La vita schifa


È drammaturgo, scrittore, regista e attore. Vincitore della XVIII edizione del Festival internazionale del teatro di Lugano, nel 2016 è stato insignito del Premio Associazione Nazionale Critici per la sua attività teatrale. Negli anni la sua scrittura è stata oggetto di studio presso alcune università italiane ed europee, con approfondimenti monografici e tesi di laurea. Per il teatro ha scritto Ciò che accadde all’improvviso (2006), I tempi stanno per cambiare (con Luigi Bernardi, 2007), ’A Cirimonia (2009), Eppideis (2021). Ha pubblicato Iddi – Trittico dell’ironia e della disperazione (Editoria & Spettacolo, 2016), che contiene i testi Ouminicch’ (2007), Letizia forever (2013), Portobello never dies (2015) e Santa Samantha Vs. Sciagura in tre mosse (Il Glifo, 2019), che comprende i testi Lo zompo (2016), Mari/age (2016) e La veglia (2018). Per la narrativa ha scritto le novelle L’ammazzatore (Perdisa Pop, 2007), Concetto al buio (Perdisa Pop, 2010), e i romanzi Cattiverìa (Perdisa Pop, 2013) e La vita schifa (Arkadia Editore, 2020), proposto da Giulia Ciarapica per il Premio Strega 2020.



Se l’amore prende la… Scossa 

Il libro. Esce oggi “La vita schifa” di Rosario Palazzolo che accompagna il lettore nella vita di Ernesto, l’amico di sempre, quello naïf e un po’ fuori dall’usuale

Rosario Palazzolo con “La vita schifa” (Sidekar/Arkadia) non lo leggi, lo ascolti. È una sensazione di straniamento quella che colpisce il lettore che inizia a sentire la voce del protagonista, Ernesto Scossa; lo segue pendendo dalle sue labbra e non dalla sua penna. Lo segue nella sua sintassi plastica che rifiuta le lettere maiuscole e che le lettere le trasforma da segni in suoni.
Ernesto Scossa è morto, non così i suoi ricordi, a partire dall’anniversario successivo alla sua dipartita. Successivo, sì, non ho sbagliato io, non pensate a male e attendete pazientemente di arrivare a leggere le ultime pagine. Non siate impazienti perché per Ernesto è: «come se certi ricordi mi fanno il gioco d’artificio nel cervello, e un fatto qualsiasi diventa un’esplosione di mille scintille che s’inseguono, che si uniscono, che formano colori diversi, e tutti i fatti che mi sono capitati nella vita diventano un unico fatto».
Torniamo al nostro… Ernesto, che già dopo un paio di pagine inizierete a pensarlo come l’amico di sempre, quello naïf diciamo, è un po’ fuori dall’usuale, ha pochi, pochissimi punti fermi dentro e fuori ma ci insinua il dubbio che la normalità sia una convenzione a cui poterci sottrarre. Nella sua imperfezione, però, ha delle regole: «La precisione è un fatto complicato, un fatto che l’uomo lo fraintende, prendi la natura per esempio: ti pare precisa solo perché sei tu che c’hai bisogno della precisione, e così ti fissi che ogni cosa è messa come se fosse messa con un pensiero che l’ha messa proprio in quel modo lì, coi fiori che viene la primavera e spuntano i fiori, gli alberi e il sole e la tempesta invernale, e invece sta tutta nell’imperfetto, la natura, è il contrario della precisione, ed è solo il tuo occhio che la vede al contrario…».
Così iniziamo ad andare avanti e indietro fra i ricordi del protagonista, un apparente disordine anche qui che però ci stuzzica a tendere l’orecchio e prestare attenzione a tutti i passaggi della narrazione. Non è che non ci si possa distrarre, ma è come un’autostrada con le uscite una in prossimità dell’altra che se ti distrai è un casino ma neanche poi tanto ché c’è sempre un panorama nuovo. A me questo è sembrato: un viaggio in autostrada con le uscite vicine vicine: le guardi tutte e pensi che forse dovresti prenderne un’altra. Solo che Scossa è un passeggero: «Per prima la nascita, che deve essere giusta, poi bisogna che ti scelgono, è tipo come se fosse un concorso nel quale ognuno deve dimostrare le proprie qualità, solo che questo concorso è un concorso silenzioso…».
Così succede che la mano dell’ammazzatore Ernesto Scossa si ferma solo davanti un amore improvviso, davanti a un corpo che doveva freddare e invece ha riscaldato con questo sentimento nuovo, inopportuno e che qualche pensiero lo porta: «Penso che il futuro che guarda al passato è sempre una confusione di possibilità inavverate, di cui solitamente non ti pigli la colpa, e invece la colpa sei tu…».
Palazzolo ci offre una lettura apparentemente leggera, con sorrisi che si aprono improvvisi davanti alle considerazioni di un personaggio che lo è anche per se stesso, per una serie di etichette che gli sono state appiccicate e che lo interrogano. Ernesto sembra fuggire al suo destino ma lo forgia, lo plasma: «perché quando la felicità fa i capricci e non arriva da sé bisogna fabbricarsela con l’invenzione».
L’ammazzatore non cerca né la redenzione né l’assoluzione. Nessuno di noi può redimere o assol- vere alcuno, compreso se stesso, sarebbe ipocrita. Scossa ammette: «se mi capitasse a me, non salverei a nessuno, penserei a salvarmi io» – e aggiunge -: «del resto è facile maledirsi, dopo, ma non vale: dopo ne abbiamo voglia tutti, raro che ci riesci prima». Vi lascio così, sospesi, perché Ernesto in realtà ha un’anima interessante e ‘sa fare i fiori’ e, come un fiore nasce, fiorisce e muore, nasce, fiorisce e muore finché non va a tagliarsi i capelli da Gioacchino.

