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Cosimo Armagnati, è un pittore – copista, che intende la sua attività come attività creativa: in ogni opera che riproduce inserisce qualcosa di suo, secondo un indirizzo di pensiero per cui l’individualità creatrice non può annullarsi totalmente in quella di un altro artista. E’ per altro verso fedele alla lezione di alcuni maestri, tra loro distanti per epoca e produzione artistica, ma assai utili allo suo mestiere, come Cennino Cennini e Federico Joni: tende a ripercorrere, tramite minuziosi e faticosi studi, il processo creativo dell’autore con cui si confronta riesumandone le tecniche pittoriche, anche se desuete. Per il suo nuovo lavoro, Cosimo accetta di riprodurre un ritratto di donna conservato nella Galleria di Palermo. Giunge sul posto, per studiare da vicino l’opera da riprodurre. Per una singolare coincidenza, la conosce già da molto tempo, da suoi primi studi in storia dell’arte: fin da allora, è stata per lui la rappresentazione pittorica di ogni pensiero amoroso: una stilnovistica figura di donna che rappresenta la sublimazione dell’amore, un’assoluta astrazione, quell’”amore invertebrato”, che da tanto tempo frequenta i suoi pensieri, causando inibizioni, tenerezze e speranze. Questo lo spunto iniziale di Lo specchio armeno (Arkadia, 2023), di Paolo Codazzi, opera che sfugge a catalogazioni sintetiche, e che l’autore in Letteratitudine definisce “romanzo sull’amore (una delle miriadi di interpretazioni), sui cambiamenti climatici e la fragilità delle previsioni (un’opinione tra le tante), sull’inquisizione spagnola in Sicilia (particolarmente a Palermo), sulla stregoneria (senza alcun condizionamento a stereotipi consolidati), e molto altro come si conviene ad una storia (una mia storia) che inizia nel 15° secolo e si conclude (per modo di dire) ai nostri giorni”. Per amalgamare una storia dalle sfaccettature così eterogenee, Codazzi si affida ad una prosa sontuosa, di inusitata eleganza formale, in cui ogni proposizione si regge su ampie arcate di strutture ipotattiche: una scrittura di forte suggestione, orgogliosamente non contemporanea, di possibili ascendenze gaddiane. Il passo lungo scelto dall’autore si sposa senza fatica con la preziosa opera di bulino sul lessico. La si avverte specialmente nella definizione della profondità dello scavo psicologico dentro di sé a cui è destinato Cosimo, rappresentato anche tramite certa ansia nominalistica che lo pervade: come se individuare, precisandole, le cose che vede nei pochi giorni che la narrazione percorre gli servisse per non smarrirsi, per continuare a rimanere se stesso. Si affollano intorno alla tela da riprodurre diversi destini, anche distanti tra loro nel tempo, quasi che la forza delle emozioni che il quadro suscita abiti un ininterrotto presente: una congiuntura spazio temporale unica li fa convergere e vivere, nel senso più pregnante del termine, nella breve permanenza di Armagnati a Palermo. Da un remoto passato ritornano, singolarmente presenti, le vicende di Cosimo Armagnati, omonimo del pittore e illustre teologo vissuto in epoca rinascimentale, e del figlio Grumello Del Monte, autore dell’originale del ritratto della aristocratica palermitana Beatrice Gurrieri. Il ritratto voleva essere un omaggio del fidanzato, commissionato in occasione dell’imminente matrimonio, ma favorì invece una imprevista e subitanea passione amorosa tra il pittore e la ragazza. I piani temporali della vicenda tendono a sovrapporsi, creando intrecci e rimandi sottolineati da una non casuale sequenza di omonimie, utili per amplificare echi di sensazioni provenienti da un passato remoto, ma ancora misteriosamente operanti nel presente. D’altro lato, ampi stralci di due saggi intercalati nella narrazione principale legano insieme vicende e credenze remote, sollevando veli anche