Che prezzo ha la superbia, tra i vizi capitali quello che più si radica nell’animo umano? L’attore Alfredo Destrè paga caro il suo peccato: offuscato dalla gloria del sé, distrugge tutto pur di brillare di luce propria. Per poi rimanere accecato. È un romanzo crudo La figlia di Shakespeare (Arkadia Editore, pp. 124, € 14), dell’autrice, poetessa e sceneggiatrice Paola Musa (1966), il secondo sui vizi capitali (lo precede L’ora meridiana, Arkadia, 2019, sull’accidia). Alla fine di una carriera dedicata soprattutto al teatro shakespeariano, il protagonista è ancora attaccato a un successo sbiadito. Per ottenere il premio della vita, prova a risollevare le sorti del teatro più importante della città, il Global. Nonostante porti sul palco un’opera mediocre, grazie alla fama passata e a certe conoscenze, Destrè ottiene una buona accoglienza. Saranno due personaggi a rivelare la sua vera natura: Enrico Parodi, storico amico e attore molto talentuoso, rimasto ingiustamente nell’ombra, e la figlia Clara, stanca delle bugie di un padre borioso. Viene a galla tutto: le menzogne, la squallida, atroce, natura di un uomo capace di tutto pur di sentire lo scroscio degli applausi. E la storia si spinge sempre più in fondo alla ferocia umana: omicidi, violenze; una tragedia fuori dal palco che vede, tra le vittime, una figlia senza un padre, e una donna che ricorda solo il nome di chi le ha mosso violenza: diceva di chiamarsi Shakespeare. Un romanzo a tinte nere sullo sfondo di una Roma decadente e di un mondo dello spettacolo disegnato come insulso e povero culturalmente, dove l’ambizione è premiata al posto del valore. Ma i vizi prima o poi si riversano su chi li alimenta. E già il Bardo metteva in guardia: «Chi sta in alto è soggetto a molti fulmini, e quando infine cade, si sfracella».
Jessica Chia
Paola Musa, che è anche poetessa, sceneggiatrice e collabora come paroliere con vari musicisti, continua il suo personale ciclo romanzesco sui sette peccati capitali. La figlia di Shakespeare (Arkadia) è dedicato alla superbia, ben diversa, come leggiamo nel risvolto, dalla grandezza. Alfredo Destrè, ex attore fascinoso e ora direttore del prestigioso teatro Global, ha il compito di riavvicinare il pubblico al suo teatro. Lo fa rivisitando i classici in chiave moderna, e in particolare con nuove, azzardate versioni dell’opera shakespeariana, contaminandola a volte goffamente con richiami all’attualità: Re Lear dirigente di una multinazionale, Amleto con una dizione piagnucolosa e movenze gay, Romeo e Giulietta, lui figlio di un comunista lei figlia di un capomafia. Il tutto contaminato con atmosfere rock-punk. Restituisce così popolarità al suo teatro e ritrova un pubblico giovanile. Un giorno però rispunta dal suo passato il vecchio attore Enrico Parodi, fallito, ridotto alla povertà, proprio per la sua integrità morale, e ora suo principale accusatore (quasi fool shakespeariano). Già, perché l’ambiazioso Destrè a un certo punto si è venduto l’anima al diavolo e la sua vita si tascina – in mezzo a ossessioni erotiche – nella corruzione e nell’impostura. La figlia avrà un ruolo decisivo nel suo smascheramento, ma non possiamo rivelare di più. Romanzo dalla prosa lineare e dalla ispirazione dostoevskijana: torbido e cruento, tra delitti e castighi, rovine e possibili redenzioni, tutto giocato sulla meravigliosa “ambiguità” connaturata al teatro stesso (che è spazio della finzione, della recita dell’esistenza, al fine di afferrarne meglio la verità nascosta). Paola Musa nei confronti del suo protagonista, un personaggio intrattabile, un leader egotista, si mostra più intransigente di un padre della Chiesa, più severa e “vendicativa” del pèur iracondo Dante: la stessa fine di Destrè (di cui non diciamo) è quasi la metafora di una intera esistenza condannata fin dall’inizio ad una raggelata solitudine.
Filippo La Porta
Esordisce ufficialmente come scrittrice nel 2008 ma Paola Musa ha con le parole un legame che viene da molto lontano e che non si esaurisce soltanto nella sfera letteraria. Basta avvicinarsi anche solo un poco al suo linguaggio, per capire quanto l’approccio di Paola Musa alla scrittura sia colto, riflessivo e raffinato; l’eleganza del suo sguardo sulle cose della vita, la delicatezza nel saper gestire la materia narrativa, anche quella decisamente meno maneggevole e rassicurante, si rivelano qualità distintive di un indubbio talento.
