Luigi Marfè


Sin rumbo. La vita senza rotta di un uomo solo

Sin Rumbo, senza rotta, è il titolo di questo libro di Eugenio Cambaceres, pubblicato dalla sempre attenta Arkadia nella collana Xaimaca, dedicata alla letteratura sud americana. E senza rotta ci appare davvero la vita di Andrés, protagonista di queste pagine di Cambaceres in cui, a tratti, ci sembra di ritrovare tracce della vita dello scrittore stesso. Nato a Buenos Aires nel 1843 unì a lungo scrittura e vita politica, nel cui agone si trovò come deputato e come vicepresidente del Club del Progreso. Come il protagonista di questo Sin rumbo, Cambaceres ebbe una relazione con una cantante lirica, motivo di grande scandalo a cui si aggiunse la mancata sfida a duello con il di lei marito, che poi, decise di scappare in Europa.

Europa che vide anche lo scrittore, a Parigi esattamente, soggiornare lungamente e qui far suo l’amore per la letteratura francese, in particolare Zola, al cui naturalismo dedicò studio e ammirazione tanto da introdurlo in Argentina insieme a quegli scrittori con cui diede vita a quella che fu chiamata Generaciòn del ochenta.

In queste pagine seguiamo la vita e legesta di Andrés, ricco possidente, che vive in una meravigliosa estancia nella pampa argentina, non molto lontano da Buenos Aires. Qui la sua hacienda agricola gli garantisce ricchezza e benessere e un’esistenza fatta di viaggi, di donne, di gioco. Eppure. Eppure, novello erede dell’insoddisfazione shopenhaueriana, Andrés annega nella noia, in quella mancanza di senso, e di rotta, appunto, che lo conduce in quel limbo fatto di irrequietezza e rabbia. Verso sé stesso e gli altri. Il sentimento della solitudine non lo abbandona mai, soprattutto quando essa viene riempita da cose che non gli offrono appiglio alcuno.

Con la stessa pesante leggerezza con cui affronta i suoi giorni, Andrès affronterà la notizia che Donata, figlia di uno dei suoi braccianti, aspetta un figlio da lui. Indifferente tanto quanto insofferente parte per Buenos Aires, lasciando la donna e lo stesso desiderio animalesco per lei provato fino a poco prima. È questo solo uno dei repentini cambiamenti che nell’animo di Andrés sono la rappresentazione della sua insoddisfazione, del suo rifiuto di pensare e di soffermarsi su cose e persone che, per lui, altro non sono che momentanee tappe verso il nulla. A Buenos Aires comincia il consueto girotondo tra donne, scandali mondani, gioco d’azzardo, fugaci seduzioni. Fino a quando, con la subitaneità apparente che hanno le cose che, in realtà stanno scavando un solco da molto tempo, Andrés capisce che non è quella la vita che vuole. Ancora l’inquietudine lo guida anche se, questa volta, sembra guidarlo verso un ritorno che vorrebbe essere una nuova partenza. Andrès vuole conoscere suo figlio che, scoprirà essere una bella bambina, rimasta orfana della madre, morta pochi giorni dopo il parto. Ma il destino sembra avere in serbo per lui ben altro. Una sorta di maledizione, una impossibilità di trovare quiete.

Cambaceres ci regala un libro pregno di quelle atmosfere sudamericane in cui la realtà è talmente complessa da poter benissimo assumere i connotati della magia, anche quella nera, quella plumbea di un destino che sembra non trovare pace, condannato a pagare colpe che, in fondo, colpe non sono ma, semmai, umane debolezze.

In questo Sin Rumbo, Cambaceres ci consegna pagine in cui lo stesso stile accompagna e si distende sulle diversi parti di cui il libro si compone. Se, nella prima, un’attenzione quasi chirurgica ci immerge nella pampa, esso scivola poi nella languidezza e quasi decadenza della vita nella rutilante Buenos Aires e nei suoi amori carnali e fugaci. Ma poi, nella seconda parte, quella del ritorno e della disperata ricerca di un senso, lo stile diviene quasi una slavinante disperazione, una violenta, e tenera al contempo, entrata nel mondo della responsabilità di padre con la conseguente entrata in scena, nella vita di Andrès, della paura per il futuro. Solo allora si accorge, Andrès, che il futuro è un’ipotesi, un orizzonte degli eventi con cui fare i conti. Anche quando arriva troppo presto. Dando così ragione a Shopenhauer, ricordato nel libro, quando scrive: “Ci accorgiamo del tempo solo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. La nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo.” E per Andrès il tempo sarà la scoperta del dolore.
Cambaceres ci regala un personaggio che è figura dell’uomo solo e inquieto, così presente in molta letteratura del secolo successivo. Portatore di una domanda che è quella che porta a chiedersi se la felicità sia possibile anche solo per attimi fugaci.

