Per la collana Xaimaca una delle opere più significative di César Vallejo ancora sconosciuta in Italia, nella traduzione di Luigi Marfè
Per la collana Xaimaca una delle opere più significative di César Vallejo ancora sconosciuta in Italia, nella traduzione di Luigi Marfè
Enrique González Tuñón nacque nel 1901 a Buenos Aires, nel quartiere popolare di Once. Tra i protagonisti della scena letteraria bonaerense degli anni Venti e Trenta, Tuñón sperimentò diverse forme di scrittura. Come il suo amico Roberto Arlt, contribuì a rinnovare il giornalismo letterario dell’epoca, con uno stile sperimentale e inconfondibile, scrivendo su “Crítica” e collaborando con riviste come “Proa” e “Martín Fierro”. Fu uno degli esponenti della bohemia literaria di Buenos Aires, città che conosceva perfettamente e che attraversava ogni giorno per lavoro, ma soprattutto per il gusto del flanerismo, spesso in compagnia di suo fratello, lo scrittore e poeta Raúl González Tuñón. Scrisse testi per i tanghi di Carlos Gardel e sceneggiature per il cinema. La sua produzione narrativa annovera raccolte di racconti come El alma de las cosas inanimadas (1927), La rueda del molino mal pintado (1928) e Camas desde un peso (1932). Morì nel 1943, a Cosquín, nella provincia di Cordoba.
Il secondo volume della collana di scrittori ispano-americani Xaimaca è uno dei libri più riusciti di Enrique González Tuñón
SIN RUMBO
Andrés è un possidente, è giovane, ha tutto quello che potrebbe desiderare: agiatezza, denaro, donne, amicizie. La sua vita però è una melina tediosa e rabbiosa al contempo ‒ se i due aggettivi possono sposarsi insieme ‒ passata tra la estancia (le terre) nella quale lavora insieme ad un manipolo di peones ai suoi comandi, e Buenos Aires, dove vive una vita mondana tra teatri, bar, tavoli di baccarà e amanti occasionali d’alto bordo. Il ragazzo un animo inquieto, fumantino, non crede in Dio e ama Schopenhauer. Del filosofo polacco fa sua soprattutto la considerazione che “Ci accorgiamo del tempo quando ci annoiamo e non quando ci divertiamo. Entrambe le cose dimostrano che la nostra esistenza è tanto più felice quanto meno la sentiamo: ne segue che sarebbe meglio non averla”. Nutre un certo disprezzo per il genere umano ed una sostanziale noia derivata da una perenne, frustrante, insoddisfazione. Pensa continuamente al suicidio come unica forma di liberazione da quella vita priva di senso. Poco prima di trasferirsi alcuni mesi a Buenos Aires, Donata, la figlia mulatta di un servo, gli dice di aspettare un figlio e che il figlio è suo. Forse Donata è innamorata o forse disperata perché sa come vanno le cose tra padroni e servi. Soprattutto, sa come vanno le cose tra padroni e serve. Andrés è infastidito dalla notizia, teme che possa bloccarlo lì. Donata gli piace e sa bene quello che ha fatto con lei, quindi si rifugia in uno sterile e poco convinto “tornerò”. Intanto a Buenos Aires conosce la Amorini, una cantante lirica italiana bella e avvenente in cartellone al teatro Colón. Tra i due scoppia una passione focosa, ma dopo i primi mesi Andrés inizia ad essere insofferente al ruolo di “primodonno”, di amante ufficiale della Amorini. Comincia a trovare nella donna tutti i difetti possibili e lo stesso fa con se stesso – arrivato a trent’anni senza una direzione precisa – dopo aver ipotecato la estancia all’ennesimo tavolo di baccarà. All’improvviso, nel punto più basso della sua esistenza, si guarda intorno e vede solo fallimento, debiti, dissipazione. Niente che abbia messo radici. E poi, al centro di questa miseria, un pensiero fulminante che lo lascia senza fiato, lo turba e lo scuote, l’unica cosa che possa considerarsi, quella sì, una radice a cui aggrapparsi: quel figlio lasciato nel ventre di Donata e che nel frattempo dei suoi bagordi portegni sarà già nato. Un figlio suo e il pensiero di lui che è padre…
Eugenio Cambaceres è un narratore di una finezza estrema e di un pessimismo senza soluzione; una scoperta mozzafiato che dimostra le profondità abissali cui può spingersi la letteratura. Nella sua narrativa struggente non c’è conforto; si è impreparati di fronte all’assenza di una tregua, davanti al tedio che consuma i giorni, lo stillicidio di uno spreco che non centellina gli istanti. Sin rumbo è la sconvolgente storia che non ti aspetti, fatta di mille piccole luci di teatro, paesaggi rurali, pampa sconfinata e polverosa, di sregolatezza, di acuti lirici che lentamente si abbassano e si spengono, un elemento alla volta, per lasciare una scena nuda, quasi desertica. Una desolazione sconfinata in cui si muove senza meta un accidioso e iracondo campagnolo che cerca disperatamente guizzi di vita coi quali riempire vuoti cosmici. Sembra di annoiarsi insieme al protagonista, di trascinarsi, fino a quando la storia non esplode, letteralmente (e ‒ letteralmente ‒ su una parola ben precisa), e sprigiona tutta la sua crudezza e tutta la sua devastante, carnale poesia. Sin rumbo (titolo lasciato efficacemente in lingua originale dai traduttori) in italiano si tradurrebbe “senza rotta” o anche, in senso figurato, “senza condotta” e racchiude in sé il cuore di questo uomo ‒ Andrés ‒ che sta al mondo in modo disordinato, ondivago, confuso tra la consapevolezza travolgente del niente e l’ostinazione passeggera alla salvezza. Nella sua esistenza fatta di sperpero e donne, niente arriva per restare. Tutto passa. E tutto fa male. Tutto nell’anima è un trafficare di dolore al quale ci si può contrapporre soltanto murandosi dentro un nichilismo irriducibile, augurandosi una morte per quanto prematura, occasionale, procurata. C’è solo una cosa che può aprire una breccia in questa esistenza e quando arriva richiede l’urgenza liberatoria di un cambiamento: è lo scoprirsi padre, un moto che lo riconduce ad una responsabilità, ad avere un ruolo su questa terra, alla coscienza di una cura, all’amore viscerale e incomprensibile, frastornante e assoluto. È il toccare il cielo con un dito col terrore atavico che quella gioia sfumi da un momento all’altro per una ripicca, per un capriccio divino, per una compensazione. Nel suo cuore, essere padre e la sana follia dell’amore gettano il seme dell’inquietudine, una prospettiva spaventosa, presaga di eventi irreparabili. Si chiama cherofobia, ed è la paura di essere felici. Dentro Sin rumbo questa paura si amplifica man mano che la storia si compone; si identifica, soverchia, occupa ogni interstizio, ci lascia soffocare insieme ad Andrés, alla sua solitudine incolmabile, insieme a quel senso di irreparabilità per il quale la vita è solo una iattura e un’impostura, uno scherzo crudele che è stato giocato all’uomo, il cedimento al ritorno dentro il ventre del nulla. La vita, qui, è la punizione con cui si ripara a un peccato, a una contraddizione. È un contrappasso, la dura prova del Giobbe tradito e devastato.
Romina Arena