“ Cagliari, 13 giugno 1781, chiesa di Sant’Eulalia.
«Evviva gli sposi!» «Lunga vita ad Annica e Gio Maria!»
Gli invitati in festa per il lieto evento lanciavano spighe di grano e rose che, stagliandosi su un cielo vespertino rosato dal tramonto, ricadevano al suolo tappezzandolo di macchie dai colori tenui. Un profumo di petali appena raccolti saturava l’aria lieve e tiepida di quel giugno cagliaritano. […] La tattica della riservatezza che le avevano imposto nei confronti del fidanzato poteva essere abbandonata e la ragazza poteva ora aprirgli il cuore. Era ardente e piena di vita come una bambina da quando si era tolta il peso di dire «Sì».”
Con questo incipit la scrittrice siciliana Adriana Valenti Sabouret ci coinvolge subito nella vicenda della giovane coppia, Annica Belgrano e Gio Maria Angioy, che si appresta a iniziare un viaggio difficile, nonostante l’amore che li unisce. Avranno tre figlie: Speranza, Giuseppa e Maria Angela. Dopo la morte improvvisa della madre le tre sorelle perderanno anche il padre che diventò sempre più insofferente al regime totalitario dei Savoia che governavano l’isola e abbracciò gli ideali democratici per difendere i contadini dagli abusi dei feudatari. A causa delle sue idee libertarie, fu bollato come traditore e fuorilegge. Dovette fuggire per evitare la condanna a morte.
Visse gli ultimi suoi anni a Parigi, solo e malato, assistito da Madame Dupont, una locandiera, fino al giorno della morte. Nel secondo romanzo “Le nobili sorelle Angioy”, la scrittrice, continua con un lavoro investigativo e capillare sulle vicende legate al patriota sardo e alla sua famiglia, dove racconta e spiega perché le figlie si rifiutarono di incontrare Madame Dupont. Giovanni Maria Angioy, ebbe una brillante carriera accademica, che lo portò a far parte della Real Udienza, il massimo organo giurisdizionale dell’epoca. Fu il cardine nella Sardegna di fine Settecento, rimasto simbolo di uniformità e di patriottismo ancora oggi. Un intellettuale arguto e intelligente: le sue idee politiche erano, già allora, all’avanguardia: la sua visione realistica sull’economia della Sardegna è ancora motivo di riflessione e di discussione.
“Il suo impeto di gioia alla vista della figlioletta era stato offuscato dalla famiglia Belgrano, moralmente troppo distante da lui. I loro due mondi incompatibili: legati alle apparenze e attaccati ai beni i Belgrano; idealisti, spirituali e liberali gli Angioy, degnamente rappresentati da Giovanni Maria. Non che l’uomo non badasse al materiale: sapeva essere concreto e occuparsi di finanze ma non tanto da farsene abbagliare. Il denaro era per lui mezzo e non il fine.”
Traspare dal romanzo tutta la forza di quel periodo di dure lotte. Il ruolo radicato profondamente nella nobiltà feudataria iniziò a sgretolarsi già sul finire del ‘600 e continuò la sua lenta decadenza per tutto il ‘700 fino alla rivoluzione francese. La contestualizzazione storica del romanzo indica che le ragioni della decadenza feudale furono l’economia e la politica, la mancanza di uno spirito imprenditoriale e l’assenza di quella visione nuova, auspicata da Giovanni Maria Angioy, necessaria per gestire un feudo. Nel sottofondo c’era la Cagliari ancora avviluppata nelle proprie tradizioni arcaiche: tradizioni che furono i punti nevralgici della ribellione, spianando la strada alla “Sarda rivoluzione.” I sudditi rivendicavano una parte degli impieghi civili e militari e una maggiore autonomia alla classe dirigente locale: al rifiuto, da parte del governo Piemontese, la borghesia cittadina con l’ausilio del resto della popolazione incitò all’insurrezione; le idee di autonomismo e indipendentismo isolano iniziarono a prendere forma, esprimendosi apertamente contro la tirannide del feudalesimo difeso dai Savoia a danno dei sudditi sardi: infatti l’imposizione fiscale era molto pesante.