La scelta di esplorare, attraverso la narrazione scritta, i vizi capitali è iniziata nel 2019 con la pubblicazione del romanzo “L’ora meridiana” edito da Arkadia per poi proseguire con il titolo successivo “La figlia di Shakespeare” edito dalla medesima casa editrice nel 2020. Tale itinerario narrativo si rivela molto interessante e certamente innovativo, specialmente in un mondo letterario che calcola ogni mossa e che pare altresì ammiccare per la maggiore soltanto ai temi in voga al momento. Accidia e superbia sono rispettivamente i due vizi finora esplorati dalla penna della scrittrice che, nei protagonisti Lorenzo Martinez e Alfredo Destrè, indaga cause e conseguenze che ruotano intorno alle sette “abiezioni” morali per antonomasia, che già Aristotele osava definire “abiti del male”. Due storie ricche di colpi di scena, due libri egualmente lucidi, due indagini psicologiche coraggiose e per nulla giudicanti che fanno ben sperare in un nuovo capitolo della serie.
Come e perché è nata l’idea di dedicare un romanzo ad ognuno dei sette peccati capitali? L’idea è nata per caso, quando ho iniziato a scrivere “L’ora Meridiana”. Nel primo capitolo, che ho scritto praticamente di getto, ho cominciato a domandarmi che tipo di persona fosse il protagonista, e mi è stato chiaro che si trattava di un accidioso. Ho quindi deciso di strutturare tutto il romanzo intorno a tale vizio, e da lì, l’idea di costruire altre trame intorno ai vizi capitali.
Il protagonista del romanzo, Alfredo Destrè, è un artista teatrale che per un periodo ha “dovuto” lavorare anche in televisione. Poi qualcosa nella sua vita sembra cambiare in meglio, sembra giungere davvero il suo momento… Esatto. Inizialmente spingo il lettore a simpatizzare per il protagonista: un artista non più giovane, che come tanti altri ha dovuto fare compromessi al ribasso per lavorare, e che per tutta la vita spera di veder riconosciuti i propri meriti. Fin qui tutto legittimo, quindi. Ma poiché ogni vizio capitale (si definisce “capitale” perché fa capo ad altri vizi), non conosce temperanza, Alfredo Destrè, che ha trasformato la sua ambizione in ossessiva superbia, non accetta che niente e nessuno si frapponga tra lui e il suo obiettivo di riconoscimento.
La persona superba cerca continua affermazione di se stessa e della propria identità in relazione agli altri, dai quali cerca sempre conferme e riconoscimenti. Alfredo ha davvero bisogno degli altri?Alfredo vuole dimostrare di non aver bisogno di nessuno, e di poter rinunciare ad affetti, memoria, legami con il passato, verità sui propri comportamenti, pur di creare questa nuova identità, che infine si rivela menzognera. Come accade a chi è “posseduto” o “guidato” da un vizio capitale, perde contatto con la realtà. Da qui la scelta di ambientare la storia nel mondo del teatro: una finzione nella finzione.
Non volevi forse suggerirci che i superbi, nonostante necessitino per forza di cose di ammiratori, sono paradossalmente intrappolati in una solitudine senza via di uscita? Sì, intendevo suggerire proprio questo. Alfredo rimane intrappolato in un’immagine di sé che non corrisponde al vero, e per questo è solo. Ma non gli importa.
Perché negli ambienti artistici (nel caso specifico del tuo romanzo in quello teatrale) la pretesa di privilegio e superiorità è così diffusa? Credo dipenda dal fatto che l’ambiente artistico incoraggi spesso la vanità e il narcisismo, e al contempo non possa silenziare l’ansia da precarietà che tali professioni comportano. C’è sempre, nascosta, una profonda insicurezza. Così il successo, o l’aspettativa di un successo, che di per sé sono eventi effimeri, creano talvolta il paradosso di un’insicurezza che si trasforma in arroganza, in superbia: attaccare, piuttosto che difendere.
Ne “L’ora meridiana” , il primo romanzo dedicato ai sette peccati capitali, ti concentri invece sull’accidia, questa incapacità di accontentarsi, questa riluttanza all’operare, all’agire… Mi sembra che questi due peccati accidia e superbia non siano poi così lontani tra loro, perché nascono comunque da una condizione di solipsismo, seppur differente, o mi sbaglio? Come dicevo, tutti i vizi capitali hanno un po’ in comune un eccesso che allontana da una crescita interiore. Credo tuttavia che i personaggi dei miei due libri, siano in qualche modo antitetici: Lorenzo (l’accidioso) non fa nulla per cambiare le cose e non si interessa del giudizio altrui, mentre Alfredo (il superbo) è pronto a fare qualsiasi cosa pur di affermare l’immagine di sé. Certo entrambi sono soli, ingabbiati, uno per troppa inerzia, l’altro per troppa volontà.