Geraldine Meyer



“Guerra verticale” di César Vallejo

Era il più piccolo di undici fratelli, meticcio, la mamma era india ed è stato il più grande poeta e scrittore peruviano ed uno dei più importanti del Sud America, secondo solo a Dante a parere di Thomas Merton. Parliamo di Cesar Abraham Vallejo Mendoza, che conosciamo in Italia per un recente agile volume che offre un esempio articolato del suo contributo alla letteratura internazionale. L’inedita pubblicazione in Italia è merito della casa editrice cagliaritana Arkadia. A fine 2018 è andato in stampa e nelle librerie “Guerra verticale e altri racconti” (126 pagine, 14 euro), che raccoglie due testi: un romanzo breve, “Verso il regno degli Sciri” e una raccolta di racconti, “Scale”.
Tra i due, il testo narrativo più ampio, sebbene incompiuto, è quello che avvicina di più i lettori a Vallejo, i racconti infatti sono disomogenei per natura e si prestano meno ad offrire un valido biglietto da visita dell’autore andino.
Inquadriamo intanto questo protagonista della cultura mondiale, che ha lasciato una traccia della sua presenza nel Novecento europeo, durante il soggiorno in Spagna e in Francia, con una parentesi anche in Russia. Era comunista e la fede politica gli creò problemi col governo francese. Fu ben accetto invece dalle Sinistre spagnole e a Madrid affiancò Pablo Neruda nella redazione di una rivista antifascista, ma la sua permanenza in terra iberica ebbe bruscamente termine per l’esito infausto della guerra civile. Con la vittoria dei nazionalisti di Franco, riparò in Francia, dove morì prematuramente nel 1938, in totale povertà.
Cesar era nato a Santiago de Cucho nel 1892, sulle Ande. La madre, Maria Rosa, era di etnia india, come le nonne, il padre faceva il conciliatore di liti giudiziarie. Da ultimo nato, era destinato al sacerdozio, ma il ragazzo preferì il laicato. Studiò lettere e riuscì a laurearsi nel 1915, dopo avere alternato gli studi al lavoro, per mantenersi. Nelle piantagioni di zucchero, poté così constatare il cinico sfruttamento della mano d’opera indigena da parte di proprietari terrieri e manutengoli. Sovversivo e per un altro verso bohemienne, per il sodalizio stretto con altri giovani letterati, si trasferì a Lima e intraprese l’insegnamento. Contemporaneamente, si dedicò alla scrittura, in versi.
Cinque anni dopo, la nostalgia lo riportò a casa. A contatto di nuovo con le vessazioni subite dagli indios, manifestò atteggiamenti che misero in guardia le autorità. Un processo farsa, con l’accusa infondata di avere appiccato un incendio doloso, lo costrinse a mesi di carcere. Una condizione kafkiana, fa notare il curatore di questa prima edizione italiana, Luigi Marfè.
Guerra verticale, spiega, è un’espressione che mette in risalto come un conflitto, ancora prima di scatenarsi, sia già divampato nella mente di chi lo ha provocato o non efficacemente contrastato.
“Hacia el reino de los Scires” è stato un progetto avviato all’incirca nel 1924 e in realtà mai condotto a termine. Ebbe una gestazione travagliata questa sua riflessione storica sulle campagne di conquista condotte dal decimo re inca, Tupac Yupanqui, poco prima dell’arrivo dei conquistadores in Perù.
Il romanzo non è lungo ed è stato redatto a strappi, tra il 1924 e il 1928, in uno spagnolo che risente notevolmente degli echi della lingua andina. Ne autorizzò la pubblicazione solo in parte nel 1931. È uscito postumo nel 1944.
Nel passato inca, Vallejo vede le radici del popolo peruviano. Tupac vive una realtà prettamente incaica, ma la sua sensibilità politica sembra molto moderna. Comprende che la guerra è distruzione e che le responsabilità ricadono su chi l’abbia determinata.
I suoi guerrieri rientrano in Cuzco taciturni. Li guida il principe ereditario Huayna Capac, messo ancora adolescente alla testa di una spedizione di conquista, con l’obiettivo di occupare territori e soggiogare popolazioni. Una parte delle operazioni ha riscosso successo, una città ha spalancato le porte, tra lo spavento per l’ardore degli attaccanti e la corruzione degli anziani con elargizioni segrete, ma non c’è stato verso invece di piegare i fieri Chachapoya. Le perdite e il gelo sono risultate insopportabili. Da qui la ritirata a Cuzco.
L’inca è contrariato, ma non manca di considerare che quanto accaduto sia la volontà degli dei. Se non quella, è comunque la sua: il principe è stato sconfitto, i sacrifici vani, è tempo di rinunciare a combattere.
Basta conquiste, ci si dedichi alle fatiche della pace.
Questo vede Tupac ed è sincero quando dichiara di voler mettere fine alle guerre. Ma altri presagi e qualche catastrofe gli faranno cambiare opinione: l’esercito del Sole riprenderà la marcia verso la Cordigliera, pronto a mietere altre vite.
Nelle prime pagine dei primi racconti di “Scale”, riuniti nel capitolo “Cuneiformi”, lo scrittore rivede la vita in prigione, il rapporto con gli altri reclusi. Ogni brano prende il titolo da un muro del carcere. La presenza delle sbarre che bloccano la finestra della cella diventa un muro ulteriore, che delimita un micro universo claustrofobico.
“Coro di venti”, la seconda raccolta di racconti – altro capitolo della sezione “Scale”, spazia a sua volta su temi diversi uno dall’altro, decisamente meno omogenei.

