Marino Magliani


“Guerra verticale” di César Vallejo

Era il più piccolo di undici fratelli, meticcio, la mamma era india ed è stato il più grande poeta e scrittore peruviano ed uno dei più importanti del Sud America, secondo solo a Dante a parere di Thomas Merton. Parliamo di Cesar Abraham Vallejo Mendoza, che conosciamo in Italia per un recente agile volume che offre un esempio articolato del suo contributo alla letteratura internazionale. L’inedita pubblicazione in Italia è merito della casa editrice cagliaritana Arkadia. A fine 2018 è andato in stampa e nelle librerie “Guerra verticale e altri racconti” (126 pagine, 14 euro), che raccoglie due testi: un romanzo breve, “Verso il regno degli Sciri” e una raccolta di racconti, “Scale”.
Tra i due, il testo narrativo più ampio, sebbene incompiuto, è quello che avvicina di più i lettori a Vallejo, i racconti infatti sono disomogenei per natura e si prestano meno ad offrire un valido biglietto da visita dell’autore andino.
Inquadriamo intanto questo protagonista della cultura mondiale, che ha lasciato una traccia della sua presenza nel Novecento europeo, durante il soggiorno in Spagna e in Francia, con una parentesi anche in Russia. Era comunista e la fede politica gli creò problemi col governo francese. Fu ben accetto invece dalle Sinistre spagnole e a Madrid affiancò Pablo Neruda nella redazione di una rivista antifascista, ma la sua permanenza in terra iberica ebbe bruscamente termine per l’esito infausto della guerra civile. Con la vittoria dei nazionalisti di Franco, riparò in Francia, dove morì prematuramente nel 1938, in totale povertà.
Cesar era nato a Santiago de Cucho nel 1892, sulle Ande. La madre, Maria Rosa, era di etnia india, come le nonne, il padre faceva il conciliatore di liti giudiziarie. Da ultimo nato, era destinato al sacerdozio, ma il ragazzo preferì il laicato. Studiò lettere e riuscì a laurearsi nel 1915, dopo avere alternato gli studi al lavoro, per mantenersi. Nelle piantagioni di zucchero, poté così constatare il cinico sfruttamento della mano d’opera indigena da parte di proprietari terrieri e manutengoli. Sovversivo e per un altro verso bohemienne, per il sodalizio stretto con altri giovani letterati, si trasferì a Lima e intraprese l’insegnamento. Contemporaneamente, si dedicò alla scrittura, in versi.
Cinque anni dopo, la nostalgia lo riportò a casa. A contatto di nuovo con le vessazioni subite dagli indios, manifestò atteggiamenti che misero in guardia le autorità. Un processo farsa, con l’accusa infondata di avere appiccato un incendio doloso, lo costrinse a mesi di carcere. Una condizione kafkiana, fa notare il curatore di questa prima edizione italiana, Luigi Marfè.
Guerra verticale, spiega, è un’espressione che mette in risalto come un conflitto, ancora prima di scatenarsi, sia già divampato nella mente di chi lo ha provocato o non efficacemente contrastato.
“Hacia el reino de los Scires” è stato un progetto avviato all’incirca nel 1924 e in realtà mai condotto a termine. Ebbe una gestazione travagliata questa sua riflessione storica sulle campagne di conquista condotte dal decimo re inca, Tupac Yupanqui, poco prima dell’arrivo dei conquistadores in Perù.
Il romanzo non è lungo ed è stato redatto a strappi, tra il 1924 e il 1928, in uno spagnolo che risente notevolmente degli echi della lingua andina. Ne autorizzò la pubblicazione solo in parte nel 1931. È uscito postumo nel 1944.
Nel passato inca, Vallejo vede le radici del popolo peruviano. Tupac vive una realtà prettamente incaica, ma la sua sensibilità politica sembra molto moderna. Comprende che la guerra è distruzione e che le responsabilità ricadono su chi l’abbia determinata.
I suoi guerrieri rientrano in Cuzco taciturni. Li guida il principe ereditario Huayna Capac, messo ancora adolescente alla testa di una spedizione di conquista, con l’obiettivo di occupare territori e soggiogare popolazioni. Una parte delle operazioni ha riscosso successo, una città ha spalancato le porte, tra lo spavento per l’ardore degli attaccanti e la corruzione degli anziani con elargizioni segrete, ma non c’è stato verso invece di piegare i fieri Chachapoya. Le perdite e il gelo sono risultate insopportabili. Da qui la ritirata a Cuzco.
L’inca è contrariato, ma non manca di considerare che quanto accaduto sia la volontà degli dei. Se non quella, è comunque la sua: il principe è stato sconfitto, i sacrifici vani, è tempo di rinunciare a combattere.
Basta conquiste, ci si dedichi alle fatiche della pace.
Questo vede Tupac ed è sincero quando dichiara di voler mettere fine alle guerre. Ma altri presagi e qualche catastrofe gli faranno cambiare opinione: l’esercito del Sole riprenderà la marcia verso la Cordigliera, pronto a mietere altre vite.
Nelle prime pagine dei primi racconti di “Scale”, riuniti nel capitolo “Cuneiformi”, lo scrittore rivede la vita in prigione, il rapporto con gli altri reclusi. Ogni brano prende il titolo da un muro del carcere. La presenza delle sbarre che bloccano la finestra della cella diventa un muro ulteriore, che delimita un micro universo claustrofobico.
“Coro di venti”, la seconda raccolta di racconti – altro capitolo della sezione “Scale”, spazia a sua volta su temi diversi uno dall’altro, decisamente meno omogenei.