Tutti i vizi, quando sono di moda, finiscono per essere virtù disse Molière. Non è così anche ora e non ne vediamo altrettanto (tardivamente) le conseguenze? Concordo con Molière! A maggior ragione, sto prendendo sul serio questo progetto di una narrativa che permetta di riflettere sui vizi del nostro tempo, attingendo anche dalla nostra cultura europea, dai suoi riferimenti letterari, cui dobbiamo davvero molto.
Valentina Di Cesare
Il link all’intervista a Paola Musa su Formicaleone: https://bit.ly/38gi2qO
Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Paola Musa, “Go Max Go” (Arkadia editore)
Go Max go: Una vita appesa a un feelingSpettacolo teatrale musicale liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Paola Musa, “Go Max Go” (Arkadia editore). Con: Andrea Tidona (voce narrante), Maurizio Urbani (sax tenore), Dario Rosciglione (contrabbasso) e BruceDitmas (batteria)Regia di Andrea Tidona.
La storia di un ragazzo di borgata che non ha saputo sopravvivere al suo straordinario talento, la quotidianità di un’Italia sopraffatta dalle contraddizioni degli anni di piombo, il potere della Musica che supera qualunque differenza ed arriva al cuore di tutti sono gli ingredienti della prima pièce teatrale dedicata a Massimo Urbani, protagonista del jazz romano, ma anche internazionale , della fine del secolo scorso che ha lasciato un ricordo indelebile in quanti lo hanno conosciuto e che appassiona fortemente anche chi lo conosce solo dalle sue testimonianze musicali.I protagonisti dello spettacolo sono la voce narrante di Andrea Tidona, che interagirà con tre grandi musicisti che hanno collaborato nella breve ma intensa carriera dell’indimenticabile “Max”: Maurizio Urbani (sax tenore), Dario Rosciglione (contrabbasso) e Bruce Ditmas (batteria). Ecco una breve sinossi dello spettacolo: È la terza sera di un concerto con ospite Red Rodney, il trombettista di Charlie Parker, quando Massimo Urbani è sostituito da un altro sassofonista perché in ritardo e neanche sobrio. Tutto, in quell’estate, sta franando. Il proprietario del Jazz Club chiama così un taxi che lo riporti a casa. Durante il viaggio, Massimo conversa con il taxista e ripensa alla sua vita da enfant prodige, ai grandi successi ma anche alle rovinose cadute dovute non solo alla tossicodipendenza: il mondo musicale è profondamente cambiato e il suo cuore randagio mal si adatta ai nuovi tempi. Il viaggio ripoterà Urbani nella borgata romana, dove tutto ha avuto inizio e dove si troverà, per la prima volta, completamente solo. Quella di Urbani è la storia di un ragazzo che il successo non riesce a strappare al quartiere e alla sua fragilità, un grande talento che ha interpretato magistralmente la musica jazz, tenendo sempre pericolosamente la sua vita appesa a un “feeling”.Lo spettacolo, attuato col contributo della Regione Lazio – LAZIOCREA ed organizzato dall’Ass. Cult. Scuola di Musica L’Esacordo in collaborazione con l’Associazione Mujic, sarà a breve visibile in streaming su YOUTUBE; per essere aggiornati sulla pubblicazione dell’evento e su tutte le notizie che lo riguardano basta collegarsi al sito www.gomaxgo.it.
Il link alla segnalazione su A proposito di Jazz ― Di e con Gerlando Gatto: https://bit.ly/38SjSjH
Il viaggio si avvia alla conclusione: l’arrivo a Cagliari è fissato per il 12, 13 e 14 novembre, tappa finale della quinta edizione del Festival Internazionale della Letteratura di Viaggio che, dopo Pisa, Parma, Roma, Palermo e Catania, sbarca (nel formato online) in Sardegna e nell’appuntamento finale premierà la giornalista economica di Sky Tg24 Mariangela Pira (originaria di Dorgali) con il Globo per il Giornalismo mentre lo scrittore e giornalista cagliaritano de L’Unione Sarda Francesco Abate riceverà il Globo per la Letteratura.
