Egon Schiele nel “ritratto” di Wally Neuzil e di Edith Harms: “Le ragazze con le calze grigie” di Romina Casagrande
Raccontare la vita di Egon Schiele, che voleva essere il più grande pittore di Vienna. Raccontarla senza altre mistificazioni rispetto a quelle che la sua reale biografia, così incredibilmente simile a una sceneggiatura, lascerebbe ricamare punto per punto. Raccontarla attraverso un romanzo in cui l’io narrante non sia né onnisciente né prevedibilmente riconducibile all’artista, bensì ancorato all’esperienza di due donne di assoluta importanza per il suo percorso: Wally Neuzil – che dal 1911 (aveva appena diciassette anni) fu sua modella, musa e compagna, e che alla fine della loro relazione partì come infermiera volontaria sul fronte balcanico, dove trovò la morte nel 1917 – ed Edith Harms – la giovinetta borghese che il 17 giugno 1915 diventerà sua moglie, ne porterà in grembo il figlio mai nato e che, come lo stesso Egon, morirà di febbre spagnola nel 1918. Questa la scelta di Romina Casagrande, che nel suo Le ragazze con le calze grigie, appena pubblicato da Arkadia, guarda all’artista proprio da quegli occhi femminili tante volte ritratti su carta e su tela: occhi sbarrati di stupore, vaghi di piacere, socchiusi nel compiacimento di avere le attenzioni dell’allievo prediletto di Gustav Klimt.
Il romanzo, che si apre con un’epigrafe di Oscar Wilde evidentemente profetica – «Each man kills the thing he loves» – si divide dunque in due parti: la prima, Wally, è il racconto della relazione tra Schiele e Frauelin Neuzil, ragazza di campagna orfana di padre giunta nella grande e deludente città con la nonna, la madre e le tre sorelle; la seconda, Edith, è la storia dell’incontro e del successivo rapporto tra l’artista e la secondogenita di un benestante meccanico ferroviario, sposata più per convenienza che per vero amore e nondimeno predestinata a un drammatico ruolo ancillare. Entrambe le vicende sono raccontate a partire da un preciso momento: quello dell’agonia di Edith, ormai prossima alla fine, mentre Egon, nella stanza accanto alla sua, dipinge il “loro” quadro, La famiglia, l’ultimo del pittore e destinato a rimanere incompiuto. In questo clima ferale, di guerra e malattia, Wally è cadavere già da qualche mese, e la sua voce narrante proviene da un altrove non meglio specificato; Edith, da parte sua, vaneggia e ricorda, come una Madonna terrena che non partorirà nessuna salvezza.
Romina Casagrande non si è concessa “licenze poetiche”: lo spiega lei stessa in apertura, in una nota apposita in cui dichiara di avere operato una selezione nella moltitudine di pubblicazioni su Schiele e di essersi basata principalmente sulla sua biografia più recente e più completa, oltre che sui diari dell’artista e della moglie. In alcuni punti del testo, poi, l’autrice ha dato vita a una forma di “interpolazione creativa”, incastonando brani autografi, marcandone alcuni in corsivo e lasciandone in tondo altri, specie nei dialoghi, quasi una sfida ai cultori del pittore perché si mettano alla prova e si dilettino a riconoscerli. Per i meno ferrati sull’argomento, invece, in coda al volume c’è un curioso specchietto con brevi cenni sui Personaggi principali, nel quale gli aspetti documentali (precisione storica) e quelli teatrali (personaggi intesi come Dramatis personae) finiscono per sovrapporsi in un’unica indistinta percezione. Sullo sfondo di una Vienna tra fin de siècle e Belle Époque molto meno incantata e incantevole rispetto alle aspettative degli stessi protagonisti – che tuttavia la vivono e la animano con la speranza di trovare un senso felice nel mondo (Wally e Edith) o con l’ambizione di passare alla storia (Egon) – la vita del pittore si intreccia a quella delle sue principali muse con un andamento non dissimile rispetto alle linee che ne renderanno immortale lo stile grafico e pittorico: linee nervose e tormentate, linee violente e sensuali. Per entrambe le donne, il carisma dell’artista è croce e delizia, dominio di un ego a cui è impossibile opporre resistenza e che attrae a sé anche nello scandalo e nella sciagura: quella dell’accusa di pedofilia e pornografia (Wally), quella della guerra e della malattia (Edith).
Non ci sono ragioni per cui Le ragazze con le calze grigie non debba piacere agli appassionati di un pittore divenuto, nel corso degli anni, un vero e proprio fenomeno di culto (si pensi anche al biopic uscito nel 2016, Egon Schiele di Dieter Berner). A patto, forse, che questi non cerchino tra le pagine di Romina Casagrande quella febbre – metaforica e reale – che ne animò l’esistenza fino a consumarla. Nello stile dell’autrice non c’è nulla che richiami con vigore l’estetica dell’artista, nessuna forma di “espressionismo” immediatamente percepibile come tale; ma questo, per certi versi, è spiegabile proprio con le regole del gioco narrativo e della focalizzazione adottata, dal momento che la voce narrante non è quella di Egon, bensì quella delle due figure femminili più importanti della sua vita (se si esclude l’adorata sorellina Gerti, sul cui rapporto ancora aleggiano torbidi sospetti incestuosi); due voci che tendono addirittura a una certa somiglianza, al punto che chi legge non ha mai la piena percezione di uno scarto netto tra caratteri che nella realtà, anche per estrazione sociale e culturale, dovevano essere piuttosto differenti.
Al netto di tutta la passione provata da entrambe per lo stesso uomo, è proprio il filtro prospettico a giustificare una certa moderazione, quasi una smorzatura, dei toni e degli episodi che avrebbero prevedibilmente avuto un’altra resa se fossero stati raccontati dal punto di vista del pittore. Quello di Wally e di Edith, dunque, sembra essere proprio questo: il tentativo di comprendere ed esprimere a parole quello che solo l’artista sapeva proiettare al meglio sui fogli e sulle tele, quella visione di se stesso e del suo immaginario che non aveva bisogno del linguaggio verbale, ma di linee, forme e colori di inimitabile efficacia.
Cecilia Mariani