Di una relazione che non è di nessuno se non dei fantasmi che fatica a chiudere nell’armadio, scrive Francesca Mazzucato ne La collagista(Arkadia, settima uscita della collana SideKar): romanzo agile – appena 116 pagine – scritto in una lingua nobile che rappresenta l’elemento più interessante dell’opera, accostando l’ossessione della carne a un dotto impianto lessicale. Avesse ceduto alle tentazioni del mercato, l’autrice avrebbe messo in fila suggestioni pornografiche, slogan da sexy shop periferici, appellativi di “giocattoli” autoconsolatori, invece il ricorso a un italiano distaccato e necessario, musicale ma ben governato, rende questo romanzo un altro felice esperimento della collana diretta da Mariela e Ivana Peritore e – da questo romanzo in poi – anche da Patrizio Zurru. «È stato Patrizio a chiedermi di scriverlo – ha confessato la Mazzucato – fosse stato per me, forse non l’avrei fatto. L’editoria mi attrae e mi respinge, come la relazione che ho cercato di raccontare».
Tra le cosce di una “collagista”.
Accettando il gioco degli specchi della scrittrice, La collagista presenta sé stessa solo a pagina 18, mentre per trovare il primo dialogo bisogna arrivare alla 50. A questi traguardi si giunge attraverso una scrittura che una dei curatori della collana, Mariela Peritore, vorrebbe «tatuarsi addosso» per limpidezza e generosità: «Cerco ancora un uomo che mi faccia desiderare il precipizio. Mi è capitato, tanto tempo fa. So che la crepa rimasta ha condizionato tutta la mia vita» scrive la Mazzucato, svelando l’universo dei collagisti col coinvolgimento di chi lo pratica in prima persona («Aggiusto il mio mondo risistemandolo come voglio, distruggendolo e ricomponendolo»). Lei stessa è un’affermata collagista, anzi da questa esperienza scaturisce un doppio significato – letterario e letterale – che fonde l’io narrante con quello dell’autrice in un’unica voce: la dissoluzione.
L’arte della dissipazione sentimentale secondo me non appartiene agli italiani, salvo straordinarie eccezioni tra cui Anonimo Veneziano di Giuseppe Berto, L’odore del sangue di Goffredo Parise e soprattutto Un amore di Dino Buzzati. Ma quello che fa Francesca Mazzucato non è tanto raccontare una consunzione ma attraversarne le fibre, decifrarne le fasi, sublimarne il declino. Senza nichilismo e senza compiacimento masochistico, la Mazzuccato affronta l’annullamento del bene senza la banalità del bene, senza la leggerezza degli autori che (per contratto) sono costretti a dare una speranza ai Lettori. La Mazzucato non strizza l’occhio a nessun altro che non sia il suo boia. E lo fa con la furia di due romanzi europei che, almeno per chi scrive, hanno lasciato un segno: Il danno di Josephin Hart (da cui è stato tratto il film di Louis Malle) e soprattutto Fine di un amore di Catherine Texier, due libri diversi tra loro che parlano della stessa ossessione, dello stesso bisogno di ammalarsi di qualcosa per sopravvivere a qualcuno. Questa la missione de La collagista, non digerire un abbandono ma tracheotomizzarlo per cercarne le ragioni, non spiegarsi un addio ma individuarne il dna nel fazzoletto su cui sono rimaste le lacrime.
Costruito come un puzzle a furia dei continui rimandi nel tempo e negli spazi (molto mitteleuropei, come città e atmosfere), i personaggi giocano a nascondere luoghi e identità come si faceva nelle relazioni clandestine di un tempo: oggi invece è tutto social, tutto pubblico, in quanto il mistero – forse la vittima più illustre dell’era digitale – ha abdicato in favore dell’ostentazione. Invece La collagista guarda dal buco della serratura, isola dettagli che in una relazione sanguinolenta fanno la differenza: «Molto spesso te ne andavi con la palla in bocca come fanno i terrier che non vengono addestrati bene». E da quella serratura, la Mazzucato guarda il baratro su cui con lucida consapevolezza ha accettato di danzare: «Con lui non cadevo, ero come uno strumento in attesa di un suono, arrivava e mi accordava al resto».
Un’autrice che avrebbe meritato più rispetto.
Esplosa nel 1996 con Hot line. Storia di un’ossessione (Einaudi), Francesca Mazzucato ha conosciuto la rapida popolarità che in quegli anni divorava autori come soubrette televisive, consumandone a dozzine e sacrificandoli all’altare di una notorietà che – quasi mai – diventava percorso, strada e sacrificio condiviso. La Mazzucato avrebbe meritato più rispetto, non tanto e non solo umanamente ma soprattutto per il talento che le riconosco. «Ho amato A. per un anno e undici mesi, non lo vedo più da un anno e diciannove giorni, e tutto si potrebbe riassumere con numeri e date». Queste rincorse intorno all’abisso avvengono a Z. (chiamata proprio così nel libro, come se volesse castigare anche Zurigo), si avvolgono intorno a caffè e alberghi spesso defilati, dentro camere sfatte dal sesso spesso sadico e dalla solitudine più tagliente, si consumano dentro un quadro esistenziale complicato che l’autrice inchioda a una liturgia molto precisa: «Verrà da me, glieli mostrerò e rifiuterò ogni offerta, non tornerà a casa con i miei cuori, forse faremo l’amore e la mattina prenderò due pastiglie di Ibuprofene e un caffè doppio prima di mandarlo via». Sopprimendo la curiosità con cui, rivolgendoci all’autrice, le chiederemmo di tratti di scrittura troppo chimici per non sembrare autobiografici, restano i dubbi che componendo puzzle così confusi alla fine si ricostruisca la vita, che attaccando tasselli così diversi tra loro si ottenga un composto dall’aspetto antropomorfo. Il finale – quasi declinato a mo’ di diario – fa de La collagista un romanzo più che intenso, autentico, viscerale, in qualche modo conclusivo di un percorso (forse quello personale dell’autrice) che porta all’autoassoluzione “per non aver che amato”. Viene in mente, a leggere la disperazione di una prova così liberatoria come La collagista, il testo di una straordinaria canzone della tradizione napoletana scritta da Alessandro Sisca (1911): Core ‘ngrato. In cui, contrariamente a quanto si crede, le imprecazioni contro il sentimento non corrisposto (core, core ‘ngrato, t’aie pigliato ‘a vita mia) non sono dirette al cuore dell’amata ma a quello dell’amante, cioè a sé stesso. Forse il primo caso di autoflagellamento autoriale, in cui l’assenza di una motivazione plausibile diviene morbo, fatica, malattia.
Come si può spingere tutta questa profondità nell’imbuto dei social media, questa la vera dannazione che dovrebbe toglierci il sonno. Invece lo asseconda, quasi in beatitudine.
Davide Grittani
Il link alla recensione su Pangea: https://bit.ly/2KjFxXT