria, non saprei definirla in un modo diverso. Mi pare che per lei la scrittura sia sempre stata un modo per conoscere meglio l’animo umano attraverso le azioni dei personaggi, gli atti nobili o perversi, i tradimenti e le debolezze, i momenti di forza e le piccole o grandi rivelazioni sulla nostra vita. Per fare questo, ci vuole bravura e coraggio, doti che a Roberta Di Pascasio non mancano. Adesso ha da poco pubblicato una raccolta di racconti, Il lato nascosto delle storie (Arkadia 2024), che è anche una sorta di romanzo perché tutte le storie dei protagonisti non solo sono legate tra loro, ma dipendono in qualche modo l’una dall’altra. Il risultato è uno scavo psicologico ed emotivo dei personaggi che non nasce da elucubrazioni vaghe, ma dalle loro vicende. Sono loro che vengono “scavati” dagli sviluppi dei vari fatti che gli capitano o che fanno accadere. A questo punto, dopo aver letto il libro, ecco che mi ritrovo a parlarne con l’autrice.
La prima cosa che mi colpisce è la frase di Jonathan Coe che metti all’inizio: dice che il linguaggio è un traditore. Ti sei sentita tradita dalle parole, oppure è il linguaggio che ti ha costretto a scrivere?
La frase di Jonathan Coe riassume perfettamente la storia del protagonista del primo racconto e il lato peggiore del suo dramma: non capire quale vile macchinazione ci sia dietro il suo arresto. Tradita dalle parole? Direi di no, le parole non mi tradiscono mai, “le amo, mi ci aggrappo, le inseguo” direbbe Neruda, semmai sono stata tradita da quelle degli altri, ingannevoli o manipolatrici, ma a chi non è capitato? Se devo risalire a un tipo di tradimento che mi ha spinto a scrivere penserei al contrario, ossia al silenzio. Sono stata una bambina riservata, accomodante, in psicologia sarebbe l’archetipo di Persefone, silenziosa, in disparte, incapace di far valere le proprie idee, ma al tempo stesso ricettiva, con una vita interiore ricchissima e colorata. Il silenzio era paura di esporsi, forma di timidezza, rifiuto del contrasto, ma veniva scambiato per fragilità e incapacità di lottare. Ho iniziato a leggere libri per vivere quanto nella realtà mi precludevo e ho iniziato a scrivere storie per dare voce a un’interiorità inespressa. Non per imbellettare la mia storia, per me è stato davvero così: attraverso la scrittura ho conosciuto me stessa, ho scoperto e chiarito le mie idee, ho iniziato a trascinarle fuori con decisione e fierezza e ho imparato a decifrare la realtà. Da allora la penna – così come questo libro – è l’antidoto al silenzio e al riserbo.
Comunque, questa tua serie di storie è anche attraversata dal tradimento, quello vero, no?
Esatto, un tradimento che può assumere varie forme e avere differenti motivazioni che spingono ad attuarlo: l’incapacità di accettare il proprio fallimento, l’ossessione per il successo, la propensione all’invidia o alla vendetta, l’idea che calpestare gli altri per arrivare alla meta è tutto sommato accettabile. Il tradimento è tra le cose che mi spaventano di più, soprattutto la possibilità che l’inganno venga da persone care. Credo che faccia soffrire non tanto l’atto meschino in sé, quanto dover accettare la propria ingenuità, l’averci creduto, aver donato una parte preziosa di sé a qualcuno che poi l’ha violata. Quando leggo la frase di Flaubert “non toccate mai i vostri idoli: la doratura si attacca alle dita” penso: e se la doratura fosse la nostra? Se a volte scoprissimo di essere più sciocchi di quanto pensiamo? Spesso la delusione non è per gli altri ma per se stessi, e forse è vero che perdonarsi è la cosa più difficile perché permettiamo noi di farci del male. Ci scopriamo ingenui, deboli, fiduciosi, o semplicemente non amati come pensavamo.
Cos’è che t’interessava narrare, questa volta?
