Come lo stesso Alessandro Gianetti ci suggerisce, “La ragazza andalusa” – pubblicato da Arkadia per la collana Senza Rotta curata da Marino Magliani, Luigi Preziosi e Paolo Ciampi – è un romanzo che ha più i tratti di una descrizione che di una storia d’amore, un diario di viaggio nel quale si annotano impressioni a mano a mano che ci si addentra in un territorio sconosciuto, quello dell’altro. L’esperienza di un amore che vive e si consuma in questo tentativo di avvicinamento, nella ricerca di una breccia che permetta la comunicazione e apra alla conoscenza. Sicuramente soggettivo – non potrebbe essere altrimenti raccontando di due persone perfettamente contornate e circoscritte – eppure assolutamente universale. Un viaggio che in fondo ognuno di noi intraprende nel momento in cui si innamora di un’idea di amore e cerca di tradurla in un linguaggio da offrire all’altro e che l’altro possa riconoscere anch’esso come sua.
“Mi ero convinto che se Beatriz si fosse decisa a parlare avrebbe finalmente pronunciato le parole che aspettavo. «Forse l’amore non è che questo», mi ripetevo, «immaginare le parole giuste sulle labbra di chi non le pronuncia.»”
Leggere questo romanzo produce lo stesso incanto di una di quelle immagini olografiche che, a seconda della direzione in cui le guardi, ti raccontano più storie e ti aprono a prospettive inattese e non considerate. Sicuramente può essere definito un romanzo in cui si parla delle possibilità e delle impossibilità dell’amore, ma è l’oggetto di questo amore che muta secondo la visione che il nostro sguardo coglie. Questa è la sua particolarità, questa la sua profonda ricchezza. Ci sono un ragazzo, una ragazza, un incontro, un’attrazione, il ritratto di un innamoramento. Ci sono la città di Madrid e i percorsi delle sue strade, piazze, angoli particolari, i suoi locali e la sua inconfondibile movida notturna, in cui a dettare il ritmo sono le consolle dei dj e la tequila. C’è l’altra Spagna, quella fuori da Madrid, così diversa, con i suoi spazi aperti, la sua anima ancora così profondamente rurale, le isolate stazioni di servizio, le strade mangiate dal calore, con a lato i filari di eucalipti e i campi bruciati dal sole. E poi c’è la parola, a mio avviso assoluta, vera protagonista. La sua presenza, la sua assenza, la sua funzione di varco tra realtà geografiche diverse, il suo essere elemento che neutralizza le distanze e sottolinea differenze e incomunicabilità. La forza narrativa di cui è capace e la debolezza di cui intride i rapporti là dove manca come chiave per aprire porte.
“Accanto a lei una ragazza più alta, con un foulard colorato che le avvolgeva il collo: gettava gli occhi a zonzerellare mantenendosi composta, compassata, le mani a conca raccolte sulla distesa candida del suo maglioncino bianco. Aveva un sorriso di chi si accontenta di poco, fondamentalmente di se stessa e della sua capacità di osservazione. Irradiava luce chiara dagli occhi azzurri, che non distinguevo bene a causa delle lampade che suddividevano la visuale in tanti quadrettini color argento, nero, oro e poi di nuovo argento.”
In una delle tante notti madrileñe in cui i giovani rimbalzano da un locale all’altro come le palline di un gigantesco flipper, il protagonista, traduttore pubblicitario per una catena alberghiera in crisi, trascina la sua noia in compagnia di amici e di compagni occasionali, attraverso un invisibile itinerario puntellato di tappe consuete, un intrico di atolli nell’arcipelago della movida: il Maria Bonita, il Dumbarton Club, il Beguine the Beguin, il Mi madre era una Groupie. E proprio in quest’ultimo avviene l’incontro con Beatriz, giovane ragazza andalusa dall’aspetto insolito. Nel mondo fluorescente e colorato della notte, il maglioncino bianco di Beatriz attira il suo sguardo, come fosse uno spazio nuovo da scoprire, un foglio nuovo da scrivere. Troppo facile l’accostamento – date le origini fiorentine dell’autore – ma Beatriz è davvero un risveglio, una rinascita dal morbo della consuetudine, una luce nell’inconsistenza del buio. Il bianco è in fondo la sintesi di tutti i colori dello spettro visibile, li contiene tutti. Eppure, da subito, più che un pieno pare sottolineare un’assenza, un distacco, una vastità in cui perdersi.
“Beatriz giaceva sul letto muta, come una delle donne dipinte nei quadri del suo salotto. Quel silenzio non sembrava una pausa, ma neppure una riflessione. Si trattava di un’attesa che non sapevo né quanto tempo durasse, né se fosse mai iniziata.”