Felice Laudadio



La locanda dei perdenti nella Baires degli anni ‘30

Amico di Roberto Arlt, aderente anch’egli al gruppo letterario Boedo – che nell’Argentina degli anni Venti si contrapponeva, ma sempre nella reciproca stima, al Florida guidato da Borges, a sostegno di una letteratura sociale anziché fantastica – Enrique González Tuñón è prepotentemente schierato dalla parte degli emarginati, dei perdenti, ne segue la vita nella sua attività di giornalista, ne canta le gesta nei racconti. Ad esempio questi, raccolti in Letti da un soldo (Arkadia, traduzione di Ferrazzi e Magliani) e superbamente aperti dal suo testo forse più emblematico, “I cinque”. Lo scrittore argentino descrive la lotta per la sopravvivenza di cinque scansafatiche che vivono alla giornata, cinque “cialtroni”, come li definisce Adrián N. Bravi nella prefazione, che si muovono nei bassifondi della città e si compiacciono della propria condizione di emarginati, contrabbandieri, papponi. González Tuñón è un maestro della giusta distanza, conosce perfettamente la tragicomica realtà nella quale vivono i suoi personaggi, non cede mai al pietismo o alla condanna. La sua prosa è secca, tirata come una di quelle vite miserabili. I “cinque” hanno tutti un passato, ma non vedono un futuro. La sera rientrano in una locanda-bettola, “La pignatta misteriosa”, gestita da un tizio uguale a loro, soltanto che sta dall’altra parte del banco, un uomo senza capelli che vende il diritto a un lenzuolo sciupato nel suo “ospedale di casi disperati” dove il dilemma principale è se credere o non credere in Dio. 

(r. d. g.)



Con Tuñón una mappa narrativa di Buenos Aires

Tornano i racconti di Enrique González Tuñón (1901-1943). Torna il mondo di un artista che amava la sua città quanto la scrittura, e che disse: “quando morirò non piantate un salice, piantate una macchina da scrivere”. Letti da un soldo, uscito nel 1932 con il titolo Camas desde un peso e ora proposto da Arkadia, è una raccolta di racconti che narra di amici perdenti, e della città che morde e annienta. Enrique González Tuñón (1901-1943) gioca a confondere i confini tra realtà e finzione, tragico e comico, rappresentando l’angoscia del vivere e la sua stranezza. Letti da un soldo, la sua opera più riuscita, propone una mappa narrativa di Buenos Aires, in cui la città reale si sovrappone a quella immaginaria, come nell’opera del suo amico Robert Arlt, o in altri grandi scrittori argentini: Jorge Luis Borges, Oliverio Girondo, Roberto Mariani, Raúl Scalabrini Ortiz. I personaggi di Tuñón sono disperati, innamorati, ubriachi, affamati, sognatori: malinconici scheletri del passato, dietro un vetro da museo, che aspettano la visita di qualcuno. Questa edizione italiana comprende anche una scelta degli altri racconti di Tuñón, appartenenti a El alma de las cosas inanimadas (1927) e La rueda del mulino mal pintado (1928). Sono i racconti dell’assurdo, per così dire lunatici, di un narratore che appare nei racconti dicendo di possedere “uno sguardo a raggi x”, incline a “vedere sempre lo stesso malinconico paesaggio di anime” e ad “affrontare la vita da un punto di vista grottesco”, col sorriso di un pazzo docile (“un loco dócil”). Il mondo di Tuñón è il mondo di un artista che amava la sua città quanto la scrittura, e che disse: quando morirò non piantate un salice, piantate una macchina da scrivere.



Piccoli uomini

Per l’argentino González Tuñón (1901-1943) non esistono più torri d’avorio destinate a proteggere i letterati. “Sono state abbattute a cannonate”, la vita moderna vuole che gli artisti scendano in strada. Il suo Letti da un soldo è un libro grottesco, aggressivo, dolente ma non privo di uno strano umorismo. Perduti in una “città ambiziosa, febbrile, frettolosa”, gli invisibili piccoli uomini che affollano questi brevi racconti sono ossessionati dalla fame e presentano punti di contatto con il mondo marginale descritto nelle arltiane Acqueforti di Buenos Aires. C’è però una differenza: per González Tuñón la scrittura non è un gancio alla mandibola del lettore, come in Arlt, ma “una sghignazzata dentro una bara”.

Loris Tassi



SIN RUMBO

Andrés è un possidente, è giovane, ha tutto quello che potrebbe desiderare: agiatezza, denaro, donne, amicizie. La sua vita però è una melina tediosa e rabbiosa al contempo ‒ se i due aggettivi possono sposarsi insieme ‒ passata tra la estancia (le terre) nella quale lavora insieme ad un manipolo di peones ai suoi comandi, e Buenos Aires, dove vive una vita mondana tra teatri, bar, tavoli di baccarà e amanti occasionali d’alto bordo. Il ragazzo un animo inquieto, fumantino, non crede in Dio e ama Schopenhauer. Del filosofo polacco fa sua soprattutto la considerazione che “Ci accorgiamo del tempo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. Entrambe le cose dimostrano che la nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo: ne segue che sarebbe meglio non averla”. Nutre un certo disprezzo per il genere umano ed una sostanziale noia derivata da una perenne, frustrante, insoddisfazione. Pensa continuamente al suicidio come unica forma di liberazione da quella vita priva di senso. Poco prima di trasferirsi alcuni mesi a Buenos Aires, Donata, la figlia mulatta di un servo, gli dice di aspettare un figlio e che il figlio è suo. Forse Donata è innamorata o forse disperata perché sa come vanno le cose tra padroni e servi. Soprattutto, sa come vanno le cose tra padroni e serve. Andrés è infastidito dalla notizia, teme che possa bloccarlo lì. Donata gli piace e sa bene quello che ha fatto con lei, quindi si rifugia in uno sterile e poco convinto “tornerò”. Intanto a Buenos Aires conosce la Amorini, una cantante lirica italiana bella e avvenente in cartellone al teatro Colón. Tra i due scoppia una passione focosa, ma dopo i primi mesi Andrés inizia ad essere insofferente al ruolo di “primodonno”, di amante ufficiale della Amorini. Comincia a trovare nella donna tutti i difetti possibili e lo stesso fa con se stesso – arrivato a trent’anni senza una direzione precisa – dopo aver ipotecato la estancia all’ennesimo tavolo di baccarà. All’improvviso, nel punto più basso della sua esistenza, si guarda intorno e vede solo fallimento, debiti, dissipazione. Niente che abbia messo radici. E poi, al centro di questa miseria, un pensiero fulminante che lo lascia senza fiato, lo turba e lo scuote, l’unica cosa che possa considerarsi, quella sì, una radice a cui aggrapparsi: quel figlio lasciato nel ventre di Donata e che nel frattempo dei suoi bagordi portegni sarà già nato. Un figlio suo e il pensiero di lui che è padre…

