Paola Musa


Paola Musa racconta “La figlia di Shakespeare”

“Il diavolo non è lussurioso né ubriacone: è invece superbo e invidioso”. La superbia dei sette vizi capitali veniva considerata da S. Agostino un grosso peccato perché dalle sue parole evinciamo essere espressione di disobbedienza a Dio. Con “L’ora Meridiana” Paola Musa ha iniziato con Arkadia un progetto editoriale sui sette vizi capitali. Dopo L’Accidia nel suo nuovo romanzo analizza la Superbia. Alfredo Destrè è il protagonista di “La figlia di Shakespeare” sempre pubblicato per Arkadia Editore. Incarna la superbia nel contesto teatrale. Il superbo è un individuo che idealizza la sua immagine che vuole palesare agli altri, è un narcisista che conserva il suo io come un valore inestimabile rifuggendo quindi un percorso di trasformazione interiore. Ha 70 anni, e sente il pericolo dell’oblio e la paura di essere ricordato come attore di tv e non Shakespeariano. Gli si presenta un’occasione favorevole, risollevare le sorti di un teatro romano che non gode di buona salute. Usa i giovani quindi, anche se non li apprezza, per il suo scopo ultimo, ottenere un premio alla carriera. Ma quando si anela un momento di celebrità, un traguardo agognato, ciò che si ottiene non sono solo fattori positivi ma anche conseguenze negative. Un suo vecchio collega, Enrico Parodi, ribalterà il tutto e lo ricondurrà a ciò che è stato veramente. Dialoghi serrati danno la sensazione di assistere ad una rappresentazione teatrale. In maniera naturale si svolge la trama in un contesto sul palcoscenico. I personaggi vengono penetrati da una lama tagliente con l’intento chiaro chiaro di veicolare al lettore messaggi etici e morali. La struttura narrativa prende come spunto un vizio capitale e assume la dimensione di una metafora delle varie debolezze umane. L’autrice non giudica alcun personaggio e intrinsecamente all’argomento trattato pone il suo messaggio etico. In sole 123 pagine, con una complessità sintetica, la Musa scopre misteri e tematiche importanti come lo scontro generazionale e il problema di un’poca incapace spesso di produrre arte di alto livello. Vale la pena di seguire questa talentuosa artista nei capitoli di questo progetto, aspettiamo il terzo vizio capitale.



