“LA PRESENZA E L’ASSENZA”. INTERVISTA A FRANZ KRAUSPENHAAR
“Non ci sono peccati privati. Sono tutti pubblici, tutti condividiamo quelli degli altri e tutti gli altri condividono i nostri”.
La scelta di citare Jim Thompson in esergo al libro l’ho trovata ben calibrata, considerato che sono proprio i peccati non confessati a tracciare il filo conduttore de La presenza e l’assenza (Arkadia Editore), ultima brillante fatica di Franz Krauspenhaar: un noir disperato, a tratti sardonico, graffiante, dalle pieghe malinconiche. Il protagonista è Guido Cravat, un investigatore ingaggiato da un industriale milanese per indagare sulla sparizione di sua moglie. Allontanato inaspettatamente dall’incarico, impegnato in uno scontro all’ultimo sangue con il nuovo detective dell’industriale, lo spietato Saluzzi, Cravat decide di far emergere la verità, provando a sbrogliare un intrico che si rivelerà sempre più sviante, minaccioso e ai limiti dell’inverosimile.
“Vago nel vago. Nella vaghezza, nella stranezza, nell’incertezza. Mi riprendono una voglia terribile di fumare e un senso profondo di frustrazione che mi sospinge verso un’amarezza grigia”.
Doninelli sostiene che il carattere di una città è la somma del modo in cui ciascuno dei suoi abitanti la pensa e la percepisce. In questo romanzo, il tema della metropoli ricopre un ruolo centrale; attraverso gli andirivieni frenetici dei personaggi, il lettore viene trascinato da una parte all’altra della realtà urbana che ne accoglie le vicende: “Città, tu porti le minigonne nere di pelle delle prostitute albanesi e dei travestiti sudamericani. Tu non sei più la città che incontravo e amavo vent’anni fa: tu, città, corpo di città. Città di Milano, io ti ho amato. Ma quest’amore è perduto.” E se nello sport la partecipazione a una gara da parte di un atleta è detta presenza e il computo delle presenze è fondamentale ai fini della designazione del capitano, il conflitto tra i due investigatori hard-boiled del romanzo sembrerebbe appunto simboleggiare un match senza esclusione di colpi, combattuto tra due capitani noncuranti delle regole e delle squadre disposte in campo, delineando il perno principale dell’azione – attorno al quale orbitano le vicissitudini di altri personaggi non meno interessanti – e lasciando letteralmente il segno con i ritagli più feroci, tramite i quali Krauspenhaar dimostra di saper indugiare con notevole sagacia sull’aspetto concorrenziale relazionato alla natura dell’uomo. Il detective Cravat è un individuo dotato di una forte presenza di spirito, benché consumi le giornate tormentandosi, rievocando il proprio passato con un’inquietudine straziante. Tuttavia, con il suo approccio sornione alla vita, saprà donare una sana nota di stravaganza – non di rado quasi fumettistica – all’intreccio della narrazione, riuscendo senza eccezione a stuzzicarci, invogliandoci a seguirlo col fiato in gola nei baratri più lugubri dell’esistenza umana.
Di seguito l’intervista a Franz Krauspenhaar
Mi è parso di capire che non fosse tua intenzione limitarti alla descrizione fisica della città, bensì che tu abbia aspirato a produrre, tramite un processo combinatorio con chi legge, una presa di ascolto sugli aspetti d’insieme di Milano. Quanto riesce a influenzare il tuo scrivere, la città dove sei nato e in cui vivi?
Beh, considerando che la maggior parte dei miei romanzi sono ambientati qui, direi che l’influenza è molto forte. In me c’è il bisogno di raccontare una città che conosco bene attraverso le vite dei suoi personaggi, ma anche di trovare un luogo in parte misterioso e anche simbolico, una specie di contenitore emozionale, nel quale mettere e studiare l’animo umano in condizioni di relativo benessere. La metropoli, l’unica in Italia, ti dà la possibilità di raccontare l’infinitesimo dentro un calderone molto urbanizzato ed enorme, così come facevano per esempio i grandi scrittori francesi dell’Ottocento, come Zola, o gli americani come Henry Miller e Dos Passos, grandi raccontatori di città metropolitane. Ecco, Milano è il punto del mondo datomi dal destino di esserci nato e cresciuto per farne un laboratorio aperto e chiuso, un mondo che è nel mondo ma che, attraverso la fantasia e le digressioni, diventa anche altro, forse una possibilità, o un’occasione mancata, o uno studio sul passato della città, su ciò che ci ha lasciato e su ciò di cui abbiamo ancora nostalgia.
