Marino Magliani


Argentina, Italia, Spagna e Olanda: in viaggio con Marino Magliani

 

Sanremo, agosto 2020

Marino Magliani (Dolcedo, 1960) è uno scrittore e traduttore ligure. Collabora con varie case editrici, tra le quali Exorma, per la quale ha tradotto Sudeste di Haroldo Conti, Miraggi, Amos, Nutrimenti, Del Vecchio e Il canneto editore. Traduce per Arkadia dove cura la collana di letteratura ispanoamericana, Xaimaca-Jarama, con Alessandro Gianetti e Luigi Marfé. Ha tradotto anche con Riccardo Ferrazzi, Giovanni Agnoloni e Alberto Prunetti. Cura inoltre la collana Appennica per Tarka.

Siamo «nella Liguria costiera, dei palmizi e dei cartelloni pubblicitari». In Prima che te lo dicano altri (Chiarelettere, 2018), il protagonista, Raul Porti, dice: «Tutto quello che vedi da Dolcedo, Ripalta, Asinelli e Isolalunga e fin qui e poi fin giù al mare, un giorno sarà una scalinata di case». Appare chiaro un riferimento alla speculazione edilizia, a quelle “selve di cemento” che, come diceva Biamonti, «fanno male agli occhi». Qual è stata la sua percezione della Liguria costiera da bambino, poi crescendo e tornando?

Mi identifico molto con ciò che Italo Calvino scrive in quello che per me è un libro fondamentale: La strada di San Giovanni. Il padre, Mario Calvino, noto botanico, e al contempo contadino, cercava di portarlo con sé nella campagna di San Giovanni. Lo stesso faceva mio padre. Provengo da una Liguria non costiera come quella di Calvino, ma da un profondo fondovalle, una terra dove il mare davvero non c’è. Per cercarlo devi inventarlo o andare sulle pietraie e salire abbastanza. Sono sempre stato abituato a questa negazione del mare: l’ho sempre considerato più dei turisti e dei cittadini che nostro. Ci sono una serie di battute che mi hanno sempre commosso, quelle della gente del mio paese che diceva:

«Sei già andato al mare?»

«Guarda se trovo il costume o i soldi per comprarlo, qualche giorno ci vado». 

Loro ci vanno un giorno all’anno, è una goduria, un paesaggio che non si concedono. Mio padre mi portava in campagna e mi diceva: «Marìn bisogna faticare». Io a quel punto ero il ragazzo che preferiva il mare esattamente come Calvino preferiva la parte costiera e luccicante. Ecco quindi che la mia frontiera era davvero quella che Biamonti, o forse Calvino, chiama la separazione fra la Liguria ridanciana e la Liguria sofferente, la Liguria della sofferenza come lavoro, la Liguria muta, aspra, che è quella dell’uliveto. Dal momento che sono figlio di contadini –mia madre era ancora più contadina di mio padre – io ho quindi sempre vissuto il mare come senso di colpa: è ciò che mi sono sempre concesso da ragazzo al posto di quello che avrei dovuto fare, cioè andare in campagna. Mio padre lavorava in un ristorante sulla Costa Azzurra, a Sainte-Maxime, e io andavo con lui d’estate. Il mare per me era più quel mare oltre la frontiera che questo mare e ne parlo nel L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exorma, 2017). Questa parola che noi usiamo, frontiera, non l’ho mai capita bene. Non sono di quelli per cui la frontiera è davvero un taglio, ma è una terra pulsante. È una zona che sfuma, così l’Italia può arrivare fino a Mentone e la Francia fino a Bordighera, anche se non ho mai vissuto la frontiera come Biamonti che era della frontiera e che aveva una grande considerazione per la cultura francese…

Biamonti aveva infatti uno sguardo proiettato verso ovest, verso Marsiglia, l’Esterel…

E verso quella luce che lui credeva insuperabile che era la luce della Liguria fino ad Arles, Nîmes, che poi si trasforme in luce africana andando giù verso la Spagna.