Eugenio Cambaceres è un narratore di una finezza estrema e di un pessimismo senza soluzione; una scoperta mozzafiato che dimostra le profondità abissali cui può spingersi la letteratura. Nella sua narrativa struggente non c’è conforto; si è impreparati di fronte all’assenza di una tregua, davanti al tedio che consuma i giorni, lo stillicidio di uno spreco che non centellina gli istanti. Sin rumbo è la sconvolgente storia che non ti aspetti, fatta di mille piccole luci di teatro, paesaggi rurali, pampa sconfinata e polverosa, di sregolatezza, di acuti lirici che lentamente si abbassano e si spengono, un elemento alla volta, per lasciare una scena nuda, quasi desertica. Una desolazione sconfinata in cui si muove senza meta un accidioso e iracondo campagnolo che cerca disperatamente guizzi di vita coi quali riempire vuoti cosmici. Sembra di annoiarsi insieme al protagonista, di trascinarsi, fino a quando la storia non esplode, letteralmente (e ‒ letteralmente ‒ su una parola ben precisa), e sprigiona tutta la sua crudezza e tutta la sua devastante, carnale poesia. Sin rumbo (titolo lasciato efficacemente in lingua originale dai traduttori) in italiano si tradurrebbe “senza rotta” o anche, in senso figurato, “senza condotta” e racchiude in sé il cuore di questo uomo ‒ Andrés ‒ che sta al mondo in modo disordinato, ondivago, confuso tra la consapevolezza travolgente del niente e l’ostinazione passeggera alla salvezza. Nella sua esistenza fatta di sperpero e donne, niente arriva per restare. Tutto passa. E tutto fa male. Tutto nell’anima è un trafficare di dolore al quale ci si può contrapporre soltanto murandosi dentro un nichilismo irriducibile, augurandosi una morte per quanto prematura, occasionale, procurata. C’è solo una cosa che può aprire una breccia in questa esistenza e quando arriva richiede l’urgenza liberatoria di un cambiamento: è lo scoprirsi padre, un moto che lo riconduce ad una responsabilità, ad avere un ruolo su questa terra, alla coscienza di una cura, all’amore viscerale e incomprensibile, frastornante e assoluto. È il toccare il cielo con un dito col terrore atavico che quella gioia sfumi da un momento all’altro per una ripicca, per un capriccio divino, per una compensazione. Nel suo cuore, essere padre e la sana follia dell’amore gettano il seme dell’inquietudine, una prospettiva spaventosa, presaga di eventi irreparabili. Si chiama cherofobia, ed è la paura di essere felici. Dentro Sin rumbo questa paura si amplifica man mano che la storia si compone; si identifica, soverchia, occupa ogni interstizio, ci lascia soffocare insieme ad Andrés, alla sua solitudine incolmabile, insieme a quel senso di irreparabilità per il quale la vita è solo una iattura e un’impostura, uno scherzo crudele che è stato giocato all’uomo, il cedimento al ritorno dentro il ventre del nulla. La vita, qui, è la punizione con cui si ripara a un peccato, a una contraddizione. È un contrappasso, la dura prova del Giobbe tradito e devastato.

Romina Arena



A proposito di “Sin Rumbo”

Lo Spleen di Cambaceres 

Alla riscoperta di Eugenio Cambaceres, scrittore argentino del secondo Ottocento, attento agli sviluppi del naturalismo francese ma con una forte connotazione latinoamericana delle origini 

Grazie all’intraprendenza e alla lungimiranza della giovane casa editrice Arkadia e alla competenza e alle abilità linguistiche di Marino Magliani e Luigi Marfè finalmente è stato pubblicato in Italia Sin Rumbo (Senza rotta) di Eugenio Cambaceres. Lo scrittore, nato a Buenos Aires nel 1843, appartiene a quella generazione degli Anni Ottanta che ha assistito e spesso partecipato al consolidamento politico, sociale ed economico dell’Argentina, dopo le lotte civili tra federali e unitari. Sono gli anni di una massiccia immigrazione che non sempre riesce a integrarsi e finisce col sovrappopolare le città costiere, mentre aumenta a dismisura il potere economico delle oligarchie rurali, di coloro, cioè, che lavorano la terra e allevano il bestiame. Gli intellettuali sono espressione di questa élite che governa il paese e hanno un bacino di utenza molto limitato perché il tasso di analfabetismo supera l’ottanta percento della popolazione.