Salvatore Massimo Fazio Letizia Cuzzola



Rosario Palazzolo: «Provo a sfidare la realtà, mi piace indagare cattivamente sulla normalità altrui»

Libri e Fumetti Il drammaturgo, regista e attore palermitano è tornato alla letteratura con “La vita schifa”, edito da Arkadia, in uscita il 23 gennaio, di cui pubblichiamo per gentile concessione dell’editore il primo capitolo. Palazzolo “disegna” «un uomo fragile e al contempo potente, con una lingua vulcano carica di neologismi, solecismi, deformazioni ritmiche, una lingua scotennata dall’insopportabile medietà linguistica della lingua, in cui l’ironia e la sciagura propongono il medesimo racconto». Presentazione il 26 gennaio al Biondo di Palermo.
Si immagini un uomo che “agisce” per neologismi, che totalmente diserta le forme della dialettica, della lingua, dell’esposizione e ancora le retoriche, i contrappunti, i segni che sono lettere, stanghette scritte. Tutto ci appare nuovo o lo additiamo con sberleffi. Adesso si realizzi che così non è. La persona in questione non è un ignorante né un gretto, forse sarebbe meglio dire non è grezzo. Un uomo che diserta da qualunque tipo di phoné voce, suono, rumore che anche inconsapevolmente produciamo ma anche da qualunque tipo di sovvertimento con capriole di filosofia sulla scia di wittgeinsteiniana memoria. E nuovamente, in questo disertare, sapere che tutto ciò che appare strano, a tratti divertente sino all’esasperazione, è distopico.
Ha un carattere cattivo, così come lo stesso ci ha detto: «Del resto è un fatto abbastanza risaputo. Che io abbia un cattivo carattere. Lo dicono quelli che non mi conoscono, ne sono certi coloro che mi conoscono bene». È il drammaturgo, scrittore, regista e attore palermitano Rosario Palazzolo, che mi ha esaltato nell’intervista che segue, ma ancor di più nella lettura e rilettura, verso un nuovo plasmato verbale, de La vita schifa che vedrà luce il 23 gennaio prossimo per i tipi di Arkadia Editore nella collana Sidekar, curata dalle gemelle Ivana e Mariela Peritore. Quest’ultime accompagneranno l’autore alla prima nazionale del libro che si terrà domenica 26 gennaio alle ore 11.30 alla Sala Strelher del Teatro Biondo di Palermo. Converseranno con lui la scrittrice Beatrice Maonroy, Marco Bernardi e il regista Giuseppe Cutino.
Palazzolo, noto al grande pubblico per la sua straordinaria attività teatrale, senza dimenticare il cinema – nell’ultimo film di Marco Bellocchio, Il traditore, interpreta il ruolo di Giovanni De Gennaro, funzionario della PS che convinse il boss dei due mondi Tommaso Buscetta a collaborare -, non è al suo esordio letterario ma potrebbe esserlo: il nuovo incombe dove il protagonista Ernesto Scossa rappresenta tutte le contraddizioni che nei luoghi comuni è data per una carenza di fermezza e personalità decisa. Forse.