La lotta iniziata già negli anni Ottanta del Settecento, proseguì negli anni Novanta attraversando tutta l’isola. Pesò molto il rancore che la Sardegna fosse chiamata in causa nella guerra della Francia rivoluzionaria contro gli stati europei e di conseguenza contro il Piemonte. Nel 1793 una flotta francese tentò di sbarcare a Carloforte e a Cagliari. I Sardi opposero resistenza con ogni mezzo a loro disposizione, in difesa della loro terra e dei piemontesi. Questa vittoria contro i francesi diede fervore alla popolazione, che si aspettava una ricompensa per la fedeltà alla Corona, la quale ricompensa non arrivò mai. L’arresto comandato dal viceré di due membri del partito patriottico, gli avvocati cagliaritani Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor, fu la scintilla che diede inizio all’insurrezione. Proprio il 28 aprile del 1794, la popolazione esasperata decise di allontanare il viceré e tutti i piemontesi. Sono i giorni “de s’aciapa”(la caccia ai piemontesi ancora in città). Incoraggiati, gli abitanti di Alghero e Sassari, fecero altrettanto. “Sa die de sa Sardigna” è la festa del popolo, per i “Vespri Sardi”, ovvero la rivolta popolare del 28 aprile 1794, che ricorda, appunto, l’allontanamento da Cagliari dei Piemontesi e del viceré.
“Gio Maria, se solo riusciste a comprendere il bene che vi voglio…ma la vita che conducete non è la mia. Le vostre lotte non soltanto mi lasciano indifferente ma m’infastidiscono e disturbano la mia famiglia. Potremmo vivere bene, insieme siamo una forza. […] Occupate un incarico di prestigio.[…] Perché con i vostri atti vi ponete a rischio di offendere il governo sabaudo? Perché non mettete a tacere le idee che vi spingono a lottare per gente che neanche conosciamo? Il popolo Sardo…Come fate a preferirlo alla vostra famiglia?”
Annica lo amava, ma non riusciva a capire le sue idee né i suoi pensieri. Prigioniera nella gabbia dorata di quell’ambiente nobiliare e aristocratico. Lei e le loro figlie soffriranno di questo abbandono e lo vivranno come un tradimento coltivando a lungo sentimenti contraddittori. L’amore incondizionato di un padre viene travolto dagli eventi con conseguenze devastanti; l’oppressione di un’infanzia logorata dalla precoce morte della madre accompagneranno la vita di Speranza, Giuseppa e Maria Angela. Intorno alle tre sorelle ruotano personaggi realmente vissuti sullo sfondo dei progressi societari significativi del secolo dei Lumi, che porrà le basi della nuova Sardegna. Le frasi, i dialoghi, le descrizioni di volti, di strade, di chiese, di cieli, di natura, svelano una presenza che commuove, che alimenta un misterioso fuoco all’interno della scrittura: questa è la Libertà. Voci di uomini che si distinsero con coraggiose idee di modernità, rimasti profondamente coinvolti nella grande storia contemporanea; essi sono ancora vivi, come la loro passione. Uomini e donne non più sconfitti, ma colpevolmente dimenticati in fosse comuni.
Pro
Uno stile ricco di neologismi e di sinestesie, danno colore alla narrazione.
Contro
Alcuni passaggi troppo prolissi rallentano una brillante scrittura.
Trama
Tre nobili fanciulle cagliaritane orfane di madre e figlie di un eroe rivoluzionario in esilio a Parigi sono lacerate dal dilemma se continuare ad amare il padre, contro il suo apparente abbandono e il tessuto sociale reazionario in cui evolvono, oppure imporsi di dimenticarlo sino a ignorarne le ultime volontà? La prima opzione, in accordo con il cuore, le condurrebbe alla perdita. La seconda, salvando le apparenze, garantirebbe loro onore e rispetto in una Sardegna monarchica e conservatrice. L’amore incondizionato di un padre, le conseguenze devastatrici della sua perdita, dopo un’infanzia minata dalla morte precoce della e la chiusura in monastero, accompagnano le vite di Speranza, Giuseppa e Maria Angela Angioy sopraffatte da un carico emotivo troppo pesante per le loro spalle. Attorno alle tre sorelle brulica un universo di personaggi realmente vissuti nel Settecento sardo, sullo sfondo dei progressi societari tipici del secolo dei Lumi che porrà le basi della Sardegna moderna. Le nobili sorelle Angioy è una storia vera di umanità fondata sulla famiglia, l’amore, la perdita, il dolore e il tradimento ma anche di forza, quella di tre ragazze al bivio la cui scelta di vita celerà una sofferenza interiore non indifferente. Una storia che evidenzia personaggi anche imperfetti, regole societarie schiaccianti e i contrasti quasi insolubili che condurranno le sorelle a una scelta delicata.
Raffaelina Di Palma
Il link alla recensione su Thriller Storici e Dintorni: https://tinyurl.com/fwaf9dah
“Attraverso la scrittura ho conosciuto me stessa, ho scoperto e chiarito le mie idee, ho iniziato a trascinarle fuori con decisione e fierezza e ho imparato a decifrare la realtà”.