Giovedì
Tre le presentazioni che daranno il via alla parte finale del Festival targato Arkadia Editore: giovedì alle 17 sarà online l’incontro con Marisa Salabelle che con Arkadia ha pubblicato “Gli ingranaggi dei ricordi”, ambientato nella Cagliari del 1943, in cui tre storie sono intrecciate in una narrazione a più voci, di uomini e donne. A seguire, alle 17.45, Vindice Lecis parlerà del suo “Il cacciatore di corsari” (Nutrimenti) che racconta le imprese del giovane e valoroso cavaliere Pero Niño al quale il re di Castiglia Enrico III affidò il compito di eliminare una volta per tutti i pericolosi predoni del mare. L’ultimo incontro sarà quello con Milena Agus che, con il giornalista Luciano Piras, dialogherà del suo ultimo romanzo “Un tempo gentile” (Nottetempo), che fa conoscere al lettore le vicende degli abitanti di un paese dell’entroterra sardo, nel Campidanese, scosso dall’arrivo degli “invasori”. Per garantire la sicurezza di tutti, questa volta gli eventi non si terranno come di consueto nella sala della Fondazione di Sardegna ma a distanza sul web, canali social e digitale terrestre di Matex tv.
Venerdì
Eleonora Carta e Giorgia Atzeni sono le protagoniste della seconda giornata. La prima sarà in diretta dalle 17.30 per raccontare il suo libro “Piani inclinati”, edito da Piemme, la storia di due bambini scomparsi nei boschi del nord Sardegna e dei due protagonisti che solo uniti potranno mettere fine alla scia di paura che attanaglia l’isola. Alle 18.15 il giornalista Fabio Marcello intervisterà Giorgia Atzeni, autrice, insieme a Teresa Porcella, di “Danzando con l’arte” (Libri volanti), un libro poetico e imprevedibile, che guida i più piccoli verso l’arte con il passo leggero della danza.
Sabato
Serata ricca di appuntamenti per la chiusura della manifestazione: alle 17 Bruno Murgia modererà l’incontro dal titolo “Covid e letteratura. Tre modi differenti di raccontare la pandemia”, tra Mauro Tuzzolino, Giovanni Follesa, Fabrizio Demaria e Giampaolo Cassitta. Sarà lo stesso Cassitta, alle 17.45, a dialogare con l’artista Franco Nonnis e alle 18.15 Francesco Abate sarà in diretta per raccontare il suo nuovo romanzo “I delitti della salina” (Einaudi) e la sua protagonista, la giovane e ribelle giornalista Clara Simon che si muove nella Cagliari del 1905 e dovrà far luce sulla scomparsa di alcuni piciocus de crobi. Alle 19 “Tra letteratura e giornalismo” vedrà protagoniste Mariangela Pira ed Eleonora Carta prima della consegna del Globo per la Letteratura a Francesco Abate (ore 20) e di quello del Giornalismo a Pira. La quinta edizione del Festival Internazionale della Letteratura di Viaggio si chiuderà con il reading di Gianluca Medas “Vajante in Sardegna” e con l’incontro tra gli ospiti, Murgia, Cassitta e il presidente della Fondazione di Sardegna Antonello Cabras.
Descrizione prodotto
Il titolo ci catapulta nella vicenda con una suggestione: protagonista è il mondo del teatro e le passioni del Bardo, nel dialogo ‘tragico’ tra maschile e femminile dove il secondo uomo scatena spesso l’azione, come uno schema esistenziale universale. Paola Musa racconta sempre la vita dal lato difficile, tracciando attraverso un a vicenda singolare e spesso decisamente originale un affresco collettivo di un ambiente, un’epoca, un territorio e lo fa con delicatezza, in modo non smaccatamente prefissato, mettendosi come regista un passo dietro i personaggi che lascia liberi di muoversi. L’autrice non è mai un burattinaio; quanto una voce che in ascolto racconta e narra le miserie umane, questa volta con un piglio più aggressivo. C’è nel libro quel senso di estraneità alla vita degli altri, la mancanza di una partecipazione profonda e intima che implica comunione prima che comunicazione, così una figlia è più figlia di Shakespeare, dell’attore che lo incarna che dell’uomo che c’è dietro la maschera, il padre carnale. Ma la figlia di Shakespeare è anche un’altra, nata dal capriccio del palcoscenico, dove finzione e realtà si confondono purtroppo e che lascio al lettore scoprire. La metafora del teatro racconta sì la vita ma anche la fuga da essa, la superbia di recitare al posto dell’umiltà di vivere, potremmo dire semplificando; la ricerca dell’applauso e del successo, più che del confronto e dell’affetto. Il teatro è memoria e come in questo caso sembra una cura per la rimozione della propria identità, dimenticarsi per entrare nel personaggio, come fa il protagonista della vicenda, Alfredo Destrè, rinnegando un’infanzia povera e infelice, che cerca di riscattare sul palcoscenico.