Dei peccati capitali secondo Paola Musa: la superbia di Alfredo Destrè

L’audacia era sempre stata la sua forza. Aveva dovuto anche soprassedere a certe scelte che gli provocavano un senso di disgusto, per raggiungere il suo scopo. Era tuttavia abbastanza sicuro che il suo progetto alla fine avrebbe avuto un buon risultato. In fondo, lo sapeva bene: la gente ama solo ciò che già conosce e in cui si riconosce. (p. 11) La figlia di Shakespeare di Paola Musa si inserisce all’interno di una cornice più ampia: è infatti il secondo di una serie di sette romanzi dedicati ai sette vizi capitali, preceduto da quell’Ora meridiana, pubblicato nel 2019 sempre per i tipi di Arkadia, che vedeva al centro il tema dell’accidia.
A dominare la scena di questo secondo testo è invece la superbia, quello che la dottrina cristiana riconosce come il peggiore e più grave dei peccati capitali, il quale viene attribuito a Lucifero stesso in quanto angelo che si è ribellato a Dio. Volendo spostare l’accento, pensiamo poi a quella hybris che tanto fa inciting event, diciamo così, di molte tragedie, e che ben rappresenta il leit motiv di tanta cultura greca: Icaro, volendo sfidare le leggi della natura per avvicinarsi al sole, ha peccato di hybris; ma anche Achille, Agamennone e Ulisse sono esempi perfetti di umani che hanno osato paragonarsi agli dèi in un modo o nell’altro e perciò sono stati puniti. Di esempi in letteratura, insomma, se ne potrebbero trovare a iosa.
Paola Musa decide di lavorare su un campo diverso, che già il titolo suggerisce bene: Alfredo Destrè è infatti uomo d’arte che, all’epilogo della propria carriera – dopo essersi “abbassato” a lavorare per la televisione in una serie tv di scarso valore –, riesce nell’ambizioso progetto di risollevare le sorti di un teatro e al contempo di riavvicinare il grande pubblico a Shakespeare attraverso una rilettura in chiave contemporanea delle opere del bardo inglese. Quando gli confermano di aver ricevuto un prestigioso premio alla carriera, ecco che il percorso che porta alla disfatta prende avvio.
A ben vedere, tutti gli altri personaggi, chi più chi meno, sono ben consapevoli dell’alto valore artistico del progetto di Destrè, così come sono consapevoli della bravura e delle capacità del maestro. Alfredo Destrè è, di fatto, un uomo rispettato e riconosciuto dall’ambiente artistico italiano. Eppure, di questo riconoscimento sembra non farsene nulla: egli in qualche modo trae piacere nel riconoscersi da solo come uomo e artista. Qui il meccanismo psicologico è sottile e Paola Musa lo intende bene: la superbia è un peccato perverso, in quanto solo in apparenza necessita dell’altro per sopravvivere e nutrirsi. Nella realtà, la persona superba trova dentro di sé – nei meandri della propria coscienza e del proprio vissuto – la linfa vitale di cui ha bisogno: esistendo, guardandosi allo specchio, relazionandosi con se stesso, il superbo si gonfia, si autoalimenta, la sua maestà si espande ben oltre i limiti consentiti. Il supero non ha bisogno di nessuno, mai. E infatti Alfredo Destrè, non a caso, è sempre solo: egli è circondato da ammiratori, amici e nemici, eppure lo troviamo sempre a fare i conti con se stesso. Questa sorta di solipsismo esistenziale che contraddistingue il superbo Paola Musa ha saputo rappresentarlo bene: proprio come un attore di teatro che recita un monologo sul palco, Alfredo Destrè è al centro della propria vita solitaria, col riflettore puntato addosso, e il resto delle sue conoscenze non sono altro che le teste anonime degli spettatori, assisi sulle poltrone, distanti. A separarli, pochi metri e un’infinita differenza.
Allora poco importa quali siano le proprie origini, poco importa che veniamo da un piccolo paesino, che i nostri genitori fossero persone umili: ciò che è fondamentale è essere riusciti a staccarsi da terra, a sollevarsi da quell’humus contadino e che, proprio come Icaro, siamo riusciti a volare via, lontano, addirittura cambiando cognome, addirittura rinnegando la famiglia. La superbia non risparmia nulla: è un male che divora tutto per alimentare il proprio ego.
In chiusura, una nota personale: curiosa è stata, a mio avviso, la scelta di Paola Musa di scrivere per secondo un romanzo sulla superbia che risulta, appunto, il peccato più grave. La sua rischia infatti di essere una scelta anticlimatica, se questo suo ambizioso progetto prevede un percorso ben preciso. Staremo a vedere ciò che verrà: nel frattempo posso affermare che La figlia di Shakespeare è un gran bel libro.

David Valentini

 



“La figlia di Shakespeare”: la recensione

Un mentitore, che è anche attore, un passato celato, una storia beffarda: si dispiega, articolandosi lentamente, prendendo corpo e forma tra le pagine di “La figlia di Shakespeare” secondo romanzo di Paola Musa, già autrice nel 2008 di “Condominio Occidentale” per Salerno Editore. Pubblicata lo scorso luglio da Arkadia Editore, l’ultima opera fonda la sua struttura su di un’interiorità spiazzante, quella di un uomo intento nella quotidiana rimozione dei suoi fantasmi: se ad Alfredo Destrè va il merito di aver risollevato le perdute sorti del teatro Globel, una successione incontrovertibile di rivelazioni andrà a sanare le lacune di un contesto suscettibile fin dall’inizio alla presenza di zone d’ombra. Ambiguo è il protagonista, ambiguo il suo passato, il circuito delle sue relazioni: progressivamente indagato nelle sue inclinazioni e reazioni l’uomo sembra galleggiare nel suo stesso artificio eleggendolo come habitat vitale e necessario. Può un teatrante adagiarsi alla finzione fino a permettere di compenetrare la sua stessa esistenza? Veicolate da una scrittura scorrevole, che racconta in terza persona ma incarna in maniera lucida ed esposta il punto di vista del personaggio centrale, le verità vengono a galla appoggiandosi su un tempo del racconto sapientemente distillato. Presenze fino ad allora in ombra si fanno nitide, chiariscono il loro ruolo rendendosi di volta in volta determinanti nell’equilibrio della narrazione: così come lodevole risulta la loro presentazione descrittiva, lo è altrettanto la capacità di creare una coerenza interna capace di non vacillare anche dinanzi ai continui colpi di scena. Una figlia, forse due, l’olezzo marcio e persistente di un passato che fatica a configurarsi come senso di colpa e neanche alla fine sembra diventarlo: se leitmotiv del romanzo è la presenza di una ubris tanto rovinosa quanto esternata nelle sue numerose declinazioni, ciò non impedisce al lettore di muoversi fra le trame di un animo, di un mistero verso il quale rimane fino all’ultimo irretito.