Roberta Di Pascasio è una scrittrice che intende indagare le tante sfumature della realtà attraverso la narrazione. Io, che la conosco da qualche tempo e ho letto gran parte della sua produzione letteraria, non saprei definirla in un modo diverso. Mi pare che per lei la scrittura sia sempre stata un modo per conoscere meglio l’animo umano attraverso le azioni dei personaggi, gli atti nobili o perversi, i tradimenti e le debolezze, i momenti di forza e le piccole o grandi rivelazioni sulla nostra vita. Per fare questo, ci vuole bravura e coraggio, doti che a Roberta Di Pascasio non mancano. Adesso ha da poco pubblicato una raccolta di racconti, Il lato nascosto delle storie (Arkadia 2024), che è anche una sorta di romanzo perché tutte le storie dei protagonisti non solo sono legate tra loro, ma dipendono in qualche modo l’una dall’altra. Il risultato è uno scavo psicologico ed emotivo dei personaggi che non nasce da elucubrazioni vaghe, ma dalle loro vicende. Sono loro che vengono “scavati” dagli sviluppi dei vari fatti che gli capitano o che fanno accadere. A questo punto, dopo aver letto il libro, ecco che mi ritrovo a parlarne con l’autrice.
La prima cosa che mi colpisce è la frase di Jonathan Coe che metti all’inizio: dice che il linguaggio è un traditore. Ti sei sentita tradita dalle parole, oppure è il linguaggio che ti ha costretto a scrivere?
La frase di Jonathan Coe riassume perfettamente la storia del protagonista del primo racconto e il lato peggiore del suo dramma: non capire quale vile macchinazione ci sia dietro il suo arresto. Tradita dalle parole? Direi di no, le parole non mi tradiscono mai, “le amo, mi ci aggrappo, le inseguo” direbbe Neruda, semmai sono stata tradita da quelle degli altri, ingannevoli o manipolatrici, ma a chi non è capitato? Se devo risalire a un tipo di tradimento che mi ha spinto a scrivere penserei al contrario, ossia al silenzio. Sono stata una bambina riservata, accomodante, in psicologia sarebbe l’archetipo di Persefone, silenziosa, in disparte, incapace di far valere le proprie idee, ma al tempo stesso ricettiva, con una vita interiore ricchissima e colorata. Il silenzio era paura di esporsi, forma di timidezza, rifiuto del contrasto, ma veniva scambiato per fragilità e incapacità di lottare. Ho iniziato a leggere libri per vivere quanto nella realtà mi precludevo e ho iniziato a scrivere storie per dare voce a un’interiorità inespressa. Non per imbellettare la mia storia, per me è stato davvero così: attraverso la scrittura ho conosciuto me stessa, ho scoperto e chiarito le mie idee, ho iniziato a trascinarle fuori con decisione e fierezza e ho imparato a decifrare la realtà. Da allora la penna – così come questo libro – è l’antidoto al silenzio e al riserbo.
Comunque, questa tua serie di storie è anche attraversata dal tradimento, quello vero, no?
Esatto, un tradimento che può assumere varie forme e avere differenti motivazioni che spingono ad attuarlo: l’incapacità di accettare il proprio fallimento, l’ossessione per il successo, la propensione all’invidia o alla vendetta, l’idea che calpestare gli altri per arrivare alla meta è tutto sommato accettabile. Il tradimento è tra le cose che mi spaventano di più, soprattutto la possibilità che l’inganno venga da persone care. Credo che faccia soffrire non tanto l’atto meschino in sé, quanto dover accettare la propria ingenuità, l’averci creduto, aver donato una parte preziosa di sé a qualcuno che poi l’ha violata. Quando leggo la frase di Flaubert “non toccate mai i vostri idoli: la doratura si attacca alle dita” penso: e se la doratura fosse la nostra? Se a volte scoprissimo di essere più sciocchi di quanto pensiamo? Spesso la delusione non è per gli altri ma per se stessi, e forse è vero che perdonarsi è la cosa più difficile perché permettiamo noi di farci del male. Ci scopriamo ingenui, deboli, fiduciosi, o semplicemente non amati come pensavamo.
Cos’è che t’interessava narrare, questa volta?
L’ho capito soltanto quando ho finito di scrivere tutte le storie, scrivere mi aiuta a mettere in ordine i pensieri. Stavolta non sono partita da un elemento concreto – un’idea un argomento un personaggio – ma da qualcosa di interiore, da sensazioni, diciamo così, e da un modo di vedere la realtà che è un po’ cambiato negli ultimi anni. Il mondo in cui viviamo, che leggiamo su internet, che vediamo alla tv, mi pare così imbruttito, abbrutito… lo so, detta così mi fa sembrare una di quelle anziane che si lamentano “questo mondo non lo riconosco più!” Parlo dell’aspetto prettamente umano, è sempre più oscuro, prepotente, ogni idea o avvenimento viene spaccato a metà e si può dire solo sì o no, è giusto o sbagliato, è vero o falso, si creano schieramenti opposti per ogni cosa e i social facilitano questo approccio categorico e aggressivo, niente più vie di mezzo, sfumature, riflessioni, dire non lo so pare una colpa. C’è una compulsione a giudicare e a criticare, senza più spazio per i dubbi, la flessibilità, l’ascolto. Invece il mondo è pieno di sfumature e di punti di vista. Per questo mi interessava raccontare storie diverse collegate tra loro attraverso i personaggi – un protagonista di un racconto diventa un personaggio secondario di un altro, poi una comparsa e così via –, una sorta di romanzo a episodi: ognuno rappresenta un tassello che insieme agli altri forma un mosaico, l’intento è mostrare quanti punti di vista possono esistere di uno stesso spicchio di mondo e quanti lati nascosti della realtà e della vita degli altri non vediamo, non capiamo e non possiamo giudicare. Il “nascosto” del titolo può avere un doppio significato: sia nel senso di colpevole, negativo, ambiguo, sia nel senso di intimo, doloroso, protetto.