Ma la mia Liguria è quella di chi non l’ha vissuta. Io me ne sono sempre andato. Ho passato molto tempo in Spagna e Argentina e ora da trent’anni vivo in Olanda. Solo adesso che ho sessant’anni mi sto accorgendo che davvero non sono più di qua, non lo sono mai stato…Ora più che mai sono considerato uno straniero, un furesto, e questo mi dispiace. Possono dire che non ho combinato niente tutta la vita ma dirmi che non sono di qua è davvero come strapparmi quella specie di identità che al di là di tutto è come un tatuaggio, non la puoi cancellare…

Costiera ligure di Ennio Morlotti

Cosa l’ha portata a evadere, ad andarsene dalla Liguria? 

Me ne sono andato via di casa da bambino, ho vissuto molto a lungo in collegio. Uno dei temi de L’esilio dei moscerini è il collegio. Da noi chi aveva le terre lontane andava la mattina a lavorare e tornava la sera a casa: ciò significava non poter star dietro ai figli a scuola. Mia sorella era andata in collegio e non si era trovata bene. Per me è stata, quindi, una sorta di sfida. Ricordo che quando sono andato in collegio, al Col di Nava, avevo una nostalgia tremenda. Ma sapevo che mia madre aveva fatto delle spese, aveva persino messo il numero 66 su tutti i capi della biancheria, e allora mi sono fatto forza e non sono più tornato a casa… Sono uscito dal collegio che avevo 15 anni, mi hanno mandato via per eccesso di tempo. Da Nava ero andato a Mondovì e poi a Roma dove avevo fatta tutta la trafila in prima magistrale… Poi laggiù, grazie a Dio, uno di questi frati mi ha detto: «Guarda non sappiamo se tu sarai un buon padre di famiglia ma sicuramente non sarai un buon frate», anche perché ero un ragazzo, la carne bruciava e si erano resi conto che non sarebbe stata quella la mia strada.

Alla fine dopo essere tornato e dopo aver girato tanto in Spagna e Sud America mi è successo qualcosa che era successo a Gabriel García Márquez: quando ha scoperto i racconti di Kafka ha pensato che se quello era scrivere lui di storie del genere ne aveva tante. La stessa cosa è capitata a me: ho cominciato a leggere, però il mio italiano era molto sporco. Fortunatamente ho conosciuto Gian Giacomo Amoretti, un professore dell’Università di Genova, che è stato molto disponibile. Dopo aver letto le mie cose mi disse che avrei dovuto migliorare la lingua, poiché passavo in continuazione dallo spagnolo all’italiano. Ho dovuto quindi ripossedere/riappropriarmi di una lingua che non mi apparteneva più. Probabilmente la mia prima lingua, l’unica lingua che io abbia mia davvero considerato mia, è stato il dialetto. Sono arrivato in prima elementare che non sapevo una parola di italiano, quindi ho dovuto scrivere molto.

Mi ricordo che quando vivevo in Costa Brava ho tradotto i menu per i ristoranti con un argentino col quale dividevo la casa, che era molto furbo come tutti gli argentini, la viveza criolla.

Era il 1982. L’argentino mi aveva detto: «Marino, senti un po’, se noi traduciamo i menù spagnoli in italiano e poi li vendiamo a tutti i ristoranti, tanto sono gli stessi, cliente per cliente possiamo fare dei soldi: 2000/3000 pesetas o mille più pasti». E in effetti abbiamo fatto un pacco di soldi. È stata la mia più grande impresa con la traduzione.

Quindi il suo primo approccio con la traduzione ha riguardato il cibo, tradurre menù, prima di approdare alla traduzione letteraria…

Sì, poi dopo ho iniziato un po’ a tradurre letteratura. Tradurre non è facile… Pian piano mi hanno assegnato una collana. Non ho mai tradotto per grandi editori, ma per piccole case editrici, seppur di buona qualità, come Amos, Pellegrini, Lo Studiolo, Nutrimenti, Miraggi, Del Vecchio, Arkadia, Quodlibet (Compagnia Extra), Exorma…

Com’è arrivato a tradurre Robert Artl? 

Attraverso Adrián Bravi, un autore, mio coetaneo, arrivato dall’Argentina circa trent’anni fa, col quale siamo diventati amici. Lui mi faceva da consulente, mi ha passato tra le altre cose il nome di Haroldo Conti, e mi aveva detto che le Acqueforti di Buenos Aires di Robert Arlt non erano state ancora tradotte. Quindi l’ho tradotto per Del Vecchio con Alberto Prunetti, un autore che si occupa di narrativa sociale, del lavoro.