Quando accetta di risollevare le sorti del più importante teatro della città è un successo di critica e pubblico, che il vecchio attore spera di coronare con il premio alla carriera atteso da una vita. A metterne in dubbio il merito artistico e morale, sarà però un collega della sua compagnia teatrale giovanile, Enrico Parodi, che da sempre ha impersonato il fool shakespeariano. Dopo il buon successo di critica del precedente romanzo L’ora meridiana, incentrato sull’accidia, Paola Musa ritorna a indagare i peccati e i vizi della società moderna costruendo una storia intorno alla superbia e alla presunzione. In queste pagine si riverberano così il senso del divenire anziani, lo scontro generazionale, l’incomunicabilità, il predominio di una tecnologia soffocante e alienante, la decadenza culturale, il sottile confine tra ambizione e valore e, dunque, la confusione tra grandezza e superbia che sembra concentrata nell’espressione “più che la cattiva coscienza ne soffriva l’orgoglio”. E in questo è racchiusa anche la debolezza di chi si nasconde dietro l’immagine che adora di sé.
Il tema del sociale con un’attenzione specifica all’attualità è sempre presente nei tuoi libri: nel romanzo precedente al centro l’accidia, in questo la superbia. È un’idea programmatica?
“Il tema del sociale è sicuramente presente, ma non in maniera esplicita come nei miei primi romanzi. Prendendo spunto dai vizi capitali, tento di rappresentarli nell’attualità e contemporaneamente mi aggancio non solo alla tradizione cristiana che abbiamo ereditato: attingo, volutamente, alla produzione culturale del passato nel campo del pensiero, della teologia e della letteratura, che permea la nostra conoscenza, sebbene non sempre consapevolmente. Faccio un esempio. Ne L’ora meridiana sui demoni meridiani della mitologia classica costruisco l’indole accidiosa del protagonista; ne La figlia di Shakespeare, dove il tema è la superbia, l’insegnamento del bardo su come le passioni umane rendano ciechi sembra restare inascoltata dal protagonista, nonostante per tutta la vita sia stato interprete delle sue opere.”
Hai già in programma di sviluppare questo tema con continuità?
“L’idea è quella di costruire un romanzo intorno a ogni vizio capitale. Il percorso è lungo. Vedremo se riuscirò a completarlo! Ogni trama sarà comunque a sé stante, come l’ambientazione e il genere. Voglio mantenere la massima libertà narrativa. Ad esempio il nuovo capitolo che sto scrivendo, che parla di avarizia, ha anche dei momenti divertenti.” La scelta di ambientare la vicenda nel mondo del teatro a cosa corrisponde?
“Per quanto riguarda la scelta di ambientare la vicenda nel mondo del teatro, mi intrigava l’idea di costruire una finzione dentro la finzione: il personaggio del libro, infatti, è talmente ossessionato dall’idea di ricevere un premio come attore Shakespeariano da rinnegare la propria storia personale, persino se stesso.”
Sullo sfondo sempre Roma, il suo ventre molle, non spettacolare. Paola Musa sceglie il lato dimesso, mediocre, desolante, la via più difficile per raccontare la miseria umana. Personaggi che finiscono male senza neppure il clamore di una tragedia. L’anonimato in questo caso è la pena per contrappasso alla superbia.
Paola Musa è poetessa e romanziere. Il suo primo romanzo, Condominio occidentale (Salerno Editrice, 2008), è stato selezionato al Festival du Premier Roman de Chambéry e al “Premio Primo Romanzo Città di Cuneo”. Dal libro è stato tratto un tv movie per Rai 1 con il titolo Una casa nel cuore (2015). Tra gli altri suoi romanzi, ll terzo corpo dell’amore (Salerno Editrice, 2009), Quelli che restano (Arkadia ed. 2014), Go Max Go (Arkadia ed. 2016), L’ora meridiana (Arkadia ed. 2019) e La figlia di Shakespeare (Arkadia ed. 2020).