L’ho capito soltanto quando ho finito di scrivere tutte le storie, scrivere mi aiuta a mettere in ordine i pensieri. Stavolta non sono partita da un elemento concreto – un’idea un argomento un personaggio – ma da qualcosa di interiore, da sensazioni, diciamo così, e da un modo di vedere la realtà che è un po’ cambiato negli ultimi anni. Il mondo in cui viviamo, che leggiamo su internet, che vediamo alla tv, mi pare così imbruttito, abbrutito… lo so, detta così mi fa sembrare una di quelle anziane che si lamentano “questo mondo non lo riconosco più!” Parlo dell’aspetto prettamente umano, è sempre più oscuro, prepotente, ogni idea o avvenimento viene spaccato a metà e si può dire solo sì o no, è giusto o sbagliato, è vero o falso, si creano schieramenti opposti per ogni cosa e i social facilitano questo approccio categorico e aggressivo, niente più vie di mezzo, sfumature, riflessioni, dire non lo so pare una colpa. C’è una compulsione a giudicare e a criticare, senza più spazio per i dubbi, la flessibilità, l’ascolto. Invece il mondo è pieno di sfumature e di punti di vista. Per questo mi interessava raccontare storie diverse collegate tra loro attraverso i personaggi – un protagonista di un racconto diventa un personaggio secondario di un altro, poi una comparsa e così via –, una sorta di romanzo a episodi: ognuno rappresenta un tassello che insieme agli altri forma un mosaico, l’intento è mostrare quanti punti di vista possono esistere di uno stesso spicchio di mondo e quanti lati nascosti della realtà e della vita degli altri non vediamo, non capiamo e non possiamo giudicare. Il “nascosto” del titolo può avere un doppio significato: sia nel senso di colpevole, negativo, ambiguo, sia nel senso di intimo, doloroso, protetto.
Scrivi in queste pagine di un ex carcerato, di un’insegnante, di una giornalista, di un giudice, e via così. C’è uno dei personaggi al quale ti senti più vicina?
Mi sento vicina a tutti, soprattutto alla loro parte ammaccata o nascosta. Ma se devo sceglierne uno, penso a Carolina: ha 12 anni e vive come dimezzata, da un lato la vita in famiglia e a scuola e dall’altro il mondo parallelo della fantasia, dei libri in cui si immerge totalmente come un palombaro che scende negli abissi, un incantesimo che la assorbe e la aiuta a sopportare meglio la realtà, soprattutto la solitudine e l’amarezza. La letteratura salva? Non sempre, anche in questo caso ci possono essere prospettive differenti. Se una ragazzina abbandonata a se stessa legge libri non adatti alla sua età, per i quali non ha la struttura psichica, la consapevolezza e la maturità che riescano a fungere da filtro, allora anche sognare e immaginare possono svelare il loro lato oscuro.
Un altro tema che mi sembra molto evidente è quello dell’assenza, della solitudine, dell’abbandono…
Sì, tra i vari temi che si intrecciano nei racconti troviamo la solitudine, a volte imposta dagli altri e a volte usata come difesa, c’è la mancanza che può essere intesa come una voragine in cui sprofondare o come una presenza che diventa abitudine o talmente familiare da costruirci intorno la propria vita, scopriamo l’abbandono subìto che diventa rabbia o annientamento, l’integrità che se portata alle estreme conseguenze si trasforma in intransigenza ottusa. In realtà ogni tema può essere ribaltato e visto da un’ottica differente e alla fine tutti i temi confluiscono in una domanda che riguarda tutti i personaggi: il destino esiste o è un’invenzione? Nella vita ogni cosa ha un senso, una direzione, le motivazioni hanno valore, le coincidenze uno scopo, le scelte sono determinanti, oppure è tutto banale e fortuito, un insieme di strade senza uscita e di incontri superflui? Esiste davvero un destino per tutti, costruito pezzo per pezzo dalle scelte, dalla famiglia, dal carattere, dalle paure, oppure ogni esistenza è puro caso, una ruota che gira e noi tanti piccoli criceti che corrono senza andare da nessuna parte? Essere un criceto impotente o credere nella volontà e nell’autodeterminazione?
Hai già provato con successo la forma racconto e la forma romanzo, ora hai deciso di scrivere un libro che non è propriamente un romanzo ma nemmeno una vera e propria raccolta di racconti. Perché?
