La narrativa civile e “I segni sulla terra”. Intervista a Marco Truzzi
“Se glielo chiedessero adesso, Luciano non saprebbe dire esattamente quando iniziò. E non per colpa della sua, peraltro ancora presunta, malattia. È che proprio non se ne rese conto. Potrebbe essere stato nel 2008. Ma forse anche prima, chi lo sa. Fatto sta, però, che da un certo periodo in avanti la crisi è stata, lì, potente, ineludibile. Come se ci fosse sempre stata, come se nessuno ricordasse più il mondo com’era prima. Adesso ne parlavano tutti. Ma all’inizio, quando ci finirono dentro alcuni colleghi, gente più piccola, il circuito esterno dell’indotto, conoscenti che incontrava, a volte, il sabato, al tennis, erano tutti convinti che sarebbe finita presto, che sarebbe passata lasciando dietro di sé solo il ricordo di un grande spavento, come successo molte altre volte. Si illudevano tutti. Perché poi è arrivata la seconda ondata e, proprio come avviene in caso di tsunami, era stata molto peggio. A quel punto ne erano stati risucchiati tutti e la crisi, grande, sempre più gigantesca e somigliante a un buco nero, con il passare dei mesi si dimostrò capace di mangiarsi tutto, i giorni, le settimane, ogni altra cosa, compresa la speranza stessa che lei, la crisi, potesse mai terminare. E, infine, la crisi si è divorata ogni possibile via d’uscita, annebbiando il passato, annullando il presente e distruggendo il futuro. Non si tratta solo di una questione economica. È una faccenda di valori: nessuno di loro, Luciano compreso, crede più in niente.”
da “I segni sulla terra” di Marco Truzzi
Un interessante lavoro di Marco Truzzi ci riporta alla buona narrativa, narrativa di indagine psicologica e sociale, su come la crisi economica scompagina le esistenze, rende precari i rapporti, indebolisca l’individuo.
Qui in questo paese inventato ma non troppo, possiamo individuarlo fra i paesi della Pianura Padana, qui Luciano, imprenditore a capo di una grande attività con molti dipendenti sente che tutto sta finendo.
Sua moglie Ninni intanto quando pensa alla sua famiglia, le sovvengono il nervosismo di Luciano, i silenzi di Roberto, l’imperscrutabilità di Leonardo, le assenze di sua nuora Elena, l’arroganza dei nipoti, il senso di fallimento che ultimamente aleggia intorno alla sua famiglia, ciò su cui lei ha riversato tutto il proprio impegno.
Ho volutamente riportato ciò che scrive Marco proprio per far sentire lo sbalanco che si apre nella vita intima di una famiglia con le avvisaglie di una malattia invalidante per Luciano che cerca di nasconderla anche alla moglie e con una crisi economica lunga e difficile da gestire.
Camilla vive in questo paese, ha un legame con un dipendente della azienda di Luciano e vive lo sconforto di sentire la precarietà del lavoro “Ciò che Camilla pensa, in questo passaggio della sua esistenza, è che la scintilla iniziale della vita, il dono che in qualche modo tutti possiedono, sia avere un tempo da cui venire e un tempo verso cui andare. Per quanto la riguarda, il tempo da cui proviene lo tiene chiuso dentro la sua memoria. Quell’altro, il tempo futuro che arriverà, in qualche modo, sarà qualcosa cui pensare al momento giusto, perché per lei esiste solo un indefinito presente e magari è così anche per tutti gli altri, per la Manu, per Simone e Deborah che guardano al futuro, persino per suo padre che, invece, maledice più che altro il passato. Viviamo le nostre piccole vite, nella nostra piccola città, e abbiamo paura, di tutto, e quel tutto lo definiamo come la crisi. “Cosa possiamo fare? Chi si ricorderà di noi, che cosa resterà del nostro passaggio qui, se non l’amore, quello stesso amore che a volte non abbiamo avuto e non abbiamo mai conosciuto, e quel nostro straordinario desiderio di vivere, nonostante tutto?”, pensa Camilla
Un libro che mi piace segnalare per la serietà e la veridicità dei fatti narrati, ognuno può ritrovare comportamenti e sentimenti simili, ognuno di noi può rivedere lo specchio di una società e di un monopolio economico che sta impoverendo sempre più relazioni e speranze.
