“Sin rumbo” di Eugenio Cambaceres
di Cinzia Orabona
Questo libro è per chi ama Schopenhauer e Oblomov. Per chi vuole dialogare con narratore e protagonista. Per chi rifugge dal realismo tout court. Per chi ama i classici che hanno ancora qualcosa da raccontare.
Andrés è il protagonista di Sin rumbo, romanzo scritto da Eugenio Cambaceres nel 1885, che inaugura la nuova collana di Arkadia dedicata agli scrittori di lingua ispanica. Tradotto per la prima volta in italiano, il romanzo del celebre scrittore argentino racconta la storia di Andrés, un giovane che divide il suo tempo tra la vita da proprietario terriero di una hacienda in una ottocentesca Buenos Aires e una relazione sessuale con Donata. Andrés è l’interprete delle tendenze filosofiche ed estetiche del periodo, della noia borghese, degli scandali del suo tempo.
Rispetto a quanto veniva scritto in inglese, francese, tedesco o russo, la letteratura ottocentesca in spagnolo appare più cauta, e rompe con la tradizione dei contemporanei.
Il romanzo si apre con la descrizione della hacienda del protagonista e di lui, Andres:
Le pernici, col loro canto triste, malinconico. I cardellini e i pitanghi olforati, stanchi, attendevano la notte nei boschi, le pavoncelle, a due a due, beccavano custodendo il nido e, allarmate per il volo di un chimango o per la vicinanza di qualcuno che attraversava il campo, si alzavano in brevi voli, si spostavano appena, correvano, si chinavano, svolazzando e liberando il loro verso severo.
[…]
Alla finestra aperta della sua stanza, sdraiato su un’amaca, alto biondo, la fronte sfuggente, solcata da una ruga verticale tra le sopracciglia, gli occhi celesti, dolci, di quella gente che è impossibile guardare senza subire l’attrazione misteriosa e profonda delle loro pupille, la barba tondeggiante, lunga, in parte girigia ormai, anche se da poco aveva passato la mezza età, stava Andrés.
Eugenio Cambaceres, nato a Buenos Aires nel 1843, è morto a Parigi nel 1889. Probabilmente ha ereditato dalla famiglia di suo padre, di origine francese, e dai viaggi in Europa, la conoscenza e l’influenza del romanziere Emile Zola. La sua narrazione fin dall’inizio appare ispirata dal canone culturale del naturalismo francese, che gli ha permesso di raggiungere una dimensione realistica tanto da poter essere considerato il fondatore del naturalismo in Argentina.
Cambaceres osserva l’esistenza umana attraverso il velo di maya, che lascia trasparire la bestia umana ambiziosa e avida che è rappresentata da Andrés. Sin Rumbo compie una svolta rispetto al fenomeno letterario naturalista del tempo, perché non conduce mai il lettore nella monotonia o nella ripetizione tipiche della scrittura dei contemporanei francesi.
Senza rotta (traduzione del titolo), è la vita di Andrés, che incontriamo nella sua hacienda,il quale disonora un modesto contadino e possiede Donata, abbandonandola incinta. Sceglie il fascino della capitale, dove viene attratto da un’altra donna, Marietta, con la quale cerca invano le emozioni che possano rinvigorire corpo e spirito, ma l’inerzia ha il sopravvento. Eccolo ritirarsi, cupo e disincantato, interrompendo, una breve illusione dolorosa, e far ritorno alla sua hacienda, guidato da un sentimento la cui esistenza non sospettava di possedere. Lì incontra sua figlia, la cui madre, Donata, è morta dando alla luce senza mai rivelare l’identità del padre.
La paternità lo nobilita e lo purifica divenendo la sua unica felicità, il suo unico futuro, unica speranza della sua salvezza: tutto è racchiuso per lui nella piccola culla dove riposa il corpo di sua figlia. Una primavera inattesa copre i crepacci di quel cuore in rovina, ma un giorno il momento dell’espiazione si materializza violentemente.