Il primo libro che ha tradotto?

Ho tradotto per una piccola casa editrice di Treviso (Anordest edizioni) La moglie del colonnello di Carlos Alberto Montaner, un cubano, giornalista dissidente, secondo Cuba un membro della CIA.

Prima avevo comunque tradotto molte altre cose, ma magari andavano in rete o si trattava di cose tecniche. Si dice sempre che la traduzione sia una professione solitaria, ma a me piace dividermi il lavoro, l’ho fatto, dicevo, con Riccardo Ferrazzi, Giovanni Agnoloni, Luigi Marfé, Alberto Prunetti, ma ultimamente è successo con Alessandro Gianetti e succederà con Piero Dal Bon.

«Esule su altre rive», così si definisce Calvino in una lettera a Biamonti. Come si sente in Olanda? Si sente in esilio?

No, in Olanda mi sento a casa anche se non frequento nessuno e forse è per questo che ci sto bene… Lavoro e per il resto ciò che faccio è andare nel bosco due ore al giorno o lungo la riva del mare a camminare. Più che sentirmi esule mi sento quasi un disertore, questa è la mia condizione. Anche perché disertore forse lo sono davvero e un po’ quando sono in Italia mi sento un clandestino. Non che sia un problema ma anche l’Olanda stessa non è che sia la mia patria. L’olandese è una lingua incredibile con la quale non riesco però a comunicare. Gli olandesi stessi non ti capisco se non parli perfettamente la loro lingua. Dal punto di vista del linguaggio l’Italia è la mia terra, da quello della creazione artistica è l’Olanda, solo lì riesco a lavorare.

Ho appena terminato un romanzo dove riesco a scindere le due figure, il traduttore in Olanda, il pellegrino/camminatore solitario e malinconico in Liguria.

Come mai ha scelto il Sud America e nello specifico l’Argentina?

Il Sud America è la mia vita con gli argentini in Spagna, vivevo con loro, lavoravo con loro, ho assorbito la loro cultura e sono ancora in contatto con loro. Dopo la parentesi iberica ho vissuto quasi un anno laggiù, nel 1983 – il colpo di coda della dittatura – nella Pampa a Lincoln e poi a Carlos Paz.

E che mi dice della Costa Brava?

Che era una specie di costa di plastica ed io da quelle parti ero un altro animale, un animale notturno, vivevo sempre d’estate e sempre di notte. Sono cose che lasciano i segni e bei ricordi. Era la fine degli anni ’70 quando sono arrivato e me ne sono andato una decina di anni dopo.

In Prima che te lo dicano altri è ricorrente il tema della luce. Nella parte ambientata in Argentina, ad esempio, si parla di una luce diversa: «la luce della pampa ingannava, esplodeva in un istante e spariva lentamente». Nella parte ambientata in Liguria, si può parlare quasi di un’assenza di luce. Mi viene in mente un Racconto di Calvino, Uomo dei gerbidi, dove è messo in risalto il contrasto tra luce e ombra, ma anche la luce biamontiana, una luce quasi creatrice di confini, in contrasto con le masse d’ombra, e i tramonti “color genziana”. Che ruolo ha la luce nei suoi romanzi?

Io vivo nel fondovalle, in un luogo talmente avaro che non ha neanche concesso un tramonto ai suoi abitanti. C’è il giorno e c’è la notte, è un po’ come la frontiera: o sei di qua o sei di là. Lì allora quella luce è soprattutto l’opaco. C’è il contrasto con quei tramonti lunghissimi e bellissimi che io ricordo dell’Argentina e del Mare del Nord d’estate.