Scrivi in queste pagine di un ex carcerato, di un’insegnante, di una giornalista, di un giudice, e via così. C’è uno dei personaggi al quale ti senti più vicina?
Mi sento vicina a tutti, soprattutto alla loro parte ammaccata o nascosta. Ma se devo sceglierne uno, penso a Carolina: ha 12 anni e vive come dimezzata, da un lato la vita in famiglia e a scuola e dall’altro il mondo parallelo della fantasia, dei libri in cui si immerge totalmente come un palombaro che scende negli abissi, un incantesimo che la assorbe e la aiuta a sopportare meglio la realtà, soprattutto la solitudine e l’amarezza. La letteratura salva? Non sempre, anche in questo caso ci possono essere prospettive differenti. Se una ragazzina abbandonata a se stessa legge libri non adatti alla sua età, per i quali non ha la struttura psichica, la consapevolezza e la maturità che riescano a fungere da filtro, allora anche sognare e immaginare possono svelare il loro lato oscuro.
Un altro tema che mi sembra molto evidente è quello dell’assenza, della solitudine, dell’abbandono…
Sì, tra i vari temi che si intrecciano nei racconti troviamo la solitudine, a volte imposta dagli altri e a volte usata come difesa, c’è la mancanza che può essere intesa come una voragine in cui sprofondare o come una presenza che diventa abitudine o talmente familiare da costruirci intorno la propria vita, scopriamo l’abbandono subìto che diventa rabbia o annientamento, l’integrità che se portata alle estreme conseguenze si trasforma in intransigenza ottusa. In realtà ogni tema può essere ribaltato e visto da un’ottica differente e alla fine tutti i temi confluiscono in una domanda che riguarda tutti i personaggi: il destino esiste o è un’invenzione? Nella vita ogni cosa ha un senso, una direzione, le motivazioni hanno valore, le coincidenze uno scopo, le scelte sono determinanti, oppure è tutto banale e fortuito, un insieme di strade senza uscita e di incontri superflui? Esiste davvero un destino per tutti, costruito pezzo per pezzo dalle scelte, dalla famiglia, dal carattere, dalle paure, oppure ogni esistenza è puro caso, una ruota che gira e noi tanti piccoli criceti che corrono senza andare da nessuna parte? Essere un criceto impotente o credere nella volontà e nell’autodeterminazione?
Hai già provato con successo la forma racconto e la forma romanzo, ora hai deciso di scrivere un libro che non è propriamente un romanzo ma nemmeno una vera e propria raccolta di racconti. Perché?
Mi sono resa conto che l’incrocio tra romanzo e racconto era la forma narrativa perfetta per ciò che stavo raccontando: costruire una sorta di catena, fatta di anelli autonomi dal punto di vista narrativo ma che trovano il loro compimento nell’unione con gli altri, mi consentiva di narrare lo stesso spaccato di mondo attraverso diverse prospettive. Avere più libertà, più elasticità. Ma c’è anche un motivo meno nobile e molto più semplice: ho scritto quasi sempre romanzi e il tipo di storia che mi appassiona, il romanzo psicologico o di formazione, prevede uno scavo, una estensione e una complessità che nel tempo ho trovato faticosi a livello di investimento emotivo, di energia fisica e mentale; per due, tre anni seguivo le vite dei personaggi, li studiavo, scavavo nella loro psiche, nelle motivazioni, nei guasti, nelle contraddizioni, nelle gioie e nelle ferite, e alla fine di ogni pubblicazione mi sentivo sfinita, tanto che per mesi non riuscivo a scrivere più nulla. Avevo bisogno di depurarmi. Quando ho scelto la forma del racconto, anche se non tradizionale, mi sono sentita felice e molto curiosa, è bello cambiare, mettersi in gioco e rischiare.
C’è qualche autore contemporaneo che ti ha ispirato nella scelta della forma narrativa?