Giorgia Leuratti

 



“La figlia di Shakespeare” di Paola Musa ci porta nel mondo del teatro

La superbia dell’attore

Di che l’animo vostro in alto galla/ poi siete quasi antomata in difetto/ sì come vermo in cui formazion falla? Così, nel Canto X del Purgatorio, Dante Alighieri ammonisce i superbi, costretti a incedere curvi sotto il peso di enormi macigni, contrappasso di una vita spesa nell’affanno di svettare su tutto e tutti, a qualunque costo.
Lo stesso peccato macchia l’anima di Alfredo Destrè, attempato attore di teatro ormai in disarmo, protagonista di “La figlia di Shakespeare” (Arkadia, 124 pagine, euro 14), l’ultima fatica letteraria della scrittrice, sceneggiatrice e poetessa di Sardara (ma da anni residente a Roma) Paola Musa.

Il ritorno in scena

Nel romanzo, ambientato nella Roma dei nostri giorni, Destrè accetta l’ardua sfida di risollevare le sorti del Global, il principale teatro cittadino, prossimo dalla chiusura. Attingendo all’esperienza di tanti anni e con ritrovata grinta, l’ex attore riesce nell’impresa, ottenendo l’unanime plauso di pubblico e critica. A un passo dalla gloria, la sua sorte segna però una battuta d’arresto per mano di Enrico Parodi, membro della compagnia teatrale giovanile, per nulla convinto della moralità e degli effettivi meriti artistici del maestro Destrè. Lo accuserà infatti di essersi impadronito senza scrupoli delle idee dei colleghi più giovani, principianti tanto entusiasti quanto ingenui.

Tutti i peccati

Spiega Musa: «Per dirla con Sant’Agostino, l’invidia e la superbia sono i peccati più gravi in quanto tipici del demonio, assai più di gola e lussuria. Nel mio libro, Alfredo Destrè è uno che non ha imparato nulla dalla sublime arte che pure ha praticato a buoni livelli. Rimpiange la ribalta degli anni d’oro e passa i suoi giorni a brigare per ottenere, finalmente, quello che ritiene il giusto tributo alla sua carriera di attore shakesperiano. Di fatto, la boria e la spocchia che lo rendono tanto insopportabile servono a mascherare, maldestramente, la sua mediocrità e l’incapacità di prendere atto del corso naturale degli eventi».

Costruzione dei dialoghi

Chi pare aver interiorizzato la lezione del Bardo dell’Avon è proprio l’autrice. Vivacemente evocativa anche in virtù dell’accurata scelta dei vocaboli (indispensabile nel restituire con credibilità le atmosfere e i meccanismi dell’universo del teatro), la scrittura di Paola Musa si esprime al massimo nella costruzione dei dialoghi: numerosi, serrati, un botta e risposta quasi senza pause volutamente sul solco della drammaturgia teatrale classica.

Conflitto tra generazioni

Ancora, di shakesperiano per ampiezza e profondità c’è la selezione dei temi portanti. La superbia e la prevaricazione del forte sul debole, ma non solo. L’autrice indaga il conflitto generazionale, coi più anziani che, pur consci di aver già dato il meglio e con tanti trofei in bacheca, si ostinano a non lasciare il palcoscenico (o la poltrona, la scrivania, è lo stesso) ai giovani, preparati e scalpitanti. «Se possibile, Destrè fa anche peggio: con cinismo, trae linfa vitale dai progetti e dalla creatività di artisti più freschi e al passo coi tempi rispetto a lui, perennemente ripiegato su un passato che non tornerà», puntualizza Musa.
Ancora, l’autrice denuncia la difficoltà nel fare arte di livello nell’epoca che viviamo, dove tutto si risolve nella disperata ricerca – nel teatro come nella musica, passando per la letteratura e le arti figurative – dei riscontri al botteghino in un costante, demoralizzante gioco al ribasso dal punto di vista della qualità della proposta.
E la figlia di William Shakespeare, chi è? «Per scoprirlo bisogna arrivare all’ultima pagina. Al coup de théâtre, se volete».