Essi, quindi, riflettono nelle loro opere i loro stati d’animo che variano dall’euforia e la soddisfazione per i privilegi ottenuti alla delusione e la frustrazione quando le loro aspirazioni escono sconfitte da una realtà che, nel passaggio dall’isolamento e dall’immobilità di una vita semicoloniale a uno stato moderno e organizzato, continua a essere complessa e problematica. Accanto a Lucio Victorio Mansilla, che può essere considerato l’archetipo dello scrittore di questa generazione, e a Miguel Cané, dobbiamo citare appunto Eugenio Cambaceres, un avvocato che dopo essersi occupato attivamente di politica, si dedica alla Letteratura aderendo, almeno a livello programmatico, al Naturalismo di Zola che rappresenta, in maniera spesso truculenta, il degrado fisico e morale di una società malata, da studiare come un corpo infetto.

Sin rumbo, scritto nel 1885, è la storia di un uomo, Andrés, proprietario di una vasta hacienda a 20 Km da Buenos Aires, nella pampa argentina, magnificamente descritta: «… come un riflesso verde nell’azzurro del cielo, indifesa, sola, spoglia, splendida, che mostrava la propria bellezza, come una donna nella sua nudità». In questa hacienda si allevano ovini e bovini ed è proprio con la pratica della tosatura e della marchiatura, talvolta brutale per l’insipienza o la durezza dei peones, mentre dalla finestra aperta, sdraiato su un’amaca, Andrés osserva impassibile la scena, che si apre questo romanzo. L’incipit mostra quanto Cambaceres sia stato influenzato nei temi e nello stile, ruvido e scabro, dal naturalismo, e questa impressione viene confermata, nel corso del romanzo da altre situazioni che vedono il protagonista in lotta contro gli elementi della natura, penso al nubifragio che si abbatte su di lui, sui suoi uomini e i loro cavalli, mettendo a repentaglio la loro incolumità, nel viaggio di ritorno a casa. Anche la scena conclusiva con l’improvviso aggravarsi della malattia della sua bambina che spinge il giovane medico a praticare con mezzi di fortuna una tracheotomia sembra uscire direttamente, per la crudezza e la drammaticità della situazione, dalla narrativa di Émile Zola.

Ridurre, però, Cambaceres a un seguace del grande scrittore francese mi sembra schematico e riduttivo. Volendo, infatti, rimanere nell’ambito del realismo della II metà del secolo diciannovesimo, riterrei più corretto accostarlo a Verga per quel senso di fatalismo, di ineluttabilità che grava sui suoi personaggi che non riescono a modificare la propria situazione di partenza, né in campo sociale né in campo sentimentale. Sono dei vinti, costretti a subire il loro destino e, nonostante gli sforzi e le energie profuse, vengono risospinti dalla marea sulla riva. La loro lotta contro la natura è destinata alla sconfitta perché le leggi della natura si possono violare, trasgredire ma non modificare. Inoltre non c’è quello slancio verso il futuro (Andrés è sempre rivolto al passato, anche quando sembra allontanarsene) né c’è quella fiducia incondizionata nella scienza che è proprio dei positivisti. Non basta, a differenza di Zola che si fa portavoce di un’esigenza di progresso, politico e sociale, che nasce con lui e intorno a lui, a Cambaceres come a Verga manca un reale interesse per le classi sociali subalterne e si limita, talvolta, a guardare verso di loro con un atteggiamento di umana compassione. Infine nel romanzo in questione c’è, come nella vita dell’autore, un amore profondo per il teatro e la vita mondana che ci richiama alla mente il giovane Verga, quello, per intenderci, dei romanzi giovanili tardo-romantici (Eva, Eros e Tigre reale).

Per mettere a fuoco il personaggio di Andrés è indispensabile riportare l’inizio del V capitolo: «Immerso nel suo pessimismo, scavato dai più grandi demolitori meccanici moderni, affondato nel più profondo nulla delle nuove dottrine, trascinava la vita nella più nera solitudine». E più avanti: «…niente e nessuno veniva risparmiato al cospetto della legge amara e inesorabile del suo scetticismo. Nemmeno l’affetto della madre, figlio unico com’era del suo dolore; nemmeno dio, un assurdo spaventapasseri inventato dalla stupidità degli uomini».

Questo suo stato di inquietudine profonda, di malessere esistenziale, di noia perenne è, per molti versi, riconducibile allo spleen baudelairiano e ci conferma quanto approssimativa sia l’attribuzione di istanze e stilemi naturalistici a Cambaceres che ha personalità così complessa ed eterogenea da sottrarsi a una definizione univoca. In lui ritroviamo tutti o quasi gli aspetti contraddittori di quella temperie culturale, complessa e variegata, che si respira in Europa nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Non riuscendo a trovare pace, tormentato da questa assurda inquietudine, da questo umor nero, Andrés decide di recarsi a Buenos Aires e non desiste dal suo proposito neppure quando Donata, la figlia di un suo dipendente, con la quale ha intrecciato una relazione, gli confida che sta per mettere al mondo una sua creatura. Giunto nella capitale Andrés si dà a una vita di bagordi, frequenta teatri, locali alla moda e case da gioco, passa dalle braccia di una donna a quelle di un’altra. Si trascina per le vie e i locali di Buenos Aires, pigro e distratto, come un flâneur (evidente ancora una volta l’influenza baudelairiana) senza lasciarsi coinvolgere emotivamente, neppure quando instaura una relazione erotico-sentimentale con l’Amorini, un soprano non eccelso ma sensibile, a dispetto del suo stato civile di donna coniugata, alle attenzioni e alle premure maschili. Anche quella vita, dopo non molto, però comincia a stancarlo e l’attrazione nei confronti della cantante si tramuta ben presto in un’invincibile antipatia. Le stesse rappresentazioni teatrali che tanto lo avevano affascinato gli sembrano riflettere la farsa della vita sociale, mentre la vita politica gli ha «sempre suscitato il più cordiale disprezzo». Andrés si sente sempre più: «Disperato, abbattuto, esausto, andava alla deriva, senza rotta, nella notte nera e gelida della vita». Accarezza, persino, l’idea del suicidio. Poi, però, prendono il sopravvento, il desiderio di tornare alla sua hacienda e la nostalgia della pampa, di quella vita libera, lontana dalla corruzione della città e dal putridume sociale. A ciò si aggiunga, in un rigurgito della sua appannata coscienza, cosa per lui del tutto nuova, l’immagine del figlio di Donata che lo aspetta e… allora prende la via di casa.