Per la scelta della forma narrativa no, nessuno di preciso, ma alla fine veniamo influenzati più o meno inconsciamente da tutto ciò che leggiamo e ammiriamo. Ho letto tante raccolte di racconti (non solo contemporanee) durante la stesura de Il lato nascosto delle storie, alcuni autori li ho riletti, come Carver o Richard Yates, altri sono stati una scoperta straordinaria, come Scommessa su un fantino morto di Irwin Shaw e Gesù dell’uragano e altre storie di James Lee Burke. Ma se posso citare un libro che non c’entra nulla con il mio progetto né con la forma del racconto, ma che mi ha letteralmente travolto e ammaliato, dico Lonesome Dove di Larry McMurtry: un colpo di fulmine, un romanzo che ne contiene altri dieci o un romanzo fatto di centinaia di racconti, un inno alla libertà, al coraggio e all’immaginazione di cui oggi abbiamo bisogno un po’ tutti.
Lavori in molti ambiti della cultura, scrivi, hai un’officina letteraria in cui organizzi incontri e laboratori, ti occupi di teatro e hai fatto la giornalista culturale anche in televisione. Cosa ti piace di più fare?
Mi piace tutto, in realtà. È l’amore per la letteratura declinato in varie forme, esperienze diverse ma in sintonia tra loro: mi appassiona scrivere, aiutare gli autori alle prime armi, recensire i libri che amo, far parte della giuria dei concorsi letterari, intervistare gli artisti che ammiro, scrivere articoli per i giornali, organizzare da anni un concorso per il teatro. Ma se devo scegliere due esperienze in particolare perché diverse da quanto fatto finora e perché caratterizzate da un lavoro di squadra che la scrittura in generale non prevede, ricordo con gratitudine la rubrica culturale in televisione con ospiti in studio e il progetto della trilogia fotografica e narrativa sulle bellezze storiche, artistiche e culturali della mia terra, l’Abruzzo.
Vivi e lavori in Abruzzo, pensi che stare lontani dalle grandi città come Roma, Napoli o Milano sia un privilegio oppure ti manca qualcosa delle metropoli?
Per stare in tema con il mio libro, condivido tutti e due i punti di vista: è un privilegio vivere in una terra magnifica come l’Abruzzo – ricca di natura, di storia, di pace – e fare qualcosa di buono in una piccola città come la mia, perché credo fortemente nell’importanza e nella necessità di promuovere cultura proprio dove ci sono meno possibilità e meno risorse rispetto ai grandi centri; al tempo stesso mi mancano le occasioni di cui le metropoli sono ricche, gli eventi, le mostre, le fiere. Ma amo viaggiare, quindi le distanze non mi spaventano.
Scrivi che ogni libro è un viaggio, cosa significa per te scrivere?
In aggiunta alla risposta che ho dato alla prima domanda, penso che la scrittura sia essenzialmente conoscenza, sia dal punto di vista del lettore che scopre o impara cose nuove, sia dal punto di vista dello scrittore, che si mette in gioco, si denuda, riflette su se stesso in relazione al mondo, e fa esperienza insieme ai suoi personaggi che si muovono e si trasformano sotto i suoi occhi, diventando ciò che all’inizio non pensava potessero essere. Un viaggio interiore dunque, e al contempo un viaggio reale fatto di connessioni, di tappe, di scoperte, di un dialogo con i lettori – quelli che ti leggono soltanto e quelli che incontri durante le presentazioni – e anche con il tuo editore: quando sei fortunato (e con Arkadia io lo sono davvero) ti sostiene, ti consiglia, ti fa viaggiare nel modo migliore.
