NULLA D’IMPORTANTE TRANNE I SOGNI di Rosalia Messina
Tolstoj ci allerta sul fatto che tutte le famiglie felici s’assomigliano mentre ogni famiglia infelice lo è a modo suo. Rosalia Messina in Nulla d’importante tranne i sogni ci conduce nel peculiare labirinto di luce nera di una famiglia della borghesia siciliana: soprattutto, due sorelle, per motivi diversi in rotta con la vita, separate da tutto, ma più che d’ogni altra cosa dallo iato che genera solo l’ineguale distribuzione del talento, diversità che alimenta sull’una supponenza e sull’altra invidia: i fallimenti puzzano e i successi profumano, addirittura, puzzano e odorano di più quelli, di entrambe le categorie, ingiustificati. Ro, scrittrice di successo, speleologa della psiche femminile, Nana sciatta, tendente alla pinguedine, insegnante insoddisfatta, sola contro il mondo: un figlio, Fosco, che gode del successo ed è riconosciuto dalla isomorfa zia, e una figlia, Giada, alcolista, in lotta con la vita e soprattutto con sé stessa; Ro: una specialità nel raffigurare la deflagrazione dei legami sociali, una Vita ispirata alla letteratura sulla vita.
Fin da quando aveva iniziato, giovanissima, a scrivere, si era prefissa di far intravedere, come in controluce, i meccanismi che fanno nascere odi sotterranei e dipendenze che strangolano vittime e carnefici.
Nel frattempo ci si barcamena, si finge di non fingere, si santificano le feste, si fanno i brindisi, va in scena il bigotto mondo di fuffa nella cui nebbia si nasconde l’acredine reciproca: si abbracciano eppure il male è presso loro più di loro stessi. L’equilibrio è instabile, basta un soffio del vento del livore e l’habitat si squassa, parte per la tangente, non ha l’inerzia del ritorno. Le sorelle smettono di recitare, smettono di parlare, smettono di considerare l’altra come complemento di sé stessa, non smettono, però, di pensarsi come nemiche.
Mi fai schifo come tutti coloro che imputano i propri fallimenti ad altri, come se altri avessero scelto al loro posto i sentieri che non andavano nella giusta direzione.
Ro esce da un rapporto di contrabbando con lo sposato Giorgio, fatto di umori delle alcove e colori del sogno e si avvicina alla sua amica-confidente-segretaria Anita, rendendola sua complice in un articolato piano di vendette ai danni dei parenti serpenti; Nana s’allontana dal suo compagno, Attilio. Siamo al punto di discontinuità della storia: Ro scopre un alieno che la abita, un male etichettato come patologia autoimmune: il giudizio è inappellabile e la sentenza rompe gli equilibri provvisori della vita quotidiana, la scrittrice invia una nutrita serie di lettere per bruciare le navi dietro di sé. Il resto è sciame sismico di ordine inferiore, un cozzare di baruffe chiozzotte in lotta per un po’ di panìco (Nana e sua figlia Giada) o il riconoscimento di un profilo morale (Fosco e sua moglie Marika). Le figure disegnate da Rosalia Messina – anch’essa, come la protagonista, scrittrice siciliana e con le stesse iniziali, un caso? Non rileva: l’unica realtà è la finzione del racconto (il resto esiste ma non è) – sono nette, stagliate contro lo sfondo d’ardesia dell’incomprensione; non presentano, in generale, nessun chiaroscuro; ritratte sul ciglio del baratro non riescono ad apprezzare la confortevole luce che sa dare solo una certa età, il sollievo di essere liberate dalla forza della giovinezza, dalla sua imposizione a brandire un’ascia, dall’imperativo di fare, di fare, di fare: non percepiscono la tranquillizzante serenità di osservare da lontano il cozzo degli altri, le loro giravolte furiose, la disperazione del vinto, senza provare per tutto ciò nessuna partecipazione, solo il lento mescolarsi del ricordo; no, proprio no! I personaggi di Rosalia Messina – anzi la sua colonia