L’autore, infatti, “disegna” «un uomo fragile e al contempo potente, con una lingua vulcano carica di neologismi, solecismi, deformazioni ritmiche, dove l’asintatticismo di facciata nasconde leggi rigide e incontrovertibili, una lingua scotennata dall’insopportabile medietà linguistica della lingua e anche una lingua disponibile all’orrore, al fallimento, all’incomprensione, una lingua in cui le virgole smettono di essere virgole e divengono interpunzioni emotive, sequenziali, e in cui l’ironia e la sciagura propongono il medesimo racconto, abbastanza divertente, moltissimo pauroso, e pure un lingua che fatica per essere vera, impiantata come un microchip nella coscienza intima del protagonista, e perciò superfalsa, che fa del disagio per il neoreale una prodigiosa contingenza della realtà, e insomma una lingua che mira alla forma per risolvere il contenuto, e per questo pretestuosa, soprattutto, e soprattutto presuntuosa».
Quando mi ha così racchiuso in poche parole la sua idea di partenza, parole che ho sentite come una mitraglietta di conflitti e contraddizioni, mi sono interrogato: “se gli dico che mi ha stupito, potrebbe mandarmi al diavolo e allora non glielo dico”. In in dei conti io voglio raccontare La vita schifa di Rosario Palazzolo, e qui l’opera è scritta sì da lui, ma diventa di chi la assorbe. Poi torno sui mie passi e allora sento forte la necessità di fargli tante domande sul teatro: Ciò che accadde all’improvviso; I tempi stanno per cambiare nel 2007, con Luigi Bernardi, Ouminicch’ sempre nel 2007, ‘A Cirimonia (2009), Pinuocchio (2010), Manichìni (2011), Portobello never dies nel 2015, che si è guadagnato il “Premio Napoli Teatro Festival”, o Samantha Vs – Sciagura in tre mosse, che comprende gli spettacoli Lo zompo, Mari/age e La veglia, trilogia prodotta dal Teatro Biondo Stabile di Palermo. Con Letizia forever del 2013, che ha scritto e diretto, si è aggiudicato il “Premio Teatri di Vetro e MarteLive”, spettacolo che ha superato le 150 repliche.

Del Palazzolo scrittore, che nel 2006 vince il “Premio Lama & Trama” con il racconto A N., ci sono tracce importanti con la novella L’ammazzatore del 2007, e due romanzi del 2010 e 2013, rispettivamente Concetto al buio e Cattiverìa. Alla domanda su che effetto possa fargli essere in un firmamento di premi mi ha risposto che «È un tema freddo, quello dei premi. Che non mi entusiasma nemmeno un po’. Però se mi premiano so essere contento». Non gli ho creduto e allora, data la valenza straordinaria de La vita schifa ho incalzato con un’altra domanda, con l’ambizione di farlo cadere nel mio tranello, gli ho chiesto pertanto per chi lo ha scritto, e la risposta mi ha ammutolito «Per le mie colpe, che non intendo confessare». Non certo di riuscire ad incrociare curiosità del protagonista Ernesto con l’autore Rosario, ho iniziato una carrellata di domande, sognante di trovare coincidenze volute.

Rosario, cosa ti ha spinto a scrivere di questo tema?
«L’amore per l’impossibilità, e il disprezzo per le attenuanti».

E perché hai voluto scriverne? «Perché m’interessano parecchio le voci. E lo stile. E la complessità. E la leggerezza. Perché non sono uno scrittore tipico, e del resto non credo nemmeno esista, lo scrittore tipico, se esiste è perché autoesiste, e allora scrive le cose più tipiche che potremmo immaginarci da uno scrittore tipico. Perché le storie mi servono per dissacrare la realtà, non certo per risolverla. Perché mi piace indagare cattivamente sulla normalità altrui, ma solo per poter sfoderare le mia. Perché mi piace il lettore atletico, che sappia correre, e perdersi. Ma anche ritrovarsi. Perché propendo per un destinatario responsabile, magnifico e coraggioso. Che bisticci un po’ con la mia opera, e perda o vinca. Perché credo che viceversa la scrittura non avrebbe motivo di esistere. Perché amo i giochi ingegnosi, pieni zeppi di trucchi, di soluzioni prodigiose e rischiosissime. Perché provo a sfidare la realtà. Perché sono soltanto un maldestro simulatore».

In tre aggettivi, come racconteresti La vita schifa?
«Funambolico, ironico, disperato».