su un presente difficile da decifrare: un cinquecentesco trattato di botanica, la cui seconda parte consiste in minuziose istruzioni di pratiche magiche, e il ben più recente studio sull’Inquisizione siciliana del Vella, attuale sovrintendente della galleria in cui è conservato il ritratto da riprodurre, nonché discendente del fidanzato di Beatrice. Cosimo spinge al limite estremo le sue teorie di immedesimazione nell’opera di un altro, che caratterizza il suo approccio all’attività di riproduzione dei dipinti. Ma qui non si tratta di riuso di tecniche pittoriche cinquecentesche. Qui, di fronte al ritratto di donna ideale, rappresentazione iconica dell’amore sublime, l’immedesimazione è emotiva nel modo più radicale possibile. E il turbamento amoroso non ha limiti temporali, può esprimersi identico a se stesso a distanza di secoli, come lascito ad eredi che verranno chissà quando ma che lo riconosceranno perché misteriosamente dotati della medesima esasperata sensibilità. Si apre un ponte temporale che attraversa i secoli, e ciò che è impossibile alla materia avviene, almeno per una notte. Poi, una ritrovata consapevolezza restituirà il brulichio delle emozioni alla verità della sostanza imperfetta dei sentimenti, inducendo Cosimo all’accettazione, per nulla rassegnata, ma piuttosto rasserenata della propria condizione esistenziale: “Ora egli sapeva che Beatrice era stata la sua idea dell’amore, e l’eclisse della sua comparsa e sparizione in quel drammatico modo forse era perché anche per lei, soprattutto per lei, quella esercitazione del cuore, cominciata qualche secolo prima, aveva superato i limiti concessi a un’avventura dei sentimenti, dello spirito, e non era bene esaurirla, completarla, dovendo essa rimanere nell’ambito delle cose che non accadono e che perciò hanno l’assoluta perfezione che le cose accadute non possono avere.”
Luigi Preziosi
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Da leggere perché… Ciò che più colpisce, oggi, è la standardizzazione del linguaggio della narrativa: si apre un libro, si comincia a leggere un romanzo, un racconto, e ciò che risalta subito è la sua somiglianza con tanti altri, pubblicati giorno dopo giorno e pubblicizzati a spron battuto, quanto allo stile e alla lingua. Rischiano così di passare sotto silenzio o di avere poco riscontro libri notevoli come quelli dell’autore fiorentino, il cui stile è una sorta di grande “macchina” sintattica nel periodare ampio e magistralmente ipotattico Ciò che più colpisce, oggi, è la standardizzazione del linguaggio della narrativa: si apre un libro, si comincia a leggere un romanzo, un racconto, e ciò che risalta subito è la sua somiglianza con tanti altri, pubblicati giorno dopo giorno e pubblicizzati a spron battuto, quanto allo stile e alla lingua. Qualche trovata, ma perlopiù stile anonimo, lingua piatta, appunto perché si idolatra l’adesione al vero dell’uso anche più rozzo e volgare. La scrittura letteraria non andrebbe però ridotta alla fotocopia dell’uso pur tenendolo, ovviamente, quale punto di riferimento: lo mostrava già Alessandro Manzoni, ponendosi il problema della lingua per quel grande romanzo moderno, nuovo, che risultarono poi I promessi sposi. Lo stile, infatti, è una continua mediazione fra più piani linguistici e formali, e fra presente e passato, fra opzioni espressive e urgenza delle cose da dire. Il tutto all’insegna di una responsabilità a cui lo scrittore degno del nome non può sottrarsi: quella di dover riscattare la banalità dell’uso della parola, di rilanciarne quella potenza di significazione che si smarrisce quotidianamente nella deprivazione della chiacchiera, come non si stancava di ribadire Giuseppe Pontiggia. Fatto sta che rischiano di passare sotto silenzio o di avere poco riscontro libri notevoli come quelli di uno dei più solidi e riconoscibili scrittori italiani