Non credo che sia opportuno continuare a raccontare la storia, sarebbe un pessimo servizio, non tanto per l’autore, morto di tisi nel 1888, quanto per l’editore e soprattutto per i lettori, per cui ci fermiamo qui evidenziando non solo l’autobiografismo che connota il romanzo, dal momento che Eugenio come Andrés viaggiò molto, amò il teatro lirico, ebbe una relazione con una donna sposata che poteva finire tragicamente e soprattutto fu afflitto dalla noia di vivere o spleen, ma anche la qualità di una scrittura densa, icastica, aderente alle cose e agli stati d’animo. Si pensi alla quantità e alla precisione di termini botanici e zoologici che si rilevano nel romanzo e al linguaggio che varia da personaggio a personaggio a seconda dello stato sociale a cui appartiene.

Un libro, a dir poco, interessante e coinvolgente e ci si rammarica che sia stato tradotto in Italia soltanto ora a 133 anni di distanza dalla sua pubblicazione. Fatti e misfatti dell’editoria.

Francesco Improta



Lo Scaffale di Andrea: Sin rumbo

Rotte senza destino, rotte senza destinazione

Recensione al libro di Eugenio Cambaceres 

“Sin rumbo”

 

“Los squires ingleses silbaban para llamar a sus sabuesos, y algunos personajes dickensianos silbaban para conseguir un cab. En quanto a la literatura argentina silbaba poco, lo que era una verguenza. Por eso aunque Oliveira no habìa leìdo a Cambaceres, tenìa a considerarlo como un maestro nada màs por sus titulos, a veces imaginaba una continuaciòn en la que el silbido se iba adentrando en la Argentina visible e invisible…”

“Gli squires inglesi fischiavano per chiamare i loro segugi e alcuni personaggi di Dickens fischiavano per ottenere un cab. In quanto alla letteratura argentina (Oliveira) fischiava poco, una vera vergogna. E così, per quanto non avesse letto Cambaceres, Oliveira tendeva a considerarlo un maestro più che altro per certi titoli e qualche volta ne immaginava il seguito in cui il fischio si insinuava poco a poco nell’Argentina visibile e invisibile…” (Cortàzar, J: “Rayuela”. Catedra. Letras Ispanicas. Madrid 2003. Pag. 389. La traduzione italiana è di Flaviarosa Nicoletti. Rossini. Einaudi. 2015. Pag.245).

Non è un caso che il nome di Eugenio Cambaceres compaia in uno dei romanzi più importanti e complessi di Julio Cortàzar e non è un caso che compaia il fischio. Sia la prima opera di Cambaceres, pubblicata nel 1882, “Potpourri”, sia la seconda, pubblicata nel 1884, “Musica sentimental” avevano come sottotitolo “Silbidos de un vago”, “Fischi di un pigro”. Del resto Cortàzar cita ancora Cambaceres nel brevissimo capitolo 153 di “Rayuela” (Pag. 733 dell’edizione originale). Aggiungo che nel romanzo più importante di Cambaceres “Sin Rumbo”, pubblicato nel 1885, questo sottotitolo scompare.

Dunque il fischio. Quel fischio di Horacio Oliveira, eterno studente e infaticabile flaneur a Parigi, quel fischio che rende omaggio a un autore considerato un maestro sebbene non letto. Quel fischio di un autore che darà vita a personaggi che molto ricorderanno il flaneur Oliveira, quell’autore a cui gli scrittori argentini del Novecento dovranno, davvero, molto.

Ma chi era Eugenio Cambaceres? Era il figlio di un chimico francese che si era stabilito in Argentina nel 1829. Nacque a Buenos Aires nel 1843. Fu uomo politico, deputato, segretario e vicepresidente del Club del Progreso. Nel 1876 ebbe una relazione con la cantante lirica Emma Wizjiak, relazione che sfociò in uno scandalo. Viaggiò spesso in Francia dove ebbe un’altra relazione con un’altra cantante lirica, Luisa Bacichi, che sposò nel 1887 e da cui ebbe una figlia, Rufina. Morì di tisi a Buenos Aires nel 1888.