 

 

Il link all’intervista su Tre Sequenze: https://bit.ly/35Gk5TY

 



Buona lettura 21: “Caribe”, di Fernando Velázquez Medina

Vicende sconvolgenti, episodi affascinanti, personaggi coraggiosi, irrequieti e ingegnosi che non sempre riescono a smascherare il loro lato più oscuro: ecco Caribe di Fernando Velázquez Medina, nella limpida traduzione di Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi (Arkadia edizioni).
Un romanzo picaresco dove il protagonista, Diego, si muove su e giù tra L’Avana del XVI secolo, le diverse zone delle Indie occidentali, il mare dei cannibali, le paludi e le terre di indios pervase da segreti e storie avvincenti. A passo veloce, la storia di Diego cambia e continuamente si rinnova tra sorprese e capovolgimenti, affidati dapprima all’incontro con la giovane Hortensia e poi a quello con fra Uberto Eco, frate francescano legato all’Inquisizione. Un percorso di cambiamento che  lo porterà a diventare “Diego il terrore dei mari”, discepolo del tanto temuto Francis Drake. Il linguaggio piano e preciso, così come ci viene restituito da Magliani e Ferrazzi, crea il clima necessario a farci scivolare nel bel mezzo di una trama che prende linfa pagina dopo pagina e che conduce sulle tracce di peripezie dai tratti spesso trasognati.
Avventure slabbrate nascoste tra montagne, selve e paludi dove pullulano racconti di cannibali, tesori di giada, grotte piene di diamanti, barche di pietra e montagne d’oro, rumori assordanti e incontri inquietanti, lasciano intravvedere le tracce di un destino e trovano altri varchi di acuta sensibilità. E in ogni caso si avverte la naturalezza della scrittura che accompagna le vicissitudini del “guerriero” Diego e dei suoi compagni di viaggio, lesti di parola e di mano, desiderosi di godersi il sogno della conquista di altri paesi, della conoscenza e dell’incontro con il misterioso mondo degli indios. Lo stupore inquieto e vibrante del protagonista percorre tutto il romanzo e si sofferma su ogni aspetto, sempre sottolineato dallo smalto solido della lingua: dai piatti che si cucinano nei vari regni dell’impero, ai pericolosi affari contro la legge, alla sinfonia della vita silvestre tropicale. L’uomo “dalle molte vite” ci regala una storia che si dispiega da sola, aromatizzata da cieli stellati e selve ostili, in un mix di avventure senza fiato.

Mara Pardini



I rifugi della memoria – José Luis Cancho

José Luis Cancho è uno scrittore spagnolo che alle sue spalle ha un vissuto intenso. Aveva solo 22 anni quando quattro poliziotti al servizio del regime di Franco lo buttarono giù dalla finestra del commissariato di Valladolid.
Oppositore del franchismo, ha conosciuto la tortura e la galera. Membro di un partito di estrema sinistra con la militanza politica nel cuore negli anni è diventato scrittore. È alla letteratura ha affidato la sua testimonianza di uomo che fa i conti con la sua esperienza. Ha pubblicato quattro libri. Adesso I rifugi della memoria, uscito in Spagna nel 2017, viene pubblicato in Italia da Arkadia. In appena settantacinque pagine siamo davanti a un piccolo gioiello, oserei dire un grande capolavoro. Come Stig Dagerman, Cancho cerca, o almeno ci prova, nella scrittura il suo personale bisogno di consolazione. Affida alla memoria per scrivere il suo autoritratto frammentario: «Il mio proposito è andare in fondo quell’io segreto nel quale neppure a me stesso risulta facile penetrare. In parte perché, alla mia età, credo di averlo perduto». Una passeggiata nella memoria e nei ricordi con l’intento di svelare ciò che nella sua vita è occulto, con il cuore sempre nella realtà. Così José Luis Cancho si è fatto scrittore e attraverso la scrittura è riuscito a riconciliarsi con tutti i mondi che si era lasciato alle spalle, come se la scrittura fosse il punto d’incontro fra tutto ciò che è stato e quello che è oggi. I rifugi della memoria è un libro di poche e sorprendenti pagine in cui il suo autore si attraversa (ricorrendo anche alle parole della poesia), si affida ai ricordi per aprire i cassetti della memoria e mettere nero su bianco con una prosa senza filtri, senza artifici, senza travestimenti, senza retorica per cercare la traccia perduta della sua esistenza, l’orma che si era lasciato alle spalle, il luogo delle origini, la terra primigenia. La scrittura non come vocazione ma come la decisione consapevole di imparare a vivere dentro la finzione della letteratura e soprattutto scavare senza fare sconti nel proprio io che attende sempre di essere rivelato. La memoria è il motivo dei quattro romanzi che Cancho ha pubblicato. «La maggior parte dei miei ricordi li affido alla memoria. Ogni volta che ho cambiato casa mi sono disfatto di ciò che avevo accumulato: lettere, libri, vestiti, mobili…
La povertà è in intimo rapporto con l’oblio.  Non esistono oggetti che aiutino a contrastarlo. Mi piace essere inafferrabile. Mi piacerebbe sparire in un paese dove nessuno mi conosce. Di tanto in tanto divento cupo».
Nella brevità di queste poche pagine intense troviamo le intuizioni di uno scrittore autentico che giustamente non sopporta le persone incapaci di esprimersi in modo sintetico e quando parlano non distinguono ciò che è importante da ciò che è secondario.
I rifugi della memoria è un piccolo libro che contiene tutta la grande letteratura. Ci auguriamo anche noi che questo piccolo gioiello riceva l’accoglienza che merita.