odierni, ossia il fiorentino Paolo Codazzi, il cui stile è una sorta di grande “macchina” sintattica nel periodare ampio e magistralmente ipotattico. Di questo autore, fondatore nel 1983, con Franco Manescalchi, della rivista fiorentina «Stazione di Posta» e ideatore e presidente del Premio Letterario Chianti, segnaliamo in particolare Lo storiografo dei disguidi (Cagliari, Arkadia, 2021) e Lo specchio armeno (ivi, 2023). Il primo è un volume di racconti, alcuni di singolare costruzione (come Lorenzo), altri di una satira feroce o di crudo umorismo (L’odore del potere; E improvvisamente volò il giornale), tutti di originale svolgimento, nel trattare vicende varie del quotidiano e quei tanti “disguidi” piccoli e grandi, quei paradossi del caso che ne capovolgono talora il corso. Il secondo è un romanzo costruito in modo sapiente nel tessuto dei riflessi di esistenze ed eventi del presente e vite e fatti del passato, che si intrecciano fra divagazioni, dati storici e d’invenzione. Continue trasparenze che hanno per protagonista un pittore incaricato di copiare un ritratto di donna conservato a Palermo. Il caso vuole che esso rappresenti la sua donna ideale, quella mai trovata eccezion fatta per Laura, morta però un mese prima delle nozze. Ne scaturisce allora “il quadro” narrativo di una ossessione amorosa tanto colma di illusioni quanto lo sono quella della razionalità delle cose e quella del tempo, nel continuo incontro fra dimensioni della realtà e mondi fantastici.
Daniela Marcheschi
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In un’epoca remota e circonfusa di leggenda, il XIII secolo siciliano, gli specchi erano così rari che a Palermo alcuni uomini di cultura araba con il senso degli affari avevano preso a collocarne agli angoli delle strade, in modo che i passanti più vanitosi, dietro un piccolo compenso, potessero controllare l’acconciatura o lo stato dei vestiti. Uno di questi specchi non era di metallo, ma di finissima tela di papiro armeno; si riteneva inoltre che potesse catturare l’immagine riflessa, come una fotografia avanti lettera, a patto che i soggetti che si specchiavano fossero innamorati. È da qui che prende avvio Lo specchio armeno (Arkadia, pagg. 188, euro 16) di Paolo Codazzi, scrittore che per tenuta, statura intellettuale e ambizione linguistica merita di essere annoverato fra i nostri migliori narratori. Al centro del romanzo, che viaggia fra il Medioevo siciliano, il Rinascimento e il presente, è un pittore-copista fiorentino sentimentalmente bloccato, Cosimo Armagnati. A torto lo si definirebbe un falsario, visto che replica quadri con libertà, attingendo all’essenza dell’opera più che alla sua forma esteriore. Quando però un committente gli chiede di duplicare un ritratto femminile custodito in una celebre pinacoteca palermitana, lo stesso che il protagonista aveva visto da bambino su un sussidiario, l’essenza si rivela ingestibile: con il passare degli anni, la donna del dipinto si era trasformata in un archetipo irraggiungibile, condannando Cosimo a un rigido celibato sentimentale. Il «miracolo» di una sua riapparizione al di là dei secoli si verifica nell’aeroporto di Punta Raisi, miracolo moltiplicato in nuove metamorfosi quando il romanzo si sposta in un Quattrocento dominato dalla caccia alle streghe e l’Inquisizione spagnola, istituzione repressiva che per un breve periodo fu imposta anche ai siciliani. La trama, mirabilmente intrecciata, comprende la lettura notarile del lascito testamentario di un ricco magistrato, la scomparsa dalla sua libreria di un volume olandese che anticipa di tre secoli le illuminate proposte di Cesare Beccaria, la vita more uxorio di un alto prelato con una strega… Altrettante linea di fuga per il piacere del lettore; Codazzi scrive (e pensa) talmente bene che può permettersi tutto il «romanzesco» che vuole.