Paolo Restuccia
Il link all’intervista su Storygenius: https://tinyurl.com/278acj7s
Avezzano – Il lato nascosto delle storie, è un libro le cui pagine si aprono su quei luoghi dello spirito o della mente, fate un po’ voi, dove la ragione non vorrebbe mai entrare. Una cantina buia dove le verità più scomode stanno chiuse a chiave, soffocate dal bavaglio del giudizio altrui. Sui polsi, i segni di paure antiche, che stringono la carne fino a farla sanguinare. Ognuno dei personaggi è ostaggio di un lato nascosto che definisce i contorni di territori inesplorati, lungo i cui confini si aprono abissi spaventosi. I protagonisti stanno in equilibrio precario sul filo di esistenze scialbe, ordinarie, fino a quando la vita presenta loro il conto, e l’oscurità inghiotte la tiepida fiammella tremula che tiene in vita le illusioni. Il lettore si immerge nella lettura dei racconti che descrivono personaggi irrisolti, legati fra loro da un sottile filo che sembra lo scherzo di un fato beffardo onnisciente, scappato dalla penna creativa della scrittrice, Roberta Di Pascasio, unica indiziata della fuga di questo demone dal vaso di Pandora dei libri non scritti. È il caso che si prende gioco delle nostre vite oppure siamo noi i principali artefici del nostro destino? Una domanda che potrebbe essere il sottotitolo di questa raccolta di storie minime dense di verità. La minuziosa descrizione di ambienti e luoghi, di oggetti e putridume, di mura scrostate e periferie riarse dal sole, con il loro portato di decadente abbandono, sembrano mettere in scena la disperata ricerca di una vita vera che chiede, prima di tutto, lealtà con se stessi. Il sesso come analgesico per lenire il dolore di una realtà che annichilisce, l’abbandono, la lascivia di corpi che si usano a vicenda alla ricerca del piacere nel vuoto di esistenze apparentemente senza prospettiva, sono solo alcuni dei tratti distintivi di un’atmosfera fosca che trasferisce al lettore una sensazione di straniamento. In ognuno dei dieci racconti che compongono la raccolta emerge il profilo di un protagonista sul quale è costruita la trama di una storia popolata da personaggi minori, comparse che a loro volta diventano protagoniste nel racconto successivo, non necessariamente in ordine consequenziale. Questa trovata narrativa è molto efficace nello spingere il lettore a riflettere sugli infiniti ruoli che può assumere un individuo nella vita, dove troppo spesso ci si accapiglia per occupare il centro della scena nell’illusione di essere i protagonisti della storia, inconsapevoli del rischio affatto infondato, di ritrovarsi relegati ad anonimi spettatori di quinta fila. L’occhio discreto della scrittrice tenta di offrire una risposta attraverso la semplicità degli ultimi, di quelli che non hanno più nemmeno il diritto né la dignità di appartenere al consorzio umano. Una coperta per affrontare il freddo delle notti, uno spazzolino da denti che vale più del denaro, e un sorriso che diventa un’ancora di salvezza per una vita spesa malamente inseguendo le apparenze. Le terre estreme del degrado umano, fra senza tetto che vagano per la città e giovani criminali, e quelle apparentemente più rassicuranti dei piccoli borghesi incatenati al perbenismo tossico di un mondo crepuscolare, sono descritte dalla Di Pascasio con precisione quasi maniacale. Storie che hanno il sapore acidulo del mondo rarefatto raccontato da Raymond Carver, capace di rendere epica la descrizione di un pomeriggio trascorso in lavanderia. Forse sta tutto lì il senso di un intreccio narrativo che ti fa chiedere: ma quand’è che una storia finisce e inizia l’altra? In effetti il libro, si potrebbe leggerlo partendo dall’ultima storia, andando a ritroso verso la prima. Il suo valore, in questo gioco di incastri, non cambierebbe di una virgola. Al lettore non resta che lasciarsi avvolgere da questi racconti nel tentativo di vedere cos’è nascosto oltre ciò che sembra. Riconoscere un dolore lontano nella strafottenza di un bullo o nell’aggressività verbale di questi tempi vuol dire far luce sul lato nascosto di storie che corrono via veloci senza lasciare il tempo di guardare oltre il buio del conformismo.
Alfio Di Battista
Il link alla recensione su NoticeWay: https://tinyurl.com/57zbdhuv
Avezzano. “Il lato nascosto delle storie”, edito da Arkadia, è un’opera che si colloca a metà strada tra una raccolta di racconti e un romanzo a episodi. L’autrice costruisce un mosaico narrativo in cui ogni tassello, pur autonomo, trova il proprio significato nell’unione con gli altri. Quella che inizialmente appare come una serie di vicende indipendenti si rivela parte di un ingranaggio più grande, dove le vite dei protagonisti si intrecciano, spesso senza che ne siano del tutto consapevoli. Ogni storia, pur restando a sé stante, si alimenta di un tema comune: l’incapacità umana di governare il proprio destino, la sensazione di essere spettatori passivi del proprio fallimento, in un mondo che non lascia spazio al controllo. Il romanzo è pieno di materiale umano, di quelle emozioni e tensioni che rispecchiano le nostre vulnerabilità più profonde. Ci sono racconti di un ex carcerato innocente e della moglie che ha creduto alla sua colpevolezza, di un insegnante ingiustamente accusata e del suo allievo che trasforma la solitudine in vendetta. Ogni personaggio rappresenta una maschera sociale dietro la quale si nasconde un universo emotivo complesso, fatto di scelte sbagliate, errori, ma anche di occasioni di rinascita. E proprio in questo sta la forza del libro: l’autrice, come un’abilissima sarta, cuce con estrema cura le vite dei suoi protagonisti, facendoci entrare nei loro panni, nei loro pensieri, nelle loro paure. Il linguaggio è mutevole e straordinariamente scalabile: si passa dalle voci acerbe di adolescenti bullizzati che cercano disperatamente il proprio posto nel mondo, alla forma forbita e quasi antiquata di un vecchio giudice, ormai fuori tempo per la società moderna. Questa versatilità stilistica non è mai fine a se stessa, ma è funzionale alla rappresentazione di un mondo in cui ogni individuo vive con una faccia pubblica e una privata, costantemente in bilico tra ciò che mostra e ciò che cela. Leggere “Il lato nascosto delle storie” è come immergersi in una girandola di personaggi, ognuno con il suo dramma personale, ma tutti incastrati in un meccanismo che va oltre il loro personaggio. E proprio qui emerge il cuore pulsante del romanzo: in un mondo spesso semplificato e diviso tra il bianco e il nero, la Di Pascasio ci invita a esplorare quel limbo di grigi su cui troppo raramente ci soffermiamo a riflettere. “Ogni storia ha due lati”, ed è questa consapevolezza a rendere potente la frase che forse più di tutte racchiude l’essenza del libro: “Siamo tutti colpevoli e tutti innocenti”. “Il lato nascosto delle storie” è una riflessione profonda sulla vita, sul fallimento e sulla capacità o incapacità di riprendere il controllo della propria esistenza. È un’opera che non offre soluzioni, ma che costringe a guardare dentro di sé, tra i margini di ciò che mostriamo al mondo e ciò che ci teniamo dentro. Una lettura coinvolgente e forte, che lascia il segno. Un bel segno.