Nicola Vacca



I rifugi della memoria. José Luis Cancho e la scrittura come sottrazione

Può sembrare insolito che Arkadia Editore abbia deciso di pubblicare, per la prima volta in Italia, I rifugi della memoria, cioè l’ultimo libro di José Luis Cancho, scrittore spagnolo, nato a Valladolid nel 1952. Perché non pubblicare prima i suoi precedenti romanzi, dando così modo, ai lettori italiani, di avvicinarsi e scoprire questo scrittore da noi sconosciuto? A questa domanda risponde, come è giusto che sia, la lettura stessa delle pagine de I rifugi della memoria.
Opera autobiografica che, diciamolo subito, va ben al di là di un “semplice” diario o di una “semplice” autobiografia a posteriori, con gli inevitabili inciampi o bugie della memoria. Qui, storia personale e letteratura si mescolano in modo tanto inestricabile da trasformare le memorie in un romanzo. Da trasformare Cancho nel personaggio di un romanzo. Ma andiamo con ordine.
Cosa leggiamo in questo I rifugi della memoria? La storia di un giovane che, a soli 22 anni, viene arrestato e torturato dalla polizia politica spagnola e buttato fuori dalla finestra del commissariato di Valladolid. Questo inizio, che a noi italiani di una certa età, non può non richiamare la storia di Pinelli, è solo il punto di partenza per ascoltare una storia, forse uguale a tante altre, fatta di impegno politico, la prigionia, poi la libertà, l’insegnamento, i viaggi e la scrittura, la vita e la ricerca della solitudine. Tutto sorretto da una scrittura che funziona per sottrazione e che, proprio come la memoria, per sottrazione, si aggrappa all’essenziale. Che per Cancho, a un certo punto, sembra essere l’inevitabile ritorno, ai ricordi d’infanzia.
Ma perché dovrebbe interessare l’autobiografia di un uomo, di uno scrittore a noi, lettori italiani, sconosciuto? Perché tra queste pagine sembra esserci, non solo un compendio della sua attività di scrittore (che per sua stessa ammissione torna spesso sugli stessi temi, soprattutto la prigione) ma anche un interessantissimo lavorio di scrittura, di scavo psicologico, di lealtà, verso sé stesso e verso i lettori.
Il poeta è un fingitore, diceva Pessoa. Lo scrittore è un bugiardo, ci dice Cancho. E ce lo dice proprio partendo da sé stesso, dalla sua giovinezza che, caratterizzata dalla lotta politica, ne fa un personaggio abituato a dissimulare, a fingere, a inventare. Da qui la consapevolezza che l’affabulazione e la capacità di raccontare bugie (nel caso specifico per salvarsi durante gli interrogatori) sono il vero punto di partenza per scrivere. Anche se lui esordirà tardi nel mondo delle lettere.
Ma la sua intera vita sarà, lo scopriamo leggendo, un sentirsi fuori posto, un abbandonare progetti, donne e lavoro. Sarà una continua domanda su sé stesso, per diventare ciò che è senza nemmeno sapere cosa volesse dire davvero.
Scrive Andrés Barba nella prefazione al libro: “ […] l’autore è capace di dire cose obiettivamente difficili da articolare senza uscirne a pezzi, ma anche perché dimostra di avere riflettuto con equanimità, distanza e perfino disinteresse di sé e sulle persone che hanno fatto parte della sua vita. Cancho dice di voler scrivere come un morto, e accipicchia se ci riesce.”
Ecco, scrivere come un morto. Questa sarà la chiave di lettura di questo libro. E lo dice chiaramente lo stesso Cancho in apertura quando scrive: “Invecchio e il mio vocabolario si impoverisce. Mi sento come se stessi imparando una lingua straniera. Mi consolo pensando a Beckett che scelse il francese come lingua letteraria e diceva – Scrivo in francese per rendere ancor più povera la mia scrittura, per lavorare a partire dall’impotenza -.
Impotenza e sottrazione. Questo è ciò che si avverte leggendo queste memorie. Impotenza e sottrazione che sono uno sforzo, una fatica. Perché questo è la scrittura. Che per Cancho sembra approdare alla “passione per l’indifferenza” che lo porterà, in queste pagine, a scrivere “dal punto di vista di un morto” ma non per tacere, quanto semmai, per scrivere una lingua altra, per scrivere nella lingua dell’Altro. Ecco perché I rifugi della memoria, pur essendo un’autobiografia, è opera letteraria, è romanzo a tutti gli effetti.
Ci sono parole che tornano spesso in queste pagine, parole come assenza, mistificazione, finzione. Parole chiave per una scrittura in cui Cancho si muove in un continuo ribaltamento, in un continuo cambio di prospettiva. Attorno al nucleo narrativo della prigione che diventa, anche, la metafora di altri confinamenti (mentali e lavorativi, politici a sentimentali) che, quando finiscono, provocano gli stessi improvvisi vuoti, le stesse improvvise paure di affrontare nuove libertà.
Cancho, in questo libro, sembra guardarsi come un entomologo guarda gli insetti al microscopio. E sembra fare lo stesso con la sua scrittura. Ecco perché poter leggere per primo quello che è il suo ultimo libro diviene, più che una forzatura, quello che appare come un viatico per leggere, speriamo, anche gli altri suoi precedenti libri. Come se questo “compendio” fosse, in realtà, una chiave per aprire la porta della sua letteratura.