Mi sono resa conto che l’incrocio tra romanzo e racconto era la forma narrativa perfetta per ciò che stavo raccontando: costruire una sorta di catena, fatta di anelli autonomi dal punto di vista narrativo ma che trovano il loro compimento nell’unione con gli altri, mi consentiva di narrare lo stesso spaccato di mondo attraverso diverse prospettive. Avere più libertà, più elasticità. Ma c’è anche un motivo meno nobile e molto più semplice: ho scritto quasi sempre romanzi e il tipo di storia che mi appassiona, il romanzo psicologico o di formazione, prevede uno scavo, una estensione e una complessità che nel tempo ho trovato faticosi a livello di investimento emotivo, di energia fisica e mentale; per due, tre anni seguivo le vite dei personaggi, li studiavo, scavavo nella loro psiche, nelle motivazioni, nei guasti, nelle contraddizioni, nelle gioie e nelle ferite, e alla fine di ogni pubblicazione mi sentivo sfinita, tanto che per mesi non riuscivo a scrivere più nulla. Avevo bisogno di depurarmi. Quando ho scelto la forma del racconto, anche se non tradizionale, mi sono sentita felice e molto curiosa, è bello cambiare, mettersi in gioco e rischiare.
C’è qualche autore contemporaneo che ti ha ispirato nella scelta della forma narrativa?
Per la scelta della forma narrativa no, nessuno di preciso, ma alla fine veniamo influenzati più o meno inconsciamente da tutto ciò che leggiamo e ammiriamo. Ho letto tante raccolte di racconti (non solo contemporanee) durante la stesura de Il lato nascosto delle storie, alcuni autori li ho riletti, come Carver o Richard Yates, altri sono stati una scoperta straordinaria, come Scommessa su un fantino morto di Irwin Shaw e Gesù dell’uragano e altre storie di James Lee Burke. Ma se posso citare un libro che non c’entra nulla con il mio progetto né con la forma del racconto, ma che mi ha letteralmente travolto e ammaliato, dico Lonesome Dove di Larry McMurtry: un colpo di fulmine, un romanzo che ne contiene altri dieci o un romanzo fatto di centinaia di racconti, un inno alla libertà, al coraggio e all’immaginazione di cui oggi abbiamo bisogno un po’ tutti.
Lavori in molti ambiti della cultura, scrivi, hai un’officina letteraria in cui organizzi incontri e laboratori, ti occupi di teatro e hai fatto la giornalista culturale anche in televisione. Cosa ti piace di più fare?
Mi piace tutto, in realtà. È l’amore per la letteratura declinato in varie forme, esperienze diverse ma in sintonia tra loro: mi appassiona scrivere, aiutare gli autori alle prime armi, recensire i libri che amo, far parte della giuria dei concorsi letterari, intervistare gli artisti che ammiro, scrivere articoli per i giornali, organizzare da anni un concorso per il teatro. Ma se devo scegliere due esperienze in particolare perché diverse da quanto fatto finora e perché caratterizzate da un lavoro di squadra che la scrittura in generale non prevede, ricordo con gratitudine la rubrica culturale in televisione con ospiti in studio e il progetto della trilogia fotografica e narrativa sulle bellezze storiche, artistiche e culturali della mia terra, l’Abruzzo.
Vivi e lavori in Abruzzo, pensi che stare lontani dalle grandi città come Roma, Napoli o Milano sia un privilegio oppure ti manca qualcosa delle metropoli?
Per stare in tema con il mio libro, condivido tutti e due i punti di vista: è un privilegio vivere in una terra magnifica come l’Abruzzo – ricca di natura, di storia, di pace – e fare qualcosa di buono in una piccola città come la mia, perché credo fortemente nell’importanza e nella necessità di promuovere cultura proprio dove ci sono meno possibilità e meno risorse rispetto ai grandi centri; al tempo stesso mi mancano le occasioni di cui le metropoli sono ricche, gli eventi, le mostre, le fiere. Ma amo viaggiare, quindi le distanze non mi spaventano.
Scrivi che ogni libro è un viaggio, cosa significa per te scrivere?
In aggiunta alla risposta che ho dato alla prima domanda, penso che la scrittura sia essenzialmente conoscenza, sia dal punto di vista del lettore che scopre o impara cose nuove, sia dal punto di vista dello scrittore, che si mette in gioco, si denuda, riflette su se stesso in relazione al mondo, e fa esperienza insieme ai suoi personaggi che si muovono e si trasformano sotto i suoi occhi, diventando ciò che all’inizio non pensava potessero essere. Un viaggio interiore dunque, e al contempo un viaggio reale fatto di connessioni, di tappe, di scoperte, di un dialogo con i lettori – quelli che ti leggono soltanto e quelli che incontri durante le presentazioni – e anche con il tuo editore: quando sei fortunato (e con Arkadia io lo sono davvero) ti sostiene, ti consiglia, ti fa viaggiare nel modo migliore.
Paolo Restuccia
Il link all’intervista su Storygenius: https://tinyurl.com/278acj7s