Francesco Proia
Il link alla recensione su AbruzzoLive: https://tinyurl.com/57r8macz
Arezzo, 16 ottobre 2024 – Proseguono le iniziative culturali di 50&Più Arezzo, l’associazione degli “over 50” del sistema Confcommercio. Venerdì 18 ottobre 2024 alle ore 16 è in programma nella sede della Confcommercio in via XXV Aprile 12 la presentazione di due romanzi dello scrittore aretino Mauro Caneschi, “La Chimera di Vasari” e “Il codice Stradivari”, pubblicati da Arkadia Editore. Ambientati il primo in Toscana, ad Arezzo, e il secondo tra Venezia e il resto d’Europa, i due libri intrecciano passato e presente attraverso il filo conduttore degli enigmi, tenendo il lettore con il fiato sospeso. A dialogare con l’autore ci sarà il giornalista di Teletruria Luca Tosi. Introduce il presidente di 50&Più Arezzo Claudio Magi. L’ingresso è libero. L’autore Mauro Caneschi è nato ad Arezzo dove tuttora vive e lavora. Diplomato al Liceo Classico F. Petrarca di Arezzo, laureato in Chimica Pura presso l’Università degli Sudi di Firenze, diplomato in Gemmologia al G.I.A. (Gemological Institute of America), ha lavorato come consulente nel campo dei metalli preziosi e come docente di Chimica presso l’Istituto Tecnico Industriale G. Galilei di Arezzo. Ha tenuto un corso quadriennale presso l’Università La Bicocca di Milano e ha pubblicato articoli per La Nazione, Il Sole 24Ore, l’Orafo Italiano ed altre riviste del settore. Membro del consiglio direttivo dell’Associazione Scrittori Aretini, fa parte del comitato direttivo del Premio Letterario Toscana. Ha esordito come scrittore con il libro “Noi nati nei ‘50” (Sillabe di Sale Editore), che ha ottenuto la segnalazione particolare della Giuria al XXXIX Premio Letterario Casentino 2014. Con Arkadia Editore ha pubblicato tre romanzi, tra i quali “Il codice Stradivari” e “La Chimera del Vasari”, che gli è valso la Menzione d’Onore al XXXXVI Premio Letterario Casentino nel 2021 e per cui è stato finalista al Premio “Garfagnana in Giallo” 2022. del settore.
Il link alla segnalazione su La Nazione: https://tinyurl.com/5h9ny6a3
La ragazza di Boston (Arkadia Editore, Cagliari, collana di narrativa Eclypse, marzo 2024, 164 pagine) è un romanzo carico di energia, pieno di sentimenti vitali, ricco di impulsi (e dubbi) giovanili. Se non sei giovane, ti ci fa tornare. Se invece lo sei, ti aiuta a capire qualche problema, a superare impasse, a trovare una soluzione in più. È un romanzo sull’amore, in chiaroscuro, ispirato dall’amore, scritto anche per amore, perché si è imposto prepotentemente all’autore (scrivimi!), Paolo Valenti, impegnato di solito su temi sportivi.
La ragazza di Boston è una storia fuori dal cliché di un giornalista-scrittore di sport. Autore di racconti brevi, interviste, articoli e rubriche radiofoniche legate al mondo sportivo, Valenti vive a Roma e collabora tra l’altro con il “Corriere dello Sport” e il sito del “Guerin Sportivo”. È opinionista e commentatore televisivo delle partite del campionato di Serie A e, dopo aver contribuito a realizzare progetti editoriali dedicati al calcio, si è impegnato in testi che ne hanno raccontato le vicende.