Felice Laudadio



La locanda dei perdenti nella Baires degli anni ‘30

Amico di Roberto Arlt, aderente anch’egli al gruppo letterario Boedo – che nell’Argentina degli anni Venti si contrapponeva, ma sempre nella reciproca stima, al Florida guidato da Borges, a sostegno di una letteratura sociale anziché fantastica – Enrique González Tuñón è prepotentemente schierato dalla parte degli emarginati, dei perdenti, ne segue la vita nella sua attività di giornalista, ne canta le gesta nei racconti. Ad esempio questi, raccolti in Letti da un soldo (Arkadia, traduzione di Ferrazzi e Magliani) e superbamente aperti dal suo testo forse più emblematico, “I cinque”. Lo scrittore argentino descrive la lotta per la sopravvivenza di cinque scansafatiche che vivono alla giornata, cinque “cialtroni”, come li definisce Adrián N. Bravi nella prefazione, che si muovono nei bassifondi della città e si compiacciono della propria condizione di emarginati, contrabbandieri, papponi. González Tuñón è un maestro della giusta distanza, conosce perfettamente la tragicomica realtà nella quale vivono i suoi personaggi, non cede mai al pietismo o alla condanna. La sua prosa è secca, tirata come una di quelle vite miserabili. I “cinque” hanno tutti un passato, ma non vedono un futuro. La sera rientrano in una locanda-bettola, “La pignatta misteriosa”, gestita da un tizio uguale a loro, soltanto che sta dall’altra parte del banco, un uomo senza capelli che vende il diritto a un lenzuolo sciupato nel suo “ospedale di casi disperati” dove il dilemma principale è se credere o non credere in Dio. 

(r. d. g.)