Geraldine Meyer



Caribe, le meravigliose avventure tra mari e indios

Non c’è bisogno di essere appassionati di storie di mare per provare un piacere quasi fisico nel leggere questo Caribe dello scrittore cubano Fernando Velazquez Medina, da poco mandato in libreria dalla sarda Arkadia Editore. Basta mettersi comodi e decidere di disporre di un po’ di tempo durante il quale niente e nessuno verrà a disturbare la lettura. E immergersi, è il caso di dirlo, nella storia di Diego, protagonista e voce narrante di queste avventure caraibiche.
Siamo attorno alla metà del ‘500 e il piccolo Diego, figlio di una modesta famiglia, divenuto un uomo potente, racconta la sua storia al maggiore dei suoi figli. Per lasciargli un’eredità che, oltre che di ricchezze, sia fatta, appunto, di parole e memoria.
Sotto il sole de L’Avana, tra mare e libertà, il piccolo Diego, abitante di quello che era un avamposto del potente impero coloniale spagnolo, vive tra animali marini, giochi e avventure. Fino a quando, uno sguardo di troppo a una donna, un equivoco e la longa mano dell’inquisizione, nella persona di un esagitato francescano, non lo costringerà a lasciare la sua isola e darsi alla fuga.
Compagno di viaggio, mentore e maestro, sarà un monaco italiano, studioso e uomo dalla vasta cultura ma dalla ancor più vasta curiosità. Quell’Uberto Eco da Bologna (chissà se l’autore voleva fare un sotterraneo omaggio) che lo porterà con sé a conoscere il mondo, gli uomini e altre culture, sulla scia di una volontà di scoperta: stabilire se tra maya e egizi, entrambi costruttori di piramidi, ci fosse qualche legame.
Comincia così, per Diego, un viaggio alla scoperta del mondo, magico, misteriosi e violento, degli indios. Viaggio di formazione, si può dire, durante il quale il ragazzo vivrà avventure di ogni tipo, tra corsari, mercanti senza scrupoli, navi negriere, animali feroci e sconosciuti. Un mondo in cui alla ricchezza e ubertosità della natura si affiancano pericoli di ogni sorta, un mondo in cui, che si sia uomini o animali, è un attimo passare dall’esser cacciatore all’esser preda.
Tra dispute teologiche, Diego imparerà sulla sua pelle, e dalle parole di Uberto, quanto possa essere potente la fame di conoscenza, di scoperte ma anche, e soprattutto, quanto la conoscenza possa far paura al potere, soprattutto quello ecclesiastico. E quanto il denaro e l’ingordigia della politica, siano in grado di far girare il mondo e di seppellire e bruciare uomini e libri.
Sono quasi trecento pagine di puro godimento, di storia, geografia, zoologia, arte marinara e arte dei combattimenti per mare. Citazioni colte e citazioni da libri antichi si mescolano ad avventure che da drammatiche sanno, in un attimo, divenire quasi comiche.
Insieme alle pagine di Caribe anche il lettore viene letteralmente condotto per mare e tra i rumori e gli agguati delle foreste tropicali, nei misteri delle antiche città maya, nella cultura degli indios, tra le onde dei mari delle Americhe, quel nuovo mondo che andava facendosi e che stava diventando emblema e metafora di una “modernità” non esente da contraddizioni e violenze.