Di sport ce n’è pure nel romanzo, in particolare il pallone e mica poco. Il protagonista, il ventiduenne Alessandro Gentili, gioca difensore nei tornei amatoriali e il modo di scrivere di Valenti – rapido, scattante, decisamente fluente – diventa addirittura alluvionale nelle pagine in cui tratta gli aspetti organizzativi, preparatori e agonistici della squadretta del giovane romano o quando parla dei suoi compagni e avversari. Il calcio è tra le passioni di un ragazzo intelligente, che si sforza d’essere sempre sicuro di sé o almeno darne l’impressione, senza fare il gradasso o il provocatore. Ma il vero cuore pulsante di questa storia è proprio il cuore e batte per Meredith O’Brady.
Americana di Boston (gli Stati Uniti mica si riducono a New York e Los Angeles!), è figlia dell’amministratore delegato di una multinazionale, trasferito a Roma da un anno. Lei lo ha seguito e ha trovato occupazione come assistente di diritto canonico nell’Università, sponsorizzata dall’azienda paterna. Segni particolari: incantevole, molto femminile, disinvolta, dotata di un accento yankee particolarissimo, innamorata dell’Urbe e tanto ma tanto alla svelta di Alessandro, senza troppi retro pensieri.
Galeotto è stato l’esame, un complementare, Storia del diritto canonico, che il ragazzo ha voluto affrontare nell’appello di marzo senza sbattersi troppo a studiare e senza la minima tensione alla vigilia, certo di andare ad affrontare assistenti poco più grandi di lui, da trattare alla pari, con una certa improntitudine.
Dimenticavo di accennare a un particolare: Valenti è un ottimo conoscitore di musica leggera, rock e pop. Le citazioni di brani di successo e di grandi autori sono frequenti, arrivano a proposito, sono sempre azzeccate.
Torniamo all’esame. Una volta chiamato, Alessandro si avvicina al tavolino della dottoressa O’Brady e tutta la sicurezza autoimposta di sé svanisce nel momento stesso in cui i loro sguardi s’incrociano. Impossibile non notare i pregi della giovane assistente: è “clamorosamente bella”, da arrendersi all’istante.
La faccia tosta è svanita, ma l’interrogazione non risulta impossibile. Un quarto d’ora di chiacchiere a macchinetta e… trenta, “se vuole la lode deve andare dal professore”. Ale replica che invece il voto può bastare e non cede all’insistenza. Più avanti, gli viene l’idea di sfruttare la faccenda della lode come scusa per ripresentarsi in Ateneo dalla O’Brady, offrirle un caffè, ottenere il recapito telefonico di casa, contattarla successivamente, accompagnarla in giro per Roma, sentirsi dire “sali, sono sola”.
La liaison fila ch’è una bellezza, col vento in poppa, però anche le giornate più serene precedono quelle col maltempo. Una nuvola è nel passato sentimentale che si confessano reciprocamente. Se per amore s’intende quella situazione in cui una persona entra nei tuoi pensieri ogni momento della giornata e si vorrebbe stare sempre con lei, a Meredith è capitato due volte. La prima da liceale, a sedici anni, la seconda è durata quattro anni ed è finita poco prima del trasferimento in Italia. Negli ultimi tempi erano sorti dei problemi, diverse incomprensioni.
Alessandro è stato insieme a una compagna della sua classe di liceo. Non un colpo di fulmine ma una storia nata con la frequentazione abituale. Studiavano insieme, anche l’esame di maturità e poi le vacanze, due settimane in Grecia. È finito tutto quell’estate, “colpa mia, avvertivo la necessità di un cambiamento, che significava abbandonare quella storia”.
Dopo i Mondiali d’Italia ’90, Meredith dice di voler tornare una ventina di giorni negli States e lo invita a migliorare il suo inglese scolastico, andando a studiarlo dal vivo. Boston, però, non regala solo sorprese turistiche e un mondo sconosciuto ad Alessandro. Ci sono anche il fratello di Meli e Francis, l’ex ragazzo, con tutto quello che comporteranno.
Uno scampolo del Valenti pensiero? Ecco come descrive la preparazione agli esami universitari, almeno di una materia non mostruosa.
“Due settimane precedenti di studio matto e disperatissimo, mattine e pomeriggi durante i quali non si mette il naso fuori di casa, impegnati a leggere più pagine possibile e a ripetere a voce alta i concetti più difficili da imparare, mentre le nozioni già apprese, sulle quali si sente maggiore confidenza, vengono bisbigliate a mezza voce alla velocità della luce per guadagnare il tempo necessario a poter imparare tutto il programma d’esame”.
Dopotutto, ci si può riconoscere.
Felice Laudadio
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