Con Tuñón una mappa narrativa di Buenos Aires

Tornano i racconti di Enrique González Tuñón (1901-1943). Torna il mondo di un artista che amava la sua città quanto la scrittura, e che disse: “quando morirò non piantate un salice, piantate una macchina da scrivere”. Letti da un soldo, uscito nel 1932 con il titolo Camas desde un peso e ora proposto da Arkadia, è una raccolta di racconti che narra di amici perdenti, e della città che morde e annienta. Enrique González Tuñón (1901-1943) gioca a confondere i confini tra realtà e finzione, tragico e comico, rappresentando l’angoscia del vivere e la sua stranezza. Letti da un soldo, la sua opera più riuscita, propone una mappa narrativa di Buenos Aires, in cui la città reale si sovrappone a quella immaginaria, come nell’opera del suo amico Robert Arlt, o in altri grandi scrittori argentini: Jorge Luis Borges, Oliverio Girondo, Roberto Mariani, Raúl Scalabrini Ortiz. I personaggi di Tuñón sono disperati, innamorati, ubriachi, affamati, sognatori: malinconici scheletri del passato, dietro un vetro da museo, che aspettano la visita di qualcuno. Questa edizione italiana comprende anche una scelta degli altri racconti di Tuñón, appartenenti a El alma de las cosas inanimadas (1927) e La rueda del mulino mal pintado (1928). Sono i racconti dell’assurdo, per così dire lunatici, di un narratore che appare nei racconti dicendo di possedere “uno sguardo a raggi x”, incline a “vedere sempre lo stesso malinconico paesaggio di anime” e ad “affrontare la vita da un punto di vista grottesco”, col sorriso di un pazzo docile (“un loco dócil”). Il mondo di Tuñón è il mondo di un artista che amava la sua città quanto la scrittura, e che disse: quando morirò non piantate un salice, piantate una macchina da scrivere.



Piccoli uomini

Per l’argentino González Tuñón (1901-1943) non esistono più torri d’avorio destinate a proteggere i letterati. “Sono state abbattute a cannonate”, la vita moderna vuole che gli artisti scendano in strada. Il suo Letti da un soldo è un libro grottesco, aggressivo, dolente ma non privo di uno strano umorismo. Perduti in una “città ambiziosa, febbrile, frettolosa”, gli invisibili piccoli uomini che affollano questi brevi racconti sono ossessionati dalla fame e presentano punti di contatto con il mondo marginale descritto nelle arltiane Acqueforti di Buenos Aires. C’è però una differenza: per González Tuñón la scrittura non è un gancio alla mandibola del lettore, come in Arlt, ma “una sghignazzata dentro una bara”.

Loris Tassi



SIN RUMBO

Andrés è un possidente, è giovane, ha tutto quello che potrebbe desiderare: agiatezza, denaro, donne, amicizie. La sua vita però è una melina tediosa e rabbiosa al contempo ‒ se i due aggettivi possono sposarsi insieme ‒ passata tra la estancia (le terre) nella quale lavora insieme ad un manipolo di peones ai suoi comandi, e Buenos Aires, dove vive una vita mondana tra teatri, bar, tavoli di baccarà e amanti occasionali d’alto bordo. Il ragazzo un animo inquieto, fumantino, non crede in Dio e ama Schopenhauer. Del filosofo polacco fa sua soprattutto la considerazione che “Ci accorgiamo del tempo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. Entrambe le cose dimostrano che la nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo: ne segue che sarebbe meglio non averla”. Nutre un certo disprezzo per il genere umano ed una sostanziale noia derivata da una perenne, frustrante, insoddisfazione. Pensa continuamente al suicidio come unica forma di liberazione da quella vita priva di senso. Poco prima di trasferirsi alcuni mesi a Buenos Aires, Donata, la figlia mulatta di un servo, gli dice di aspettare un figlio e che il figlio è suo. Forse Donata è innamorata o forse disperata perché sa come vanno le cose tra padroni e servi. Soprattutto, sa come vanno le cose tra padroni e serve. Andrés è infastidito dalla notizia, teme che possa bloccarlo lì. Donata gli piace e sa bene quello che ha fatto con lei, quindi si rifugia in uno sterile e poco convinto “tornerò”. Intanto a Buenos Aires conosce la Amorini, una cantante lirica italiana bella e avvenente in cartellone al teatro Colón. Tra i due scoppia una passione focosa, ma dopo i primi mesi Andrés inizia ad essere insofferente al ruolo di “primodonno”, di amante ufficiale della Amorini. Comincia a trovare nella donna tutti i difetti possibili e lo stesso fa con se stesso – arrivato a trent’anni senza una direzione precisa – dopo aver ipotecato la estancia all’ennesimo tavolo di baccarà. All’improvviso, nel punto più basso della sua esistenza, si guarda intorno e vede solo fallimento, debiti, dissipazione. Niente che abbia messo radici. E poi, al centro di questa miseria, un pensiero fulminante che lo lascia senza fiato, lo turba e lo scuote, l’unica cosa che possa considerarsi, quella sì, una radice a cui aggrapparsi: quel figlio lasciato nel ventre di Donata e che nel frattempo dei suoi bagordi portegni sarà già nato. Un figlio suo e il pensiero di lui che è padre…