Fabrizio Ottaviani
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L’amore come «estrema forma di felicità» e, in quanto tale, leopardianamente irraggiungibile, illusoria gioia fugace, «festa serena» destinata a trasformarsi in dovere (come insegna Gončarov). Il dramma dell’«idea dell’amore» che si proietta con la sua debordante potenza astratta in inesistenti orizzonti esistenziali privi di limiti, vivace riflesso di uno specchio leggendario, di tela armena, che «duplica e fissa i volti di soggetti innamorati», grazie a uno spirito benigno che vi dimora. Ma lo spirito non è nient’altro che la potenzialità dell’immaginazione unita all’imprevedibilità della vita, due enigmi sfuggenti che talora convergono verso l’estremo sconforto di un innamoramento che travalica i limiti spazio-temporali pur rimanendo intangibile. Tuttavia, fossilizzarsi sui propri fantasmi, sulla costanza di una convinzione aleatoria, blocca la vita, isterilisce le possibilità di godere del piacere della condivisione, delimita in un sogno torbido – nel quale il tempo e l’intensità si confondono – l’appagamento di un amore circoscritto ma concreto. Ecco il possibile assunto dello Specchio armeno di Paolo Codazzi, romanzo caleidoscopico in cui s’intrecciano, con la solita eleganza barocca dell’autore, storia e mito; in cui si saldano realtà storiche, coincidenze e memorie oniriche; in cui le omonimie, le simmetrie e le dislocazioni sapientemente avventate diventano i segnali di una ripetizione perversa ma gratificante. «Il tempo cronologico non è nella nostra mente, ma solo nell’orologio che portiamo al polso» afferma un personaggio del Pittore di ex voto, altro romanzo notevole di Codazzi (Pironti, 2017). E il tempo mentale del protagonista dello Specchio Armeno, il pittore-copista Cosimo Armagnati, oscilla tra il passato e il presente, recupera le atrocità di epoche remote – gli abusi della Santa Inquisizione, i supplizi delle donne ritenute streghe – e le fa sue con distacco, perché in tali atrocità rintraccia il dolore della non coincidenza, dell’inutilità dell’«esercitazione del cuore».
Paolo Marati
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di Paolo Codazzi
Ciò che accade prima non è necessariamente l’inizio.
Henning Mankell
Mi sono limitato come sempre a seguire il mirabile consiglio che il Re di Cuori dà ad Alice:“Comincia dal principio e prosegui finché non arriverai alla fine, poi fermati”.
Lewis Carroll
Inerpicandosi per la ripida scalinata, ingobbita dalle radici di un pigro nespolo isolato poco distante nel prato digradante il terrapieno che la sorregge sui lati, rampante all’oratorio edificato sotterrando una precedente chiesetta normanna, costruita sulle fondamenta di un tempio pagano adattato a cappella bizantina e il cui snello campanile fu aggiunto dagli arabi come minareto, quasi ascendendo nell’azzurro corrugato di nuvolaglie venose intrecciate con le scie dei numerosi aeroplani che come avvoltoi si avvicinano in lente spire attorno alle spoglie montagne modellanti una spontanea cavea all’orchestra del luminoso e seducente golfo, si voltano le spalle al mare, contenuto dalla balaustra in tufo fiancheggiante, a ridosso della scogliera, il tratto rettilineo del lungomare di quella città mediterranea nella quale molte etnie hanno ottenuto ristoro, qualunque sentimento avesse mosso il loro a volte brutale approdo.
Sui martoriati scogli si accanivano le onde di un mare assai agitato, sciabordando violenti scrosci fin oltre la carreggiata dove la graffiante e vaporizzata sonorità del transito delle auto si solveva nel salso pulviscolo sospeso per alcuni attimi insieme agli svolazzanti gabbiani, per poi ricadere rinfrescando i passanti dalla sciroccosa umidità per altri versi stimolante acute sensazioni assai diffuse in tutta la regione che, a detta di molti luoghi comuni, pare incoraggino e assecondino smanie sensuali.