Scritto con competenza e capacità lo affido ai lettori per apprezzare una narrativa civile, come diceva Luigi Malerba, una narrativa di conoscenza e riflessione
L’intervista
[Ippolita Luzzo]: “I segni sulla terra” è ambientato in un paese inventato ma nulla di inventato mi sembra e vorrei proprio iniziare la nostra conversazione situando il racconto in uno spazio. Dove?
Marco Truzzi
[Marco Truzzi]: Cogrosso è un piccolo paese del nord Italia. Siamo certamente in pianura padana, ma non necessariamente in Emilia, dove vivo io. Anzi, i cognomi dei protagonisti suggeriscono che ci si trovi in un’area compresa tra la bassa Lombardia e il Veneto. L’invenzione di un luogo specifico – rispetto alle possibilità offerte dall’ambientare l’azione in una città reale – è stata una scelta nata dalla volontà di “riassumere” in un singolo contesto, per quanto possibile, le caratteristiche che tanti posti diversi hanno comunque in comune. Cogrosso è un paese inventato che si pone come sinonimo di quella grande e liquida provincia italiana che in questi ultimi anni, come una specie di sentinella, secondo me racconta, meglio delle grandi metropoli, certi mutamenti sociali, economici e lavorativi. E che, però, e lo dico con grande rispetto e umiltà, sconta ancora un certo anacronismo quando si trova a essere raccontata.
Dopo lo spazio il tempo. Siamo nel 2008 e già i segni di una delocalizzazione industriale sono forti e impattanti. Nel tuo studio che so risalire ad almeno dieci anni di ricerche quali i segni e i possibili scenari che avrebbero potuto arrestare ciò che ora tristemente vediamo confermato?
Secondo me nessuno. La delocalizzazione industriale – così come altri aspetti legati al mondo del lavoro e dell’impresa – non sono sintomi, ma effetti di un contesto economico internazionale e di un processo di globalizzazione teorizzato e sdoganato già dagli anni Novanta. Molto di quanto poi effettivamente avvenuto era già stato ampiamente previsto dai vari social forum e costituiva parte importante del dibattito sviluppatosi a cavallo del millennio. In questo contesto, tra gli elementi centrali della vicenda raccontata nel romanzo c’è sicuramente quello del passaggio generazionale. I fondatori delle varie realtà che, a partire dagli anni del boom, hanno costituito l’ossatura e la ricchezza del tessuto delle piccole e medie imprese italiane, raggiunti i limiti di età si sono trovati davanti al bivio: cosa fare delle loro “creature” quando, molto spesso, figli e nipoti, non dimostrano il necessario interesse o l’adeguata capacità nel portarle avanti? Questo è un tema che potrebbe sembrare secondario, ma che, invece, sta alla base di molte scelte operate dagli imprenditori locali e dalle loro famiglie, la delocalizzazione, così come le chiusure o la vendita a realtà più grandi, per finire ai fondi d’investimento.
I personaggi sono veri e sentiamo una aderenza psicologica grande con Luciano che nasconde la malattia e con Camilla, con Ninni, la moglie di Luciano. Sembra quasi che tu li abbia incontrati e sicuramente saranno un puzzle di tanti tuoi incontri, vero?
Diciamo che – così come per il luogo e per l’ambientazione – anche questi personaggi non corrispondono a persone vere e proprie, ma si pongono come “condensato” di diverse figure e realtà che sì, ho conosciuto e conosco piuttosto bene. Io parlo di provincia, da provinciale. Io sono nato, cresciuto e tuttora vivo in questa stessa provincia, non la racconto da un punto di vista esterno o lontano. Nella mia bio non si troverà scritto “nato a X, da alcuni anni risiede tra Y e Z”. Questo può certamente diventare un limite d’orizzonte, ma ho pensato che potesse essere anche un vantaggio nel trovarmi a tratteggiare personaggi che, per quanto di fantasia, facevano davvero parte di un’esperienza di vita concreta e reale. Si tratta di un racconto corale, in cui io stesso ho provato a immedesimarmi nelle varie voci, trovando un personale affetto in particolare per Ninni, che è un personaggio a suo modo goffo, ma sinceramente drammatico.