Ilaria Guidantoni
Il link all’intervista su BeBeez: https://bit.ly/34NLYKl
Un bel ritratto d’artista la nuova fatica della scrittrice Paola Musa, La figlia di Shakespeare. Una soggettiva incalzante, che segue la parabola discendente dell’attore Alfredo Destré, tornato alla ribalta, dopo un periodo di anonimato e l’esperienza di una mortificante serie televisiva, come Direttore artistico del teatro Global. La narrazione si apre sulla conclusione della stagione teatrale, da Destré consacrata, in virtù di una sua antica e pervasiva passione, alla rappresentazione straniante di opere shakespeariane riproposte “con sguardo rinnovato” e l’apertura a contaminazione con i feticci della società contemporanea. L’operazione appare riuscita e Destré è consapevole di apprestarsi a ricevere il prestigioso premio Shakespeare in the world. Eppure sin dalle prime battute alcune ombre si stagliano sul suo trionfo imminente: il rapporto – connotato da una certa freddezza – con la figlia Clara e l’incontro, che dà avvio, di fatto, alla svolta con l’‘amico’ attore Enrico Parodi, che con lui ha condiviso le stagioni dell’illusione giovanile, ma è tristemente avviato sul viale del tramonto. Le allusioni di Enrico riaccenderanno i fantasmi di un passato torbido, fantasmi che torneranno a ghermire la psiche di Alfredo, trascinandolo sull’orlo dell’abisso sino al colpo di scena finale. La figlia di Shakespeare è un’opera che avvince e vive della valida caratterizzazione del protagonista, ritratto a tutto tondo, nelle sue miserie morali come negli slanci che lo connotano. Emergono al fondo la storia di un’ambizione, il desiderio di emergere in un ambiente deprivato, il narcisismo con cui Alfredo si è accostato al medium del teatro. In tal direzione, si legga il suo rapporto con don Piero: Destré è disgustato dalle represse tendenze omosessuali del suo mentore, ma al contempo le stimola, allo scopo di manipolare l’altro servendosi delle sue debolezze. Emblematico anche il suo approfittare in gioventù di Maria-Ofelia, invasato da un furore egotico che lo aveva portato a recitare enfaticamente versi shakespeariani nel momento stesso in cui esercitava una violenza, forte di una superiorità intellettuale ma non etica. Eppure non mancherà in lui una resipiscenza; si pensi a quando, nel cap. XII, Musa indugia sui suoi moti interiori: “E l’assalì d’improvviso e a tradimento l’atroce dubbio che tutto quello sforzo per diventare qualcuno, tutta quell’enfasi nell’interpretare Riccardo Terzo, oppure Otello, ma anche nell’incarnare l’ovvietà mediocre del medico televisivo dalle certezze rassicuranti, altro non era che un disperato tentativo di celare a se stesso un uomo vuoto, senza volto e accenti”. E quel vuoto sembra avvolgere e impregnare di sé il patinato mondo del teatro, nobile arte dietro la quale si celano infinite meschinità, un girotondo di anime perse o incarognite che Paola Musa dipinge senza risparmiarne le turpitudini, talora anche ricorrendo a un lessico crudo, nel contesto di uno stile sorvegliato. Un mondo soggetto alla mercificazione dell’arte: quel Valore rappresentato da Shakespeare, che Bloom poneva al vertice del canone occidentale, per continuare a parlare è costretto a contaminarsi, a scendere a patti con il delirio di una contemporaneità che a quella nobiltà ha abdicato. Non è nemmeno un caso il fatto che nel finale Destré sia riconosciuto nel parco da ragazzini che lo ricordano per il ruolo del medico nella commercialissima serie televisiva e che tra l’altro gli preferiscono l’attore che l’ha sostituito, ‘prodotto’ dalla dozzinale fucina di un reality show. E così sembra che a vincere sia Enrico, che ha preferito percorrere sino in fondo, senza ripensamenti, il viale del tramonto, restando “un attore di teatro puro”, incontaminato, solitario, con l’unica compagnia del cane Puck e di ricordi agrodolci. Quello che appariva l’antagonista virtualmente trionfa, ma in fondo il lettore coglie che il grande nemico di Alfredo non fosse la “figlia di Shakespeare” (o le figlie?) o l’antico collega guastafeste, ma il proprio lato oscuro lasciato a sonnecchiare e pronto a tornare rovinosamente alla ribalta per un inveterato e parossistico amor sui.
Il link alla recensione su Giano bifronte critico: https://bit.ly/3cihxhM
Premio della Critica Etnabook 2019 con “L’ora meridiana”, incentrato sull’accidia, Paola Musa torna con il romanzo “La figlia di Shakespeare”, Eclypse di Arkadia, dove con la maestria che la contraddistingue porta in auge il vizio della superbia. Alfredo Destrè, grande interprete del teatro shakespeariano, anche se ormai avanti con gli anni, viene chiamato a riportare ai fasti di un tempo il più importante teatro di Roma. Accettato l’incarico il successo di critica e pubblico non tarda ad arrivare, così come il premio alla carriera, ambito per tutta la vita. Finita la stagione teatrale, tutti gli operatori dello stesso, assieme al Destré, si riuniscono in un ristorante per riassumere il lavoro svolto e salutarsi con l’augurio di futuri successi. Non tutti però tributano onori al Destrè, tra questi un suo ex collega di anni giovanili, tale Enrico Parodi, il quale procede per piano di screditamento verso il successo dell’ex collega, giungendo a coinvolgere la figlia di Alfredo, Clara, vogliosa di riscatto verso il padre. L’ormai settantenne, nonostante la sua fortissima personalità soffriva molto le critiche fino a quando in un confronto col Parodi emergerà il motivo dell’odio di quest’ultimo. Non spoileremo i dettagli di quest’altro capitolo dedicato ai sette vizi capitali che la Musa narra con dovizia, anche se si può accennare il dramma della metafora di chi vive la terza età senza famiglia causa dei rapporti conflittuali coi congiunti sempre pronti a criticare ogni comportamento o gli amici che si rivelano l’opposto. La storia ha una sua morale: ogni persona deve confrontarsi sempre col proprio vissuto, e quando si inizia a intravedere il traguardo, sembra che tutto si velocizzi. Della struttura del testo e dei contenuti che la Musa propone, nulla è da togliere. La lettura di libri come questo è cibo per la mente, specie se lo scritto è proposto da una fuoriclasse. Consigliatissimo. Incipit che riporta al destino!