Fabio Marcello



L’ora meridiana

 L’ultimo atto di una relazione che si consuma da tempo si compie alle sette di mattina. Dopo 16 anni insieme, Sofia e Lorenzo si separano. Della loro storia non restano che l’indifferenza e l’apatia di Lorenzo. Antonio, il suo migliore amico, nonché socio in affari, aveva già previsto che tutto sarebbe finito per colpa del suo vizio più grande: l’accidia. Ma Antonio è sparito, all’improvviso. E come se non bastasse, Yasmina, la giovane amante tunisina, non ne vuole più sapere di lui. Proprio quando decide di lasciarsi andare all’oblio in compagnia di un po’ di ‘bamba’ arriva Marcello, portatore di ulteriori cattive notizie: la sua azienda sta andando a rotoli. Ma Lorenzo, che si è limitato semplicemente a mettere le firme sui documenti fidandosi di Antonio, non ne vuole sapere. Tutto il suo mondo sembra crollare eppure Lorenzo resta impassibile. Il suo unico pensiero è cercare il modo per far passare il tempo, per non pensare a nulla. Come un vaso di Pandora tutto viene scoperchiato e tutti gli imbrogli vengono alla luce: i conti in banca all’estero, le concussioni, i debiti, le tasse non pagate. E poi c’è la questione della dipendenza da droga di Lorenzo. La sparizione di Antonio può essere legata al fallimento dell’azienda? E la sua dipendenza ha influito su tutto il resto? Lorenzo non ha nessuna intenzione di continuare ad interrogarsi. Eppure, da una foto in bella vista, suo padre continua a fissarlo e la sua voce risuona nelle orecchie…
A quarant’anni Lorenzo riconosce di non essere stato capace di costruire nulla nella sua vita: ricco di famiglia grazie all’impegno paterno di una vita, si ritrova a dover gestire la sua dipendenza da cocaina e lo sfacelo al quale sta andando vertiginosamente incontro. Nonostante la spirale negativa di eventi che lo travolge, sembra un forestiero della vita: distaccato ed egoista, fugge le emozioni per rifugiarsi in un atteggiamento nichilista (probabilmente uno dei peccati peggiori della società contemporanea). Paola Musa, scrittrice, sceneggiatrice, poetessa e paroliere per numerosi artisti del panorama musicale italiano, racconta, con linguaggio tagliente e poetico, il disorientamento della società contemporanea. E lo racconta con uno stile personalissimo, come fosse la sceneggiatura di un film e, insieme, il testo di una canzone. Senza esaurirsi nella forma del romanzo moderno, L’ora meridiana si snoda attraverso il noir e il poliziesco, per approdare ad un interessante approfondimento psicologico: Lorenzo parla all’uomo di oggi, parla dell’uomo di oggi, senza giudicare ma invitando, in leggerezza e a tratti con ironia, a prendere contatto con la parte più profonda e vera di noi stessi. Basterà questo sforzo per superare l’egoismo e la superficialità di questo nostro tempo fragile?

Mariangela Taccogna



L’ora meridiana di Paola Musa

Romanzo sociale non nel senso tradizionale quanto affresco della condizione di a affettività e disorientamento morale della società contemporanea attraverso la vita di un uomo che si sgretola, quella di Lorenzo Martinez. L’ordinaria follia e banalità del male che non risparmia nessuno anzi si annida proprio nel cuore del l’intimità. Il libro parte con un tono cinematografico, commedia nera all’italiana finché prende poi il sopravvento proprio l’anima nera o gialla, insospettabile della scrittrice. Una rivelazione per chi conosce i suoi libri precede ti anche se non rinuncia alla pietà. Una scrittura cruda che pare al maschile. Uno stile insolitamente poetico.
L’egoismo, la frenesia, e l’effimero del nostro tempo raccontati dalla prosa efficace di Paola Musa. Il ritorno dell’autrice di Condominio occidentale, Quelli che restano e Go Max Go (recensiti su www.saltinaria.it).