Io ho parlato di narrativa civile, tu come racconteresti a noi la tua esigenza a scrivere e quali i motivi che ti spingono a farlo?
A me ha segnato molto il periodo della pandemia. A livello personale, come tutti noi. Ma a livello di “scrittura” mi sono chiesto, più volte, cosa abbia senso, di fronte all’enormità di quel che stava accadendo. Viviamo immersi in un oceano di parole, quotidiane. Post, like, messaggi, commenti, soluzioni, risposte, articoli. Durante il lockdown, forse, ancora di più. Ma quante, tra queste parole, sono davvero necessarie? Quante voci lo sono? E la mia? A chi può importare? A cosa serve la narrativa (se serve davvero a qualcosa)? Sono le domande che mi hanno accompagnato durante la stesura finale dei “Segni”, cui lavoravo da circa dieci anni. Dieci anni durante i quali mi sono dedicato, in particolare, al reportage, con un progetto specifico sui confini, proprio perché trovavo più “necessaria” una forma di scrittura che si sottraesse all’invenzione. Mi sono reso conto, però, che la realtà è comunque sempre mediata dalle parole di chi la racconta e che in questo spazio di mediazione può esserci anche quello della narrazione e della fiction. “Narrativa civile” è una definizione che mi piace molto, dove per “civile” non intendo però la “denuncia”, il puntare il dito, il mettere all’indice, l’inchiesta, quanto l’inserimento di un racconto in un contesto credibile e necessario che, tramite i canoni propri della narrativa, provi a raccontare storie del proprio tempo. “I segni sulla terra”, per esempio, trattano di un argomento specifico, che è la “misericordia”. Il tentativo è stato provare a incarnare questo concetto e il modo migliore mi è sembrato farlo parlando di lavoro, impresa, famiglia e di tutti i piccoli fallimenti e fragilità che ci portano, quotidianamente, a essere misericordiosi o noi stessi oggetti di misericordia da parte degli altri.
Mi pare che, ultimamente, ci sia un po’ la tendenza a confondere la realtà con l’autofiction, per cui una storia è credibile solo se la si è vissuta in prima persona. Secondo me non è così, questa sarebbe la “morte” della narrazione. Che, invece, proprio come più in generale fanno le parole, è mediazione, è spazio di confronto, è necessità di trovare un equilibrio nella lettura e nell’intepretazione della realtà. In questo senso, la narrativa è giocare ad armi pari, tra autore e lettore, senza ipocrisie.
Marco Tuzzi è nato e risiede a Correggio. Laureato in Filosofia, giornalista pubblicista, è autore del monologo teatrale Tutto quello che è accaduto a Tony Broz da cui è poi nato il libro Caffè Hal, Tel Aviv. Tutto quello che è successo al Signor T.B. Suoi racconti sono apparsi in diversi blog e raccolte, tra cui Palazzo Sanvitale (MUP, 2003), Narratori attraverso (Diabasis, 2007), Cronache dagli anni zero (Perrone, 2010), Granta Italia (Rizzoli, 2011). Ha pubblicato il romanzo Non ci sono pesci rossi nelle pozzanghere (Instar, 2011), con cui ha vinto il Premio Fortunato Seminara e il Premio Bagutta Opera Prima. Tra il 2014 e il 2016, insieme al fotografo Ivano Di Maria, ha realizzato l’inchiesta fotografica Europe around the borders. 2014-2016. Viaggio sui confini dell’Europa che ha ispirato il libro reportage Sui confini (Exòrma, 2017).
Ippolita Luzzo
Il link alla recensione e all’intervista su Premio Letterario Giovanni Comisso: https://bitly.ws/V9Un