Salvatore Massimo Fazio
Quando Alfredo Destrè accetta di risollevare le sorti del più importante teatro della città è un successo di critica e pubblico, che il vecchio attore spera di coronare con il premio alla carriera atteso da una vita. A metterne in dubbio il merito artistico e morale, sarà però un collega della sua compagnia teatrale giovanile, Enrico Parodi, che da sempre ha impersonato il fool shakespeariano. Dopo il buon successo di critica del precedente romanzo “L’ora meridiana”, incentrato sull’accidia, Paola Musa ritorna a indagare i peccati e i vizi della società moderna costruendo una storia magistrale intorno alla superbia. In queste pagine si riverberano così il senso del divenire anziani, lo scontro generazionale, l’incomunicabilità, il predominio di una tecnologia soffocante e alienante, la decadenza culturale, il sottile confine tra ambizione e valore e, dunque, la confusione tra grandezza e superbia.
Introduzione
C’è un mondo dove tutto è possibile, basta chiudere gli occhi ed essere trasportato in un sogno, eppure questo non sempre ha i colori e la magia della fantasia. Questo mondo che si chiama teatro ha un compito che da secoli è sempre lo stesso ma che con il passare del tempo è diventato sempre più difficile ovvero raccontare la realtà. Ė qualcosa di complesso che solo l’arte nella sua nudità può svolgere, far arrivare l’uomo a verità altrimenti indicibili. Raccontare la realtà non è poi così arduo e difficile come può sembrare, bisogna gestire la mutevolezza e allora? Chi è artista lo fa ogni giorno perché ogni spettacolo non è uguale a se stesso. Come se non bastasse già solo questo, bisogna anche affrontare il peso ideologico della cultura che è quotidianamente bistrattata e dimenticata perché fa comodo che lo sia. L’oblio della non conoscenza permette agli uomini di potere di plasmare le menti a loro piacimento. Il problema vero della cultura e ancora di più del teatro è la paura che esercita. Andare a teatro o farlo fa male, ma è un male costruttivo di quelli che scuote, anima, risveglia la nostra personale criticità dall’ antico torpore. Alla fine di uno spettacolo infatti, lo spettatore non è lo stesso. Ha dato il suo assenso ad indagare all’ interno del suo animo mettendo in risalto la propria intimità sviluppando un nuovo canale emotivo senza pudore e vergogna. Un viaggio dall’ esito incerto alla riscoperta del vero sé. Paola Musa compie però un passo in più svolgendo un ‘attenta analisi sui vizi, le virtù e le debolezze dell’essere umano partendo dall’ individuale arrivando all’universale. Ci sono verità scomode che fatichiamo ad accettare ma in particolari momenti della vita i confronti con se stessi non si possono più rimandare.
Aneddoti personali
Sono veramente felice di poter recensire questo romanzo non solo per l’amicizia che sta nascendo con Paola, ma perchè il teatro è la mia casa. Il mio rapporto con il teatro è difficile da spiegare a parole ma ci provo. Ė una lunga storia d’amore che ha superato grandissime prove ma siamo ancora qui innamorati come il primo giorno. Tanti anni fa durante il mio percorso di accettazione della mia condizione fisica che non finisce mai davvero, mi chiedevo spesso perchè il teatro avesse scelto me, pensando erroneamente che non potessi fare nulla per lui e per questo inarrestabile sentimento che sentivo nascere dentro me. Ho sbagliato chiudendomi nel nullo ruolo sociale che mi ritagliava la società eppure non è mai finito il sentimento. Il teatro mi accetta così come sono e questa è sicuramente la nostra forza che rende questa storia unica. Mi faccio nel mio piccolo portatore del suo messaggio soprattutto tra i giovani e nelle scuole, perchè il teatro è condivisione è riscoperta è vita. A me questa vita me l’ha salvata perchè insieme ai libri dà un senso a questo mio passaggio terreno. Questo libro infine, mi ha lasciato tanta inquietudine. Un ‘inquietudine bella di quelle che riscalda il cuore e mi porterò per sempre.