Eugenio Cambaceres appartiene a quella che venne chiamata la Generacìon del ochenta, la Generazione dell’ottanta”. Fu una generazione che visse con gli occhi rivolti alla città e al suo sviluppo proprio nel momento in cui Buenos Aires volgeva il suo sguardo all’Europa, alla Francia, In particolare a Parigi, come lo si può constatare dalle trasformazioni urbanistiche, di tipo hausmanniano, che che il sindaco del 1880, Torcuato de Alvear, volle fortemente con l’obiettivo di far diventare Buenos Aires la Parigi del sud. E non è un caso che molti degli uomini politici, degli scrittori, degli intellettuali di quella generazione viaggiassero verso Parigi in un vero e proprio viaggio di iniziazione. Lo fu anche per Cambaceres che venne considerato dal critico letterario Martin Gace Meon -anch’egli appartenente alla generazione dell’ottanta- come il fondatore del romanzo argentino contemporaneo.

In Italia Eugenio Cambaceres è un autore non tradotto e praticamente sconosciuto. Bisogna ringraziare la casa editrice di Cagliari Arkadia -una casa editrice che pubblica libri di grande spessore e non solo di area sarda- per averci fatto conoscere quello che da molti critici, come si è detto più sopra, è considerato il padre del romanzo moderno argentino. E ce lo ha fatto conoscere nel modo migliore possibile con l’ottima cura e l’ottima traduzione di Marino Magliani e Luigi Marfè. Marino Magliani e Luigi Marfè sono anche i curatori, sempre per Arkadia, della collana Xaimaca, una collana interamente dedicata ad autori latinoamericani e che ci riserverà, certamente, altre piacevoli sorprese letterarie di quell’ambito geografico.

“Sin Rumbo”, senza rotta, è un libro da leggere e sul quale meditare.

In breve la trama: Andrés è un uomo molto ricco, possidente terriero e che non dovrebbe avere affanni di sorta. In realtà è abitato dalla noia, da uno spleen baudelairiano che cerca di vincere, dapprima, avendo una relazione con Donata, la figlia di un suo bracciante e che metterà incinta, poi, anche per sfuggire alla sua responsabilità, andandosene a Buenos Aires. Là avrà una relazione con la cantante lirica Amorini (in cui è adombrata la figura di Emma Wizjiak). Ma, ben presto, la passione si trasformerà in noia mortale. Andrés non troverà altra soluzione che quella di tornare nella pampa, nei suoi possedimenti, dove potrà conoscere la figlia Andrea, nata nel frattempo. Cosa altro troverà lascio al lettore scoprirlo.

Cambaceres è stato considerato un seguace del naturalismo di Zola. Di sicuro è così. Ma in “Sin Rumbo” c’è un netto superamento di questa influenza. Vedremo più avanti perché.

Andrés è un uomo senza destino e senza destinazione. Qui è d’obbligo citare il grande filosofo ebreo francese di origini russe Vladimir Jankélévitch. Nel suo libro “L’avventura, la noia, la serietà” (Einaudi. 2018), Jankélévitch distingue con chiarezza destino e destinazione:

“Ciò che viene disposto per l’uomo da parte delle fatalità economiche e sociali, fisiologiche e biologiche, le fatalità materiali, insomma, l’ereditarietà, la stessa infermità, nascere poveri, essere handicappati a causa di una grave malattia, eccetera: ecco cosa fa parte del mio destino… intorno a questo destino, c’è qualcosa di evanescente e maggiormente fluido che lo circonda come un’aura o un alone luminoso a cui diamo il nome femminile di destinazione. La stessa libertà in virtù della quale si modifica la propria sorte è un ingrediente di tale atmosferica destinazione. La destinazione conferisce un significato alle bizzarrie arbitrarie, assurde o sconnesse, che sono invece respinte dal destino” (Pag.25).

Anche se Andrés è un uomo ricco e sembra che questo sia il suo destino, in realtà non ha nulla e se avesse un destino gli volterebbe le spalle, magari deridendolo. Ancora meno ha una destinazione. È un uomo senza rotta, che vaga, che sembra girare a vuoto anche nel momento in cui pare che stia prendendo delle decisioni. È come se le avventure che ha attraversato e sta attraversando non avessero lasciato un segno, neppure una cicatrice che diventi memoria. Tutta passa e se ne va come l’acqua che scorre..Ci sono pagine belle e drammatiche in cui è descritta la sua flanerie per Buenos Aires. È una flanerie molto diversa da quella tratteggiata da Franz Hessel nel suo “L’arte di andare a passeggio” (Elliot. 2011) tra le vie di Parigi. O da quella di Baudelaire. O ancora da quella studiata da Walter Benjamin e che aveva come luoghi privilegiati di analisi Parigi e Berlino.

Quello di Andrés non è un andare a zonzo per la città dove si scoprono casualmente angoli di strade di cui mai ci si era accorti prima, scorci che ci lasciano sorpresi e dove la flanerie implica un sottile piacere. La flanerie di Andrés è una flanerie disperata in cui il tempo è un tempo vuoto e omogeneo, in cui il tempo diventa il tempo della noia, quel tempo così magistralmente descritto da Jankélévitch sempre in “L’avventura, la noia, la serietà” dove tutti i possibili ci sfilano davanti senza che ne scegliamo uno e vanno ad affollare un passato sterile, che non provoca alcun languore a ricordarlo. Per dirla con Jankélévitch la noia

“non è la miseria di una coscienza sottoalimentata, ma al contrario è l’inedia della sazietà” (Pag. 78. Il corsivo è mio).

Andrés cita il suo filosofo preferito, Schopenhauer, a proposito del tempo:

“‘Ci accorgiamo del tempo solo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. Entrambe le cose dimostrano che la nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo: ne segue che sarebbe meglio non averla’” (pag.13).