In quella città, passiva precorritrice dell’integrazione razziale, devota alle fedi appese alle punte di lancia – si legge nella prefazione storica di una vetusta guida dell’isola acquistata da Cosimo prima di intraprendere il viaggio – un cronista del secolo diciassettesimo garantisce l’esposizione per alcuni giorni della mitica Pietra dell’unzione, di marmo rossastro maculato di bianco, in origine nella basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, poi portata a Costantinopoli nel dodicesimo secolo e da qui forse trafugata dai crociati nel sacco del 1204, e duplicata subito in molte imitazioni, come tibie e femori reliquiari, alcune delle quali, sempre si dice, per contraddittoria devozione, qualificano il mercato antiquario della regione frantumate in pezzi, così come i barbari spezzavano l’argenteria romana dando valore soltanto al peso del metallo e non alle forme in esso vitalizzate. Su quella sacra pietra le saghe tramandano che prima di essere sminuzzata, sconsacrandola definitivamente, da una setta integralista di cristiani del quattordicesimo secolo, giunti sull’isola dal monastero egiziano di Santa Caterina del Sinai per diffondere l’ascetismo e le regole di vita del monaco Evagrio, siano state torturate e seviziate delle donne accusate di sortilegio malefico a seguito di ricorrenti e contagiose epidemie di peste bubbonica cui quella città, aperta ai marinai di tutto il continente, era particolarmente esposta. E a niente valsero le ricorrenti normative degli organi di potere riguardo le quarantene imposte alle navi prima di accedere nel porto tra i più frequentati del Mediterraneo. Queste cicliche pestilenze, prima che venissero intuite le vere cause, sparsero nell’isola un clima di superstizione o di ambigua interpretazione del senso della fede, scatenando nel corso dei secoli pubbliche e private crudeli persecuzioni ai danni di guaritrici o donne di fora come erano appellate, delle quali le ricostruzioni storiche riportano ben pochi elementi ma di cui le sagre locali sono ricche di particolari. Si sostiene anche, secondo indicazioni di affermate leggende popolari, che nella quadreria di un’anonima famiglia nobiliare, locata in uno dei palazzi storici della città, sia conservato uno specchio di tela armena ricavata da una sofisticata lavorazione del papiro, la cui cornice era parte integrante di uno dei numerosi specchi che in precedenza, negli anni tra la fine del dodicesimo secolo e gli inizi del tredicesimo, erano esposti da uomini, generalmente di cultura araba, collocati agli angoli delle strade di Palermo, che offrivano ai passanti l’opportunità di potersi acconciare o sistemare la pettinatura dietro libero pagamento di un’offerta. In particolare, lo specchio di un tale Assad Ibn Al-Hourani, di probabile origine armena o mesopotamica – riporta la guida nella sezione sagre e leggende –, considerato una sorta di patriarca di questi ambulanti, pare possedesse prodigiose proprietà per effetto della lieve convessità della superficie e della composizione fisica nella quale la parte generalmente occupata dal cristallo o dal metallo specchiante era invece intessuta da una raffinata tela ricavata dal raro papiro armeno, Cyperus papyrus, la stessa specie di cui i magrebini Aghlabiti di Tunisia impiantarono alcune piantagioni nell’isola fin dalla conquista avvenuta nel nono secolo subentrando ai Bizantini e che, forse, tramandano sempre i miti popolari, questo specchio potesse, in certe coincidenze, duplicare e fissare sulla tela, come una moderna lastra fotografica, le immagini che gli si offrivano con la sola condizione che i volti riflessi appartenessero a soggetti innamorati, secondo concetti di amore cortese prevalenti nella cultura araba oramai saldamente sedimentata nell’isola, nonostante il potere politico fosse da qualche anno in mano alle dinastie normanne. Questo specchio di tela, al cui interno si narra oziasse uno spirito benigno, fuddittu o mazzamareddu negli idiomi isolani, pronto a destarsi per soccorrere l’amore di turno, per quanto successivamente ricercato non era mai stato trovato e talune versioni popolari, raccolte da vari testi sulle tradizioni locali, garantivano che nel quindicesimo secolo, in un periodo increspato dal disagio delle popolazioni per l’avvento in Sicilia della Suprema Santa Inquisizione spagnola, su di esso fosse stato dipinto, da un giovane pittore del nord, il ritratto di una coetanea nobile siciliana e che fra i due fosse sbocciato un imprudente amore, malgrado il ritratto rappresentasse impegno sentimentale, commissionato dal fidanzato della ragazza, anch’egli di blasonati ascendenti, nell’imminenza del loro matrimonio secondo usanze assai diffuse in Sicilia probabilmente risalenti alla dominazione bizantina.