Eugenio Cambaceres è un narratore di una finezza estrema e di un pessimismo senza soluzione; una scoperta mozzafiato che dimostra le profondità abissali cui può spingersi la letteratura. Nella sua narrativa struggente non c’è conforto; si è impreparati di fronte all’assenza di una tregua, davanti al tedio che consuma i giorni, lo stillicidio di uno spreco che non centellina gli istanti. Sin rumbo è la sconvolgente storia che non ti aspetti, fatta di mille piccole luci di teatro, paesaggi rurali, pampa sconfinata e polverosa, di sregolatezza, di acuti lirici che lentamente si abbassano e si spengono, un elemento alla volta, per lasciare una scena nuda, quasi desertica. Una desolazione sconfinata in cui si muove senza meta un accidioso e iracondo campagnolo che cerca disperatamente guizzi di vita coi quali riempire vuoti cosmici. Sembra di annoiarsi insieme al protagonista, di trascinarsi, fino a quando la storia non esplode, letteralmente (e ‒ letteralmente ‒ su una parola ben precisa), e sprigiona tutta la sua crudezza e tutta la sua devastante, carnale poesia. Sin rumbo (titolo lasciato efficacemente in lingua originale dai traduttori) in italiano si tradurrebbe “senza rotta” o anche, in senso figurato, “senza condotta” e racchiude in sé il cuore di questo uomo ‒ Andrés ‒ che sta al mondo in modo disordinato, ondivago, confuso tra la consapevolezza travolgente del niente e l’ostinazione passeggera alla salvezza. Nella sua esistenza fatta di sperpero e donne, niente arriva per restare. Tutto passa. E tutto fa male. Tutto nell’anima è un trafficare di dolore al quale ci si può contrapporre soltanto murandosi dentro un nichilismo irriducibile, augurandosi una morte per quanto prematura, occasionale, procurata. C’è solo una cosa che può aprire una breccia in questa esistenza e quando arriva richiede l’urgenza liberatoria di un cambiamento: è lo scoprirsi padre, un moto che lo riconduce ad una responsabilità, ad avere un ruolo su questa terra, alla coscienza di una cura, all’amore viscerale e incomprensibile, frastornante e assoluto. È il toccare il cielo con un dito col terrore atavico che quella gioia sfumi da un momento all’altro per una ripicca, per un capriccio divino, per una compensazione. Nel suo cuore, essere padre e la sana follia dell’amore gettano il seme dell’inquietudine, una prospettiva spaventosa, presaga di eventi irreparabili. Si chiama cherofobia, ed è la paura di essere felici. Dentro Sin rumbo questa paura si amplifica man mano che la storia si compone; si identifica, soverchia, occupa ogni interstizio, ci lascia soffocare insieme ad Andrés, alla sua solitudine incolmabile, insieme a quel senso di irreparabilità per il quale la vita è solo una iattura e un’impostura, uno scherzo crudele che è stato giocato all’uomo, il cedimento al ritorno dentro il ventre del nulla. La vita, qui, è la punizione con cui si ripara a un peccato, a una contraddizione. È un contrappasso, la dura prova del Giobbe tradito e devastato.

Romina Arena



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

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