Diego diventa la voce narrante di una nuova fame di espansione e di scoperte. Quelle scoperte che, come gli ricorderà Uberto, sono possibili solo quando, per ottenerle, si diventa capaci anche di andare contro il potere costituito. Ma tante saranno le cose che il giovane Diego imparerà durante il suo periglioso viaggio. Imparerà che da soli non è possibile fare nulla, imparerà che dovrà essere disposto a tutto per salvare sé stesso, a non consentire a nessuno di essere di ostacolo alla propria sopravvivenza.
Primo volume di quella che sarà una trilogia, Caribe è si un romanzo di avventura ma non solo. Molte sono le tracce sottotesto, molti i sentieri che dipartono dalla strada principale. Proprio come tanti sono i sentieri nascosti nella foresta e tante le onde e gli attacchi che posson capitare in mare. Un libro che è, prima di tutto, un inno alla voglia di conoscere, alla consapevolezza che c’è sempre un altrove verso cui tendere. Costi quel che costi. Diego diventerà grande, molto più grande della sua età durante quel viaggio, scamperà alla morte molte volte, l’inquisizione, incontrata per due volte sulla sua strada, non riuscirà a farne un’altra vittima. E il lettore lo saluterà alla conclusione del libro ma al principio di nuove avventure quando, sulla sua strada, arriverà il più famoso, grande e nobile, in un certo senso, corsaro di tutti i tempi: Francis Drake.
Che dire? Buona lettura.

Geraldine Meyer



Fernando Velázquez Medina (L’ Avana, 1951) è uno scrittore cubano, critico letterario e cinematografico residente negli Stati Uniti. È conosciuto per il suo romanzo sperimentale Ultima rumba a L’Avana, tradotto in Italia da Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi ed edito nel 2012. Con sei edizioni in spagnolo, l’opera è diventata un oggetto di culto ed è considerata tra i libri fondamentali per la conoscenza del realismo letterario cubano. Caribe (titolo originale El Mar de Los Caníbales) pubblicato nel 2016 dalla più importante casa editrice di Cuba ha riscosso un vasto consenso di pubblico e critica, e viene ora per la prima volta pubblicato in Italia tradotto da Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi.



Sin rumbo. La vita senza rotta di un uomo solo

Sin Rumbo, senza rotta, è il titolo di questo libro di Eugenio Cambaceres, pubblicato dalla sempre attenta Arkadia nella collana Xaimaca, dedicata alla letteratura sud americana. E senza rotta ci appare davvero la vita di Andrés, protagonista di queste pagine di Cambaceres in cui, a tratti, ci sembra di ritrovare tracce della vita dello scrittore stesso. Nato a Buenos Aires nel 1843 unì a lungo scrittura e vita politica, nel cui agone si trovò come deputato e come vicepresidente del Club del Progreso. Come il protagonista di questo Sin rumbo, Cambaceres ebbe una relazione con una cantante lirica, motivo di grande scandalo a cui si aggiunse la mancata sfida a duello con il di lei marito, che poi, decise di scappare in Europa.