Per Arkadia Editore nella collana Sidekar, dunque questo tema, che è il trionfo del godimento del cambiamento che mai è avvenuto perché è lì palesato. Nelle precedenti pubblicazioni a cosa ti sei ispirato?
«Ho scritto una novella (L’ammazzatore, 2007), e due romanzi (Concetto al buio nel 2010, e Cattiverìa nel 2013). E per ciascuna opera credo l’ispirazione sia stata la medesima, poi declinata in storie differenti. E l’ispirazione è questa: il mio cattivo carattere. E del resto è un fatto abbastanza risaputo che io abbia un cattivo carattere. Lo dicono quelli che non mi conoscono, ne sono certi coloro che mi conoscono bene. Non è che sono proprio intrattabile, intendiamoci: non ho mai picchiato nessuno, le mie parole solo raramente sono offensive e quasi mai con le persone sbagliate; non ricordo affatto perché il tale mi è insopportabile e non per questo fingo di non conoscerlo. Pesto piedi, mani e ideologie alla rinfusa, senza interessarmi troppo di chi e che cosa, solo per il gusto di scovarne una qualche genuinità, e comunque chiedo sempre scusa, dopo. Ho un sarcasmo indolore, insapore, inodore, ma solo per gli stupidi, tutti gli altri mi odiano proprio per questo. Non puzzo, ma ugualmente non sono favorevole agli abbracci gratuiti. Non amo i segreti, i saltimbanchi, le donnine in tutù. Non ho pazienza per quelli che si ricordano tutto, sebbene mi piacerebbe assumerli; e odio i presentatori, gli adulatori, i sismologhi e la carta stagnola, ma non mi privo di nessuno di loro, se no smetterei di odiarli e sarebbe un peccato. Tifo per la rabbia, quella di chi è in grado di gestirla; e non sopporto i sereni, i pacifici, i senza macchia, soprattutto i senza macchia. Mi è ostile qualsiasi tipo di psicologia, specialmente quella interrogativa; so chi sono, cosa voglio, cosa vorrei e cosa non avrò mai, e riesco a osservare tutte queste cose con il dovuto distacco, con il dovuto sogghigno, con il dovuto bruciore. Ho l’occhio vivo – come si dice da queste parti –  e nulla sfugge al mio inesorabile giudizio, e non faccio feriti, perché odio pure i feriti. Mi fanno schifo i lacrimevoli, gli esterrefatti, i consolatori; e faccio incetta di maledizioni, lo sanno bene quelli che provano a scagliarmene di nuove. Amo la contraddizione, alla follia, per cui potrei scrivere il contrario di tutto quello che ho scritto, qui come altrove, e ne proverei il medesimo piacere; quindi, sebbene non sia d’accordo con loro, credo che abbiano ragione, i tutti: ho davvero un pessimo carattere, senza il quale non avrei scritto un solo rigo».

Come sei approdato nella collana Sidekar di Arkadia?
«Conosco Mariela Peritore da qualche anno. La stima che provo per lei mi ha fatto decidere di inviare il manoscritto. Poi ho conosciuto Arkadia, tutto il suo meraviglioso staff, e il mio cuore ha palpitato».

Paradosso a ritroso: dal libro al teatro e al cinema come vi approda Rosario Palazzolo in quest’ultimi due?
«Il teatro è stato un dirottamento necessario, e del resto ancora lo è; il cinema, invece, una breve crociera che mi sono concesso, visto che mi pagavano il biglietto».

Hai studiato o sei un “indipendente” che ha dopo studiato recitazione?
«Non ho mai studiato recitazione. Perlopiù l’ho adoperata».

Maestri?
«Uno su tutti: Luigi Bernardi».

Da giovane, o da bimbo meglio ancora, avevi questo progetto di vita dedita all’arte? «Non proprio. Sono piuttosto pigro, ho lasciato che le cose accadessero».

Il tuo rapporto coi premi mi hai detto essere un tema freddo, che non ti entusiasma nemmeno un po’, che però se ti premiano sai essere contento: e con gli encomi ricevuti sino ad oggi?
«Io e gli encomi abbiamo un rapporto burrascoso. Diciamo che ne ho avuti anche troppi per uno che fa di tutto per non riceverne».

Una curiosità: il ruolo di Giovanni de Gennaro nel bel film Il traditore di Bellocchio, come ti ci sei “calato”?
«In un modo che non avevo mai sperimentato: la sottrazione».

Interessante, anche troppo. Concedimi una domanda #off. Il calcio fenomeno socialmente enorme in Italia: per chi e se tifi?
«Tifo per il Palermo, ma senza troppi struggimenti».

E adesso un’ultima campanilistica. Palermitano tout-court dunque, riconosci che si dice arancino o ti batti per arancina?
«Preferisco la pizza».

Salvatore Massimo Fazio



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

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