Recensione
L’essere umano si differenza dall’ animale per la capacità di pensare, parlare e per lo spirito critico. Siamo sicuri però che riesca realmente a farlo? Non siamo infatti mai disposti infatti a svolgere un percorso di autoanalisi, perché si ha paura della sconfitta certa e ci illudiamo e ci vediamo come esseri perfetti. Le nostre imperfezioni sono notate tuttavia dagli altri che sono pronti a puntare il dito su tutto, non immaginando che esso può essere anche rivolto contro. L’autrice ci conduce nell’ epoca contemporanea raccontando le sorti di un teatro romano che rischia la chiusura a causa della crisi e di altri fattori che ne sono la conseguenza. Questo teatro è apparentemente salvato da una rassegna sulle opere di Shakespeare svolta dal direttore artistico Alfredo Destrè. La crisi del teatro permette all’ autrice di indagare la decadenza dell’uomo moderno. La scelta del teatro elisabettiano e shakesperiano in particolare non è casuale perché non solo Shakespeare è uno dei più grandi drammaturghi ma è un autore che ha focalizzato la sua attenzione sul flusso di coscienza, domande apparentemente senza risposta o dalla difficile risoluzione che si interrogano sull’ esistere e sugli aspetti miserevoli della condizione umana schiava di ingannevoli ideologie e irriverenti passioni. La scrittrice conduce i lettori in un viaggio particolare, raccontando di un grande attore dalle straordinarie capacità mnemoniche, ma che risulta essere un fallimento sul tutto il resto. Il protagonista Alfredo Destrè si può descrivere come un moderno Dorian Gray con l’animo di Lady Macbeth, poichè nonostante sia macchiato di sangue, le sue mani appaiono sempre pulite. L’autrice sfrutta al massimo le capacità attoriali del suo protagonista mettendolo ulteriormente alla prova , così bravo nei ruoli di Otello , Amleto , cosa accade quando si ritrova suo malgrado ad interpretare se stesso? La capacità affabulatoria, la tecnica e la forza ammaliatrice del suo essere riusciranno a salvarlo? All’ interno del romanzo diviso in diciassette capitoli c’è anche spazio per il confronto tra diverse idee di fare teatro, tra la purezza e l’impurità dell’arte che si ritrova ad essere contaminata dai nuovi linguaggi che rispecchiano la società circostante. Ci si chiede quanto realmente si può corrompere l’arte? Quanto l’essere umano può cadere in basso per il raggiungimento effimero del successo? La figlia di Shakespeare è un romanzo sulle apparenze e le sue conseguenti ramificazioni, menzogna e ambiguità tra tutte. La scrittura è perfettamente cruda come deve essere poiché segue il canovaccio prefissato. Un plauso meritano i dialoghi forza motrice del racconto perché mettono in risalto un altro aspetto calzante di tutta la storia: il confronto – scontro generazionale. Il protagonista si scontra con tutti dai pari ai giovani provando per loro un senso di disgusto che circoscrive la sua soggettiva supremazia. Ė un uomo asettico che cerca di nascondere la propria fragilità, come se avesse fatto un patto col diavolo per arrivare al successo. Un altro punto fondamentale del libro è appunto il successo raccontato con luci e ombre e tutti i demoni in mezzo. E mentre Alfredo diventa schiavo della finzione sul palcoscenico appaiono altri personaggi come ad esempio l’ostinata e delusa figlia Clara che cerca di scuoterlo pur di avere delle risposte vere ad alcuni interrogativi che hanno sempre caratterizzato la sua esistenza, oppure il buon Enrico Parodi anche lui attore e vero amico di Alfredo che sfrutta il sarcasmo per nascondere il baratro della solitudine in cui è irrimediabilmente caduto a causa di un segreto inconfessabile. Cerca anche lui di risvegliare la coscienza di Alfredo se mai ne abbia avuta una. Il palcoscenico di Paola Musa è strutturale e metaforico, il lettore – spettatore squarcia l’animo del protagonista costringendolo a indossare il vestito della sua vera pelle che lui stesso aveva rinnegato cullandosi sul potere illusorio della dimenticanza. Il titolo come tutta l’opera ha un significato ambivalente. Alfredo crede di essere il paladino di Shakespeare ed ecco spiegato il significato letterale. Ė Clara quindi la vera protagonista del romanzo che attraverso la ricostruzione del suo passato costringe il padre ad affrontare i suoi fantasmi? Oppure il passato di Alfredo Destrè nasconde altri segreti? Il significato figurato ci fa giungere alla conclusione che la vera protagonista figlia un pò di tutti noi perché presente nell’ animo umano è la superbia. Tra segreti, riflessioni e caducità del vultus, la scrittrice ci regala una storia amara, vera ma non priva di magia che bisogna cogliere prima che il sipario del destino si chiuda per sempre e l’ultima lacrima del rimpianto righi il nostro volto.
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