In questo romanzo, Cambaceres dipinge scene della vita borghese quotidiana attraverso la ricercata perfezione dei dettagli: la gita a cavallo sotto il sole di mezzogiorno, alla fattoria della sua amante; la terribile furia della tempesta che cambia i flussi dei torrenti e mette in pericolo la vita di Andrés; l’agonia di Andrea, la sua bambina.
Il romanzo è diviso in due parti, la prima più lunga della seconda. Queste si differenziano anche per il ruolo del protagonista, che subisce una metamorfosi.
Nella prima parte Andrés è il prototipo del tipico borghese, mondano, frivolo e superficiale, preoccupato solo ed esclusivamente da se stesso. Qui emerge l’alienazione umana e sociale di Andrés.
E in un momento di nausea, di stanchezza, di avversione profonda per tutto, i viaggi, il mondo, e sempre, e dappertutto, in forme varie e diverse, la stessa oasi di orrore. Insensibile, dilaniato, senza fede, con il cuore di pietra, l’anima inaridita, annoiato dalla conoscenza della vita, da quell’insieme di bassezze umane.
Come Oblomov trascorre giorni chiuso dentro le mura di casa […] senza voler vedere o parlare con nessuno. Quasi a voler replicare un momento già vissuto dal contemporaneo protagonista del celeberrimo romanzo del russo Goncarov. Questo Oblomovismo cessa nella seconda parte, a causa della sua nuova condizione di padre, il suo personaggio diventa amichevole e allegro e quella sensazione di egoismo e indifferenza verso gli altri è sostituita da un profondo amore per la sua piccola Andrea.
Come in un cerchio che congiungee alla perfezione il suo inizio e la sua fine, il romanzo si apre e si chiude con due scene cruente. Non a caso, una costante nel romanzo di Cambaceres è il confronto tra uomo e animale: c’è in tutta la narrazione un continuo rimando tra la natura umana e quella animale, in particolare quella dell’animale selvatico, libero come a ricordarci che gli istinti animali sono una parte indivisibile e inseparabile dell’individuo.
Inoltre, c’è sempre un cambiamento atmosferico o un avvenimento che accompagna l’evoluzione umana: la morte di un protagonista coincide con quella del bestiame della hacienda; il giorno in cui Andrea si ammala, dopo una calda e soleggiata mattina, arrivano le nuvole, il vento fischia e alla fine piove intensamente.
Le descrizioni della natura di Cambaceres sono dettagliate e preziose, cariche di aggettivi e metafore. Persino l’aspetto sensoriale è onnipresente: ecco che sentiamo odore di garofani e rose mosquetas. Tutte queste descrizioni, più caratteristiche della letteratura romantica, sono essenziali per una completa comprensione del testo.
Anche se Andrés è il protagonista indiscusso di questo romanzo, le donne governano la sua esistenza. Donata, Andrea, la zia Pepa e Marietta, la giovane cantante d’opera, hanno tutte un ruolo determinante ai fini della narrazione. L’autore ricorre sempre a descrizioni che richiamano costantemente flora e fauna per descrivere i rapporti con le “sue” donne.
Donata, come quei fiori selvaggi di campagna che profondono il loro aroma senza opporre alcuna spina alla mano di chi li coglie.
Mentre Marietta, la cantante, viene descritta così:
Da sotto gli abiti, si indovinavano in lei gli artigli di una leonessa e il corpo di un serpente.
Andrea, la figlioletta di Andrés, provoca il cambiamento definitivo della personalità paterna. Come afferma il protagonista, è proprio sua figlia ad insegnargli ” ad amare e a perdonare, a vedere solo il buono negli altri“; grazie a lei inizia ad amare gli uomini, gli animali, le cose, se stesso: “tutto gli sorrideva.” Tuttavia, la felicità che prova per la sua amata bambina non sembra essere sufficiente perché teme costantemente che possa accaderle qualcosa di brutto. Si tortura pensando che la felicità non sarà eterna. Fenomeni atmosferici anticipano e accompagnano il deterioramento fisico della bambina. La natura si agita, diventa brutale, si manifesta in tutta la sua violenza, confermando le ansie che Andrés nutre da tempo.