Questo testo è l’incipit del romanzo di Paolo Codazzi “Lo specchio armeno“, pubblicato recentemente (2023) da Arkadia
Giacomo Sartori
Il link all’incipit su Nazione Indiana: https://bitly.ws/3bIqk
Della natura di quella forma-romanzo che, da quattro secoli e mezzo, ostinata si avvita nel nostro immaginario, invadendolo con scenari e figure più vere del vero, Lo specchio armeno di Paolo Codazzi eredita la duttilità delle strutture, sempre pronte a modellarsi su filigrane della tradizione e, insieme, ad adattarsi a modi nuovi dell’immaginario e della civiltà che lo contiene. In questo senso, il romanzo moderno non solo fa dell’assenza di una severa codificazione antica il suo punto di forza, volgendolo in piglio metamorfico, ossia ponendo lo scrittore nella condizione di inventare le leggi artistiche di questa forma direttamente nella praxis, nel fare l’opera, modellando, col suo stile e con la sua visione, lo spaccato di realtà da trasformare in narrazione; ma dilatandola a dismisura rispetto agli altri “generi” che, nel mentre, come gusci vuoti, si avviano a tramontare o a entrare in lunghe zone di crisi. La vitalità che rende immortale il romanzo moderno è tutta racchiusa in questo cannibalismo senza requie che porta nel tessuto connettivo della narrazione ora la poesia, ora la filosofia, ora l’antropologia; ora la tirata di costume, l’affondo psicologico, le fonti visive, lo spaccato analitico di storia e rende godibili perfino registri di segno opposto, che d’acchito sembrano inadatti ad attagliarsi al magma affabulatorio del romanzo, come nel caso di una ricognizione meteorologica, di una ricetta di cucina, di un labirinto topografico, di un volo erudito. Lo specchio armeno appartiene a quella genia di romanzi-saggi nei quali plurimi livelli si intrecciano senza sosta e trasformano il meccanismo del plot in un sistema di incastri combacianti al limite del virtuosismo. Un ingranaggio che non lavora solo a cucire episodi, simmetrie temporali, sistema di personaggi, colpi di scena e spazi; ma agisce per costruire una ragnatela di sotto-testi in perpetuo dialogo. In questo senso, nel telaio del suo romanzo Codazzi fa rifluire pagine saggistiche di storia dell’Inquisizione e bozzetti paesistici pervasi di lirismo; antichi erbari che nascondono libri di stregoneria e trepidi slarghi paesistici e urbani di moderne metropoli; nel giro serrato di una sequenza, rovescia, flaubertianamente, il pathos di un funerale nella leggera frivolezza di un matrimonio; oppure fa cozzare il dinamismo introspettivo di una lettera con l’ossessione sacra, al limite del purismo, di un pittore copista per le tecniche e i ricettari antichi. Possiamo passare dalla ricognizione dell’amore che sembra prossimo a scivolare nel nobile codice stilnovista alle “stime metereologiche” viste nell’imbuto del passato storico. Questo fermento policentrico sommuove una materia stratificata, che, in mani meno esperte, sarebbe scaduta nel guazzabuglio dissonante di un patinato tentativo post-modernista; mentre sullo scrittorio di Codazzi la varietà pirotecnica ed esuberante della materia in gioco è tenuta in piedi dalla coerenza e unità dello stile. Ricordo che, all’università, ottimi maestri ci insegnarono che un’opera d’inchiostro, prima di tutto, doveva essere valutata, e, quindi, reggere sul piano del “grado di letterarietà” e del “tasso di figuralità” – due espressioni del lessico critico che ho sempre trovato molto limpide e pregnanti, entrambe perifrasi per dire se l’opera che abbiamo sotto gli occhi funziona a livello espressivo, oppure no. Dall’incipit – la cui principale sintatticamente è incastonata nel mezzo di una raggera d’una quindicina di subordinate, a dirci subito la tenuta per via “di mettere” di questa prosa dal passo lungo (lontana dal prosciugamento per via“di levare” di tanti dettati contemporanei) – Lo specchio armeno si impone come un testo