Un libro molto diverso dai precedenti, dove l’attenzione al sociale, la lente d’ingrandimento sugli ultimi, non smette di funzionare. Sembra questo il fil rouge di Paola Musa che non fa sconti ai suoi personaggi, non giudica, ma accarezza con una qualche tenerezza, lasciando ad ognuno una possibilità di riscatto. E’ il caso Lorenzo Martinez è un ricco quarantenne cocainomane, figlio di una nobiltà decaduta che è riuscita a riconquistare una posizione di prestigio grazie al duro lavoro di suo padre. Non è un ultimo nel senso usuale del termine ma è una vittima di una società competitiva, e soprattutto di se stesso il cui vizio principale è, per sua stessa ammissione, l’accidia. Una domenica di giugno, Lorenzo, prende atto che sua moglie l’ha lasciato; la sua azienda viaggia in cattive acque e sembra essere a un passo dalla fine; la sua amante lo tradisce; il suo socio e amico fraterno, almeno di un tempo, Antonio è scomparso. Eppure lui reagisce con un atteggiamento inspiegabilmente distante, sfugge continuamente alle emozioni più profonde, cercando, come ha sempre fatto, soltanto eccitazione o annientamento. L’ora meridiana indaga il demone dell’accidia, quel “vorticare catatonici e depressi nella frenesia di un’esistenza votata infine all’effimero”, espressione di un vizio capitale decisamente attuale anche se non è detto che sia il peggiore.

In una scrittura realtivamente concisa, il romanzo è ben articolato, sorprendete, per la piega che prende senza che quasi il lettore se ne accorga, fino ad strutturarsi come un’indagine poliziesca rivelando senza una soluzione finale definitiva il colpevole della vicenda. In effetti nell’ultima parte, «La cura», il libro prende ancora un’altra via e vira nel romanzo psicologico, il cammino interiore di discesa agli inferi e risalita di un uomo che sceglie ad un certo punto di non fuggire più e forse più che di scontare una pena di curarsi soprattutto da se stesso. Il messaggio che passa leggero, tra le righe, con qualche ironia ed autoironia, come l’improvviso interesse di Lorenzo per l’uncinetto, è la pena come terapia, la disavventura come un’occasione per risorgere, inattuale ma attualissimo.

Intressante lo scavo psicologico dei personaggi che giunge anch’esso quasi inaspettato, non raccontato ma rivelato a poco a poco come accade nella vita. Paola Musa è sceneggiatrice prima che scrittrice, mette in scena le sue storie con una penna asciutta quanto poetica. Il mestiere di paroliere, la dimestichezza con il fraseggio musicale si avverte senza bisogno di accedere al lirismo. Ci sono passaggi che virano dal linguaggio immediato e talora volgare del quotidiano a improvvisi volteggi, un po’ alla maniera di Kerouack. Anche il titolo sembra iscriversi in questa declinazione, con la suggestione del declinare del giorno che può diventare il cambio di registro, il momento nel quale si acquieta il fragore della vita quotidiana per lasciar spazio alla riflessione e si comincia ad apprendere» a vivere, come il protagonista della foto di copertina, opera di Amedeo Modigliani. Prima della notte, spesso fonte di dissipazione e vizio.

Paola Musa, scrittrice, sceneggiatrice e poetessa, collabora da anni con numerosi musicisti come paroliere. Ha firmato diverse canzoni per Nicky Nicolai con Stefano Di Battista e Dario Rosciglione. Ha composto le liriche per la commedia musicale Datemi tre caravelle (interpretata da Alessandro Preziosi con musiche di Stefano Di Battista) e La dodicesima notte di William Shakespeare (per la regia di Armando Pugliese, con la musica di Ludovico Einaudi). Il suo romanzo Condominio occidentale (Salerno Editrice, 2008) divenuto un tv movie andato in onda sulla Rai 1 con protagonista Cristiana Capotondi, è stato selezionato al Festival du Premier Roman de Chambéry e al Premio Primo romanzo Città di Cuneo. Con Arkadia ha pubblicato nel 2014 il romanzo Quelli che restano e nel 2016 Go Max Go, biografia romanzata del sassofonista Massimo Urbani. Nel 2017 ha pubblicato la silloge di poesie “Anse di memoria” (Macabor Editore).

Sophie Moreau



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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