Le donne, come gli animali, non hanno il potere di decidere sulle loro vite, ma sono soggiogate alla volontà dell’uomo. Se le donne piangono, urlano, esprimono le proprie emozioni, l’uomo, Andrés, d’altra parte, non piange, non soffre.
Come se dentro di lui fosse seccata la fonte del sentimento, gli occhi di Andrés non piansero nemmeno una lacrima, nemmeno un lamento uscì dalle sue labbra.
Cambaceres ci mostra la storia attraverso gli occhi di Andrés, ma c’è una voce narrativa che è in conflitto con le idee e le parole del protagonista. Ci mostrerà Andrés immerso in lunghe meditazioni che riecheggiano il pessimismo di Schopenhauer, Sembrerebbe, quindi, che in questi casi il narratore e il protagonista condividano certe credenze basate su Schopenhauer: entrambi sono lettori della sua filosofia, ma non dovrebbero essere confusi.
La colonna sonora di questo romanzo è composta da due arie d’opera. La prima è La mamma morta, tratta dall’Andrea Cheniér, opera in quattro atti di Umberto Giordano (1896). L’opera rappresenta un nuovo genere di verismo in musica e quest’aria, oltre a condensare le innovazioni proposte, ha anche molto in comune con Andrés. Innanzitutto, il continuo confronto, anche nel testo del libretto di Luigi Illica, con la natura. Inoltre
La mamma morta m’hanno
alla porta della stanza mia;
Moriva e mi salvava!
poi a notte alta
io con Bersi errava,
quando ad un tratto
un livido bagliore guizza
e rischiara innanzi a’ passi miei
la cupa via!
Guardo!
Bruciava il loco di mia culla!
Cosi fui sola!
E intorno il nulla!
Fame e miseria!
Il bisogno, il periglio!
Caddi malata,
e Bersi, buona e pura,
di sua bellezza ha fatto un mercato,
un contratto per me!
Porto sventura a chi bene mi vuole!
Fu in quel dolore
che a me venne l’amor!
Voce piena d’armonia e dice:
“Vivi ancora! Io son la vita!
Ne’ miei occhi e il tuo cielo!
Tu non sei sola!
Le lacrime tue io le raccolgo!
Io sto sul tuo cammino e ti sorreggo!
Sorridi e spera! Io son l’amore!
Tutto intorno e sangue e fango
Io son divino! Io son l’oblio!
Io sono il dio che sovra il mondo
scendo da l’empireo, fa della terra
un ciel! Ah!
Io son l’amore, io son l’amor, l’amor”
E l’angelo si accosta, bacia,
e vi bacia la morte!
Corpo di moribonda e il corpo mio.
Prendilo dunque.
Io son già morta cosa!
L’altra aria d’opera è Credo in un Dio crudel tratto da Otello di Giuseppe Verdi. Questa è la musica perfetta per accompagnare il finale, proprio quando Andrés invoca Dio:
Dio, Dio mio, Dio Eterno … sì, credo in te, credo in tutto… ma salvala …
Intanto Jago, all’ombra dell’ignaro Otello:
Vanne; la tua meta già vedo.
Ti spinge il tuo dimone,
e il tuo dimon son io,
e me trascina il mio, nel quale io credo,
inesorato iddio.
Credo in un dio crudel che m’ha creato
simile a sé e che nell’ira io nomo.
Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo
vile son nato.
Son scellerato
perché son uomo;
e sento il fango originario in me.
Sì! questa è la mia fé!
Poi cala il sipario e
La nera spirale di fumo, portata dal vento, si stendeva nel cielo come un immenso velo di crespo da lutto.
Buona lettura e buon ascolto!
Cinzia