dove ogni costrutto esce da un sontuoso lavorio di cesello, sia a livello di impalcatura sintattica, lavorata per espansione; sia a livello di tavolozza lessicale, come se gli oggetti della rappresentazione dovessero essere nominati fino in fondo con un’esattezza che sfiora un monocolo poroso e lenticolare, tra fiammingo e iperrealista. L’aria di famiglia stilistica è così, da subito, disvelata come un marchio di appartenenza: una sorta di ideale linea genetica che sposa l’alto nitore artigiano proprio di una scrittura “di cesello” al guizzo inventivo e spiazzante – una vena bifronte che viene dalla lezione secentesca di Daniello Bartoli, superbo prosatore, interseca i narratori dal passo lungo, tra Cicerone, Boccaccio e Proust; sfiora Carlo Dossi, riattiva il calibrato “misto di storia e d’invenzione” manzoniano, e rivela la consanguineità con alcuni modelli novecenteschi, come Gadda e Consolo, o contemporanei come Michele Mari, e, per la presenza di opere visive evocate “per verba”, c’è un sotteso e irrinunciabile timbro longhiano rivolto alla tradizione degli scrittori d’arte. Perché la pittura? Perché al centro della trama, incuneata in una matrioska di incastri temporali antichi e moderni, svolta in un costante registro ibrido tra narrazione e saggistica, si muove Cosimo Armagnati, pittore copista, la cui bravura camaleontica viene dalla lezione di maestri come Cennino Cennino e Federico Joni, convinto come questi ventriloqui di maniere che non ci possa essere scomposizione a ritroso del processo creativo del maestro senza fedeltà del medium, senza tecniche che mantengano, nella loro tenuta, una vocazione inattuale. A Cosimo arriva tra le mani una committenza che, nel corso del romanzo, si scoprirà epifanica, tanto da gettarlo in un suadente impulso pigmalionico sospeso tra realtà e finzione, come per il Frenhofer del Capolavoro sconosciuto di Balzac. È questa una delle nervature più robuste de Lo specchio armeno: attraverso Cosimo Armagnati e l’eccezionalità della sua committenza, Codazzi resuscita il mito di Pigmalione e Galatea, volgendo però lo struggimento romantico per la creazione che diventa vita nel suo opposto stregonesco e nefasto. Attorno a Cosimo, in una geografia spalancata tra Firenze e Palermo, si dipanano personaggi come il sovrintendente Ferdinando Vella, sorta di erudito Bouvard, dal naso bitorzoluto, quasi stigma di una maledizione genetica, e con il pallino del dongiovannismo; fino a figure di sfondo, ma abilmente tratteggiate, come Michele Bellomo; mentre la costellazione dei personaggi muliebri si tiene divaricata tra una polarità di seduzione e malia, con la materializzazione di Beatrice, e, all’opposto, uno spazio di riscatto e salvezza con Laura che apre e chiude il romanzo, divenendo, nei lunghi tormenti di Cosimo, entità prismatica e talismano pacificatore. Nel suo processo di scrittura, Codazzi lavora su grandi campiture, delineando fondali storici, epoche, riti, culti, e, poi, d’improvviso, si china, con lente e bulino, e lavora la materia come una maestro orafo o un calligrafo miniaturista. Per questo Lo specchio armeno è un romanzo che si legge come un saggio ed è un saggio che si legge come un romanzo, senza mai perdere la qualità di visione che sorregge entrambi i linguaggi: quell’esattezza di nominazione che è la cifra di Codazzi, come se ogni parola scelta, ogni frase, ogni espansione lessicale ci facesse entrare nella più intima fibra delle cose. O meglio, come se la parola scritta inseguisse il desiderio di diventare la cosa di cui parla. Non è forse questo anche il desiderio struggente che lavora in ogni pittore copista: pantografare, il più mimeticamente possibile, l’opera del maestro? E non lavora così lo scrittore di romanzi, accordando il suo stile e la sua lingua alla complessità del reale e della natura umana?
Davide Pugnana
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