In realtà in Andrés non c’è quel tempo che i greci chiamavano Kairòs, quel tempo dell’istante in cui si decide, in cui si può decidere il senso della vita. E, sempre seguendo Jankélévitch, se noi siamo tempo incarnato, se la nostra patria è il tempo, allora Andrés è un senza patria, uno sradicato, un fuggiasco dalla vita. In questo senso Andrés ci ricorda tanti personaggi di Onetti, tanti di Arlt che vagano senza meta per una Buenos Aires stravolta e iperrealista.

Anche la nostalgia per la pampa che prende Andrés dopo il girovagare disperato per Buenos Aires non è quella nostalgia che, nel presente, può essere un ponte tra il passato e il futuro. È come se quella nostalgia fosse qualcosa di estemporaneo che non si radica dentro all’anima. Il desiderio del ritorno alla pampa e alla sua hacienda è un disperato bisogno di fuga, non è l’approdo di Ulisse ad Itaca. Il suo sarà un approdo molto diverso. Solo nel momento dell’incontro con la figlia Andrea (che ci ricorda aspetti autobiografici, in particolare il rapporto di Cambaceres con la figlia Rufina) parrà risollevarsi ed assumersi la responsabilità di una esistenza. Ma sarà un’assunzione goffa, incerta, che ripeterà il modo in cui la propria madre aveva avuto di prendersi cura di lui quando era bambino in una specie di trasmissione intergenerazionale. Forse l’unico destino possibile sarà questa trasmissione, tanto studiata dagli psicoanalisti, una trasmissione che agisce nell’inconscio di Andrés.

Anche dal punto di vista formale “Sin Rumbo” è un romanzo moderno, ormai proiettato snella letteratura del Novecento. Alla narrazione del narratore onnisciente, di stampo prettamente ottocentesco, si alterna il discorso libero indiretto, il flusso di coscienza, l’onirismo (unico esempio della letteratura argentina dell’epoca) come accade alla fine del capitolo XXVIII:

“E tutto, tutto era menzogna. Non aveva un figlio, non esisteva nessun mostro; il nano, il maiale, il rospo erano chimere, vani deliri della sua mente in momenti di incubo. E sognando alla fine di essere un sogno, smise di sognare e si ritrovò in viaggio, con destinazione l’Europa, a bordo di un vapore, steso tranquillamente nella sua cabina. D’improvviso, pensò che la nave si stesse rovesciando. Di soprassalto si sedette e aprì gli occhi…

La carrozza si era incagliata, immersa fino ai mozzi delle ruote in un vecchio fosso” (Pag. 90-1).

Esiste, poi, uno scarto incolmabile tra il narratore e il protagonista. Anche per tutto questo il “Sin Rumbo” di Cambaceres supera il naturalismo di Zola, ma anche il decadentismo dello Huysmans di “A’ Rebour” e di “A’ vau-l’eau” a cui, spesso, il romanzo di Cambaceres è stato spesso paragonato.

Le descrizioni dei paesaggi sono magistrali come lo è il ritmo che le sostiene. Un esempio:

“Era calata la notte, tiepida, trasparente.

Una nebbia spessa iniziava a salire dalla terra.

Il cielo illuminato di stelle era il lenzuolo di una immensa cascata che si rovesciava a terra e, nel cadere, alzava gli schizzi d’acqua che si frangeva nello schianto” (Pag.13).

Con una conclusione del periodo che ha forte sapore surrealista.

Altre descrizioni fanno venire in mente un montaggio cinematografico dove il quadro, poco a poco, si anima, dove l’aggettivazione è efficace e evocativa e dove acquista una grande importanza la punteggiatura, l’uso sapiente della virgola, del punto e virgola e dell’a capo. Eccone un esempio:

“Nelle osterie, gli ubriachi bruciavano una infinità di fuochi artificiali.

I ragazzi, in cerchio, tenendosi per mano, saltavano gridando.

I cavalli, attaccati agli steccati dei marciapiedi, stanchi, riposavano, liberi dalle capezze e dalle redini.

Di tanto in tanto, un carretto passava sferragliando rumoroso, circondato da nuvole di polvere.

Sul sagrato si riunivano gli uomini. Il giudice di pace, il comandante, il medico, il farmacista, il commissario di polizia, il maestro di scuola, i negozianti, gli impiegati comunali o i personaggi influenti, gli assi del paese stavano tutti in gruppo.

Un poco più in là, con i piedi più in basso, i dipendenti, intorno al telegrafista.

Sul ciglio della strada le ultime carte del mazzo: i mantelli e le camicie formavano un gruppo a parte.

Le donne, gonfie e tronfie, entravano due o tre alla volta” (Pag.23).

A proposito dei ritmi della narrazione. occorre ripeterlo: se noi possiamo gustarli anche in lingua italiana lo dobbiamo all’ottima traduzione di Marino Magliani e di Luigi Marfè.

Non c’è rotta, non c’è destino, non c’è destinazione, non ci sono teologia o teleologia in questo romanzo.

Andrés precorre l’uomo del primo Novecento. Non è solo un uomo decadente, ma anche un uomo senza qualità, ma ben più intriso di nichilismo dell’Ulrich di Musil che è salvato dall’ironia. È anche l’uomo che, non molto tempo dopo, sarà trasformato in scarafaggio. È l’uomo che soccombe alle pulsioni dell’inconscio. Gli faranno compagnia tanti altri personaggi che hanno perduto la rotta e il senso delle loro esistenze e che non sapranno da che parte dirigere le loro vele.

Andrea Cabassi



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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