Europa che vide anche lo scrittore, a Parigi esattamente, soggiornare lungamente e qui far suo l’amore per la letteratura francese, in particolare Zola, al cui naturalismo dedicò studio e ammirazione tanto da introdurlo in Argentina insieme a quegli scrittori con cui diede vita a quella che fu chiamata Generaciòn del ochenta.

In queste pagine seguiamo la vita e legesta di Andrés, ricco possidente, che vive in una meravigliosa estancia nella pampa argentina, non molto lontano da Buenos Aires. Qui la sua hacienda agricola gli garantisce ricchezza e benessere e un’esistenza fatta di viaggi, di donne, di gioco. Eppure. Eppure, novello erede dell’insoddisfazione shopenhaueriana, Andrés annega nella noia, in quella mancanza di senso, e di rotta, appunto, che lo conduce in quel limbo fatto di irrequietezza e rabbia. Verso sé stesso e gli altri. Il sentimento della solitudine non lo abbandona mai, soprattutto quando essa viene riempita da cose che non gli offrono appiglio alcuno.

Con la stessa pesante leggerezza con cui affronta i suoi giorni, Andrès affronterà la notizia che Donata, figlia di uno dei suoi braccianti, aspetta un figlio da lui. Indifferente tanto quanto insofferente parte per Buenos Aires, lasciando la donna e lo stesso desiderio animalesco per lei provato fino a poco prima. È questo solo uno dei repentini cambiamenti che nell’animo di Andrés sono la rappresentazione della sua insoddisfazione, del suo rifiuto di pensare e di soffermarsi su cose e persone che, per lui, altro non sono che momentanee tappe verso il nulla. A Buenos Aires comincia il consueto girotondo tra donne, scandali mondani, gioco d’azzardo, fugaci seduzioni. Fino a quando, con la subitaneità apparente che hanno le cose che, in realtà stanno scavando un solco da molto tempo, Andrés capisce che non è quella la vita che vuole. Ancora l’inquietudine lo guida anche se, questa volta, sembra guidarlo verso un ritorno che vorrebbe essere una nuova partenza. Andrès vuole conoscere suo figlio che, scoprirà essere una bella bambina, rimasta orfana della madre, morta pochi giorni dopo il parto. Ma il destino sembra avere in serbo per lui ben altro. Una sorta di maledizione, una impossibilità di trovare quiete.

Cambaceres ci regala un libro pregno di quelle atmosfere sudamericane in cui la realtà è talmente complessa da poter benissimo assumere i connotati della magia, anche quella nera, quella plumbea di un destino che sembra non trovare pace, condannato a pagare colpe che, in fondo, colpe non sono ma, semmai, umane debolezze.

In questo Sin Rumbo, Cambaceres ci consegna pagine in cui lo stesso stile accompagna e si distende sulle diversi parti di cui il libro si compone. Se, nella prima, un’attenzione quasi chirurgica ci immerge nella pampa, esso scivola poi nella languidezza e quasi decadenza della vita nella rutilante Buenos Aires e nei suoi amori carnali e fugaci. Ma poi, nella seconda parte, quella del ritorno e della disperata ricerca di un senso, lo stile diviene quasi una slavinante disperazione, una violenta, e tenera al contempo, entrata nel mondo della responsabilità di padre con la conseguente entrata in scena, nella vita di Andrès, della paura per il futuro. Solo allora si accorge, Andrès, che il futuro è un’ipotesi, un orizzonte degli eventi con cui fare i conti. Anche quando arriva troppo presto. Dando così ragione a Shopenhauer, ricordato nel libro, quando scrive: “Ci accorgiamo del tempo solo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. La nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo.” E per Andrès il tempo sarà la scoperta del dolore.
Cambaceres ci regala un personaggio che è figura dell’uomo solo e inquieto, così presente in molta letteratura del secolo successivo. Portatore di una domanda che è quella che porta a chiedersi se la felicità sia possibile anche solo per attimi fugaci.

Geraldine Meyer



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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