di anti-eroi – combattono, sempre, persino dall’oltretomba! L’autrice li fa lottare anche dopo le Colonne d’Ercole dell’esistenza, è questo che li rende maschere, nel senso di Pirandello, privi sia di logos che di pathos, schiavi dell’impossibilità di dimenticare – come Funes di Borges che dopo una caduta acquisisce l’incredibile facoltà di ricordare tutto: ‘i rami e i grappoli di un pergolato, la forma delle nuvole australi dell’alba del 30 aprile 1882, il tracciato della schiuma che un remo …’ – soprattutto gli archetipi di Messina rammentano i torti subiti e ne fanno legna per il falò del loro malcontento. Nell’architettura dei piani narrativi, il perno è il rapporto dell’autrice con Ro: Messina parteggia per Ro, proprio mente la dipinge a tinte fosche – qui sta la peculiarità, la straordinaria trovata retorica – come a dire al lettore: vedi, sì, sì, è così, cosa ci vuoi fare? Ha sempre e solo offerto oboli al proprio talento, allora, vogliamo crocefiggerla per questo? Via, non scherziamo, i vincoli etici dell’ultra-uomo nietzschiano non sono forse più laschi di quelli validi per un bottegaio? Eppure l’inclinazione di Ro verso il profilo morale lascia perplessi: da giovane si è giovata (inconsapevolmente?) del rapporto con un’affermata scrittrice per imporsi al pubblico e nei confronti della sorella e della nipote ha utilizzato il peggior arsenale del mondo borghese: i soldi. Nulla come i quattrini crea il potere di una persona su un’altra, anzi mette chi dipende in una zona di minorità che prescinde dalle capacità, dagli affetti, dalle situazioni, da tutto. Se i quattrini divengono l’unica metrica ha sempre ragione chi paga il conto al ristorante, questo è tutto. Così Ro s’era ritirata in sé stessa, in un mondo di cartapesta, per realizzare nell’illusione quello che inconsciamente aveva sperato, ma non era riuscita a fare, nella realtà: una vita colorata dall’affetto del prossimo, invece tutte le opportunità che si sono presentate sono state sacrificate sull’altare del talento. Messina capovolge magistralmente il detto di Lacan, che quando l’essere amato va troppo lontano nel tradimento di sé stesso e persevera nell’inganno di sé, l’amore non lo segue più: nel caso di Ro è esattamente il contrario, l’affetto si perde per ipertrofia, non per l’anemia, dell’io. La figura più equilibrata del racconto è probabilmente Anita, che si trova persa nel labirinto dei rapporti tra gli altri personaggi volendo, probabilmente, solo trovare il pertugio per uscire ‘a veder le stelle’. Nulla d’importante tranne i sogni è soprattutto un libro di libri: al suo interno si parla, si cita, si riportano brani delle opere di Ro, per cui nella finzione, ancora una volta à la Borges, il libro diviene un meta-testo che ci appare reale e i libri di cui parla, invece, mere rappresentazioni del mondo. Rosalia Messina ci ha raffigurato il conforto che la letteratura offre alla nostra solitudine, l’autrice ci presenta la difficoltà, ma anche la necessità, di essere adeguati a rapportare la vita con il suo bordo estremo, con la morte. In fondo pratichiamo la letteratura per avere l’illusione di vivere le vite sognate, cioè per coltivare l’inganno che non sia andata sprecata l’unica vita realmente posseduta. In questo la letteratura, il canone come direbbe Bloom, non è il ministro della cultura egemone, ma il ministro della morte, la grande letteratura, tutta la grande Letteratura, ci parla della solitudine di fronte alla morte, in questo senso un esercizio heideggeriano: con il suo libro, nell’attraversare questo dirupo, Messina ci tiene, splendidamente, per mano.
P.S.: Rosalia Messina è anche una appassionata lettrice che collabora con 84 Charing Cross.
Antonio Rossetti
Il link alla recensione su 84 Charing Cross: https://bitly.ws/WxyV