Beatriz è donna che si esprime in un linguaggio quasi unicamente corporeo, un linguaggio che è fluido, privo di asperità, coinvolgente, che può essere condiviso senza necessità di mediazione. Beatriz è anima che prende vita nel contatto fisico mentre perde consistenza, si disperde in quello verbale, come se le parole pronunciate e messe in fila creassero un infinito territorio vuoto, spazzato da mute tormente di silenzi (“Le parole seguono un percorso che non trovo”). E la storia d’amore si snoda nel viaggio del protagonista attraverso questo territorio, nella ricerca di avvicinarsi a lei, che ad ogni parola si fa sempre più lontana. È la narrazione delle parole dette e non dette che definiscono il territorio dell’amore, che gli danno e gli tolgono essenza, che lo nutrono o lo affamano nella presenza e nell’assenza.
“Andavo io a Siviglia o veniva lei a Madrid. Talvolta ci spostavamo sia io sia lei, incontrandoci in un territorio inesplorato, com’è sempre l’attrazione tra due corpi. Era già tutto chiaro, mi sembrava, ma ci divertivamo a ingannarci, cercando di tener lontane le parole che ci avrebbero legati, distanziandoci anche dalla loro eco, lasciando che sfinisse nelle grandi distese che ci separavano, tra Toledo, Valdepeñas e Andújar. In quei giorni capii che ogni relazione ha un paesaggio che le è congeniale, e che il nostro sarebbe stato l’oceano.”
È un romanzo fatto di luoghi, spazi scenici dell’incomprensione, perché costruiti intorno ad un punto di vista singolare che non prevede condivisione. Solo le stazioni e il letto, quali unici punti di contatto possibili, in cui pare aleggiare una sorta di neutralità, la tregua della zona franca. Da Madrid a Siviglia, dalle coste andaluse a quelle dell’Algarve, dai territori aridi dell’Estremadura al fascino di Porto, la storia del loro amore è una storia di avvicinamenti e di allontanamenti, di arrivi e di partenze, di attrazione e di chiusura. In questa geografia del sentimento che nasce, l’autore attua una sovrapposizione, per cui Beatriz stessa incarna spesso le contraddizioni e le differenze del paese di cui è figlia. Per capirla, bisognerebbe prima introiettarne il linguaggio, che è fatto di parole che non possono trovare riscontro in un mondo che non sia quello in cui lei si muove. Per quello che genericamente è il caldo, l’andaluso dispone di quattro categorie di classificazione “[…]ognuna delle quali ha le sue caratteristiche irrinunciabili, in un crescendo di fastidio in cui il calor è il più comune, la flama la più prepotente, la calima la più pericolosa e il bochorno il più maledetto.” Una classificazione che supera la puntualità linguistica, per insinuarsi nella pelle di un popolo, condizionarne i gesti, i pensieri, la scansione del tempo e la visione della vita. Non è sufficiente una traduzione per carpirne lo spirito. La parola diventa inutile involucro senza ciò che si porta con sé.
“In realtà, un traduttore è un individuo che vive sospeso tra due mondi, e si sente figlio del primo e del secondo, incompreso sia dall’uno sia dall’altro, follemente innamorato di entrambi.”
“[…] una lingua da tradurre è qualcosa di più eterogeneo di una sequenza di regole grammaticali, è un’atmosfera, e se non ti fai avvolgere da quell’involucro gassoso fatto di poesie, film e musica non potrai mai essere un bravo traduttore madrelingua.”
Beatriz e il protagonista non si comprendono, continuano a parlare due lingue differenti, lui quella delle parole, lei quella dei silenzi. Abituato a vivere la propria esistenza basandosi sulle parole, nella ricerca di una preconcetta e codificata modalità di scambio del segno per ricomporre l’identità del significato, il traduttore si è perso nella vastità di accezioni che la comunicazione prevede e che deve essere imparata, al di là delle regole grammaticali e dell’esercizio. Tradurre non è trasporre qualcosa vestendola con ciò che ci è più familiare, così come amare qualcuno non è volerlo e pensarlo dentro al nostro sistema di riferimento.
“Ognuno ha le proprie deformazioni professionali e io, in fin dei conti, ero un traduttore. A volte cercavo di tradurla. Non le singole frasi che diceva: cercavo di tradurre lei, Beatriz, tutta intera.”
“Ora, si possono scrivere trattati sia sulla traduzione oppure sull’attrazione, ma nessuno studio ovvierà mai a un concetto: il testo originale, al pari della ragazza originale, non ammette sostituti. Il risultato della mia traduzione di Beatriz era una ragazza del tutto diversa da quella che conoscevo, e questo provocava l’immediata nostalgia della ragazza originale. Non poteva funzionare, e così mi rassegnavo a osservarla e ascoltarla, come si guarda una pittura o si ascolta una musica, due esempi di arti universali che non hanno bisogno di traduttori. Le mie competenze professionali erano del tutto inservibili.”
Dove il traduttore pensa di aver fallito, arriva lo scrittore. Una storia d’amore vissuta appartiene più al sogno di una storia d’amore narrata. E la Beatriz del romanzo ci viene restituita forse più vera di ogni Beatriz conosciuta e rivestita di parole che non le appartengono.
“Queste pagine non fanno altro che parlare di lei. Mi sembra giusto, in fondo, che esista qualcosa di diverso da me che parli di lei.”
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