Il senso di nostalgia per il tempo andato è partecipe come un sottofondo pressoché “sonoro” al romanzo. Cosa ti manca degli anni passati e per quale causa – sempre se credi che ve ne sia una meritevole – vale la pena combattere al giorno d’oggi?
Mi manca una cerca freschezza, una certa leggerezza tipica degli anni Ottanta, quando ancora la speranza del dopoguerra, nonostante la grave crisi politica degli anni Settanta, non si era sopita. C’era un esserci in un secolo tutto sommato ancora lontano dallo sparire, c’era una vita presente ancora più presente di prima, se vuoi incistata nell’illusione, ma comunque viva, pulsante. Ricordo bene quegli anni, erano anche malinconici, perché la giovinezza è anche malinconia, è prima consapevolezza di quel che non può durare, e allora anche nell’ebbrezza di un momento ci può stare l’avvisaglia di un futuro tutto da immaginare che chissà cosa ci porterà, certamente cose diverse. Oggi secondo me vale la pena combattere per una vera legalità, per ridare dignità piena alle persone in difficoltà, e siamo davanti a un compito difficilissimo, perché tutto sembra ruotare attorno a situazioni di totalitarismo soffice ma pressante, alle distopie immaginate dal genio di Orwell, per esempio. Il cittadino dovrebbe imparare a ribellarsi, soprattutto in Italia, ma siamo ormai confinati negli sfogatoi dei social network, nei quali quasi sempre possiamo protestare, tanto le nostre urla del silenzio arriveranno a poche persone contingentate, mai alla vera opinione pubblica.
Qual è il significato del titolo La presenza e l’assenza?
È la storia prima di tutto di un’assenza, quella della moglie dell’industriale che di punto in bianco sparisce si può dire nel nulla, e poi, come vedremo verso la fine della storia, di una presenza non ben identificata che fa visite inquietanti al protagonista Guido Cravat, il detective ex poliziotto, una presenza avvolta nel mistero che forse ha a che fare con l’assenza della donna, ma non è detto. Come in tutti i miei libri, lascio un margine di ragionamento al lettore, amo il mistero più di ogni altra cosa, e preferisco costruire robusti interrogativi, proprio perché nella vita i punti di domanda superano di gran lunga i punti esclamativi, sono mille volte più stimolanti e arricchiscono non solo la storia ma anche la fruizione che ne ha il singolo lettore, che desidero tenere imbrigliato in una ragnatela fino in fondo.
Quanto hai lavorato allo sviluppo della storia e alla caratterizzazione dei personaggi?
Relativamente poco, sono partito dall’industriale, dalla sparizione e dal detective e poi tutto è sgorgato piuttosto naturalmente, personaggi di contorno compresi, come se avessi avuto la storia già scritta dentro di me da tempo e avessi aperto una specie di cassetto o di tubatura per farne uscire il contenuto. Sono contento di questo noir, che è il secondo che pubblico dopo il primo, Cattivo sangue, del 2005, e come allora c’è spesso una voce che racconta e non solo, pensa, divaga, si arrabbia, dà corpo alle sue inquietudini come nei romanzi di una volta, con una certa precisione ma cercando anche di trasferire al lettore non solo i fatti ma anche l’intimità, le ossessioni, i dolori del personaggio.
Progetti futuri in ambito sia letterario che musicale?
In ambito letterario sto scrivendo un romanzo dal titolo provvisorio L’uomo dissolto, una storia sull’identità, spalmata su vari territori che non sono l’Italia, un po’ come feci col mio penultimo romanzo, Brasilia, quasi interamente ambientato nella capitale brasiliana. Dal punto di vista musicale il 29 di questo mese esce in tutti i siti di vendita digitale, nonché su Spotify e YouTube, il mio quinto disco, col mio nome di battaglia Nerolux, dal titolo “Electrosymphonies Vol.1”, prodotto da Symposion Records con distribuzione Believe. Si tratta di sinfoniette esclusivamente elettroniche composte e suonate totalmente da me con un occhio puntato alla tradizione del krautrock, dunque pensando ai Kraftwerk, ai Neu, ai Tangerine Dream ecc. Un disco, a differenza di altri miei, totalmente strumentale, un viaggio particolare nelle mie origini tedesche. Seguirà un Vol.2 a settembre per un totale di due ore di musica.
“E me ne vado da solo, in questo sole nero, che non dà scampo. E adesso ti saluto, e nemmeno mi volto. Non dire niente, ti prego. La presenza? Ѐ da un po’ che non mi fa visita. Per fortuna, ho sempre più paura. Così sto in guardia”.
Roberto Addeo