Francesca Mazzucato è una signora dalla fronte alta e dallo sguardo curioso che ci accoglie, fasciata da un abito nero, con voce suadente in un pomeriggio d’estate presso la Libreria Trame, in via Goito, a Bologna, dove espone una serie di collage da lei creati. Il libro, edito da Arkadia per la collana SideKar, non è ancora in circolazione, ma le premesse ci sono tutte in quell’angolo della città felsinea in cui questa donna, che ci incanta nell’abilità femminile con cui occupa lo spazio intorno e la nostra evanescente attenzione, ha scelto di presentarsi, per la prima volta in Italia, attraverso una mostra personale, in veste di collagista. Fuori ha da poco finito di piovere e l’aria si è fatta carica degli umori della terra e di un senso statico, ancora più forte di quello che credevamo di lasciare all’arrivo delle prime gocce, ma noi oltrepassiamo le barriere dell’indolenza domestica per conoscere, nel dialogo con lei, senza saperlo, i tracciati essenziali del suo ultimo romanzo “La collagista”, che oggi ospitiamo, e, come sempre accade, qualcosa che ci appartiene intimamente e che, se non fosse per certi libri, lasceremmo alla conveniente pigrizia della comoda visione intera ed integra in cui non siamo quasi mai se non quando sappiamo raccontarcela. In fondo, ciascuno di noi è la risultante di una serie di tessere, che non si incastrano perfettamente come un puzzle, ma che necessitano di un ascolto attento perché si collochino al posto giusto nella nostra storia, assumano la forma che saprà dare loro il tempo e il dolore o il piacere con cui sapremo accompagnarle. Il finale non sarà un intero integro, appunto, ma un ensemble di pezzi imperfetti che sapranno stare in un unicum solo se tenuti insieme da qualcosa di più profondo che non li sagoma a dovere, li lascia per ciò che sono stati e ne valorizza la non rispondenza ad altro che non sia la nostra condizione di insostituibili passeggeri erranti in duplice accezione. Francesca, in quel pomeriggio dalle tinte liquefatte, racconta del suo lavoro, di come sia nata e si sia sviluppata la sua passione per l’arte del collage e lo fa con tale trasporto da indurci a dubitare della sua originaria identità di scrittrice. Lo fa soffermandosi sull’urgenza del fare, sulla naturalezza della scelta dei materiali e della collocazione delle tessere, riducendo la portata dell’esito e del traguardo, ma senza negare la fatica delle fasi che ad esso conducono nella coscienza di essere un tramite di una volontà altra che passa dal nostro corpo, dalle nostre mani, e non per questo assume la solida consistenza sul supporto prescelto senza rigore, rispetto per l’origine del flusso da cui siamo investiti, per noi che lo accogliamo non in una dinamica esclusivamente meccanica, ma con quel bagaglio emotivo che spinge in una direzione piuttosto che in un’altra. Atto complesso, dunque, quello della creazione di un collage, ma non il solo. Ne esiste uno che ci investe tutti, scrittori, pittori, venditori ambulanti, edicolanti, calzolai, professori, nullafacenti, e ci parifica: si chiama amore e saperlo raccontare dal lato del verso mancante, senza cedere a pietismi, è un punto alto di un equilibrio claudicante e sensuale che in pochi possono concedersi. Sono quelli che hanno dimestichezza con l’uso forgiato della parola a mo’ di pietra da incastonare lungo un accordo sonoro che sarà sinfonico quanto basta a volare sulle proprie vicissitudini senza incorrere in convenienti e consolatorie risposte di facciata al proprio dolore laddove esso è esibito e manipolato in funzione di un bisogno inascoltato. Francesca Mazzucato sa farlo, conosce bene il range entro cui muoversi, non vola mai troppo in alto e questo restituisce al libro una ragione importante di valore, quella che risiede non solo nella voce altamente riconoscibile dell’autrice, ma anche nella modalità in cui si attraversa, per il tramite di quella voce, nello scorrere delle pagine del suo collage. La voce non si compone esclusivamente della lingua che qui, pur affinata e forgiata, non diventa autoreferenziale, restando la medesima in ascolto di sé e del silenzio del lettore, ma scorre poco meno della coscienza libera, del desiderio che cresce, dell’amore appena esploso nella propria esistenza che monta con forza inarrestabile e che in parte viene trattenuto da un’umana resistenza che racconta di una ferita realmente vissuta e di una fragilità sormontata dalla paura. Quell’angolo da cui Francesca, a volte, guarda, prima che l’interlocutore se ne accorga, per fuggire un istante dopo verso derive sue e molto lontane. Un anfratto di bambina curiosa e timorosa della vita. Recita un passaggio: “Volevo che le parole mi spiegassero il mondo, me lo descrivessero e mi chiarissero i possibili inghippi perché io e chi amavo potessimo stare al sicuro. Era il mio principale desiderio, da bambina”. E ancora: “Lo impari adagio che ci deve essere il mistero che ogni persona ha dei sapori, e non si possono assaggiare tutti insieme”.
“Fragments”, matita e carboncino su carta, Mork.
È la sintesi di un esordio che reca con sé in forme eguali e contrapposte il bisogno di stabilità e il fascino di tutto ciò che non lo è, l’impellenza di chiamare gli accadimenti, le cose, le persone con il loro nome, incasellandoli, fermandoli, e il lato ribaltato della faccenda, quello della condizione estatica del lasciare andare, dei flussi incontrollati come degli umori del corpo, delle perdite di controllo in cui siamo, la bellezza dell’assenza dell’Io, quando ci avviciniamo alla morte, la paura non ci trattiene, la curiosità diventa esplosione di vita e amiamo anche se sappiamo che non durerà e, forse, proprio perché non durerà. “La collagista” è il ribaltamento dell’ordinario nella visuale con cui la Mazzucato racconta le vicende amorose di un’anonima collagista sospesa tra Zurigo e Parigi, anonima quel tanto che basta per riconoscere in lei le nostre ferite e il nostro modo di affrontare gli uomini e la vita stessa. Non è il pieno né l’intero che qui interessa, ma esattamente l’opposto. Sono i pezzi del collage, non il risultato finale, il modo in cui si è provato a metterli insieme, a comporre la figura intera, ma non integra, sotto lo sguardo dell’autrice. Sono gli amori mancati, le perdite, quello che non è stato a dare forza all’amore, alla sua capacità rivoluzionaria, al desiderio che torna prepotente ogni volta in cui ci pare che sia quella giusta e, a ben guardare, lo è quasi sempre, pur nell’inevitabilità, spesso annunciata, della sua fine imminente. Gli uomini scorrono tra le pagine, ma non ne sono il perno nell’istante in cui essi assumono consistenza esclusivamente per volontà desiderante della donna che li ama, li conosce fino in fondo, li perde o, meglio, col tempo impara di averli “solo” lasciati andare (“Ma è lasciare il punto importante. Bisogna prima di tutto imparare a lasciare, a lasciare andare dopo che tutte le tue energie sono state catalizzate da quei gesti, da quel rituale creativo. Non me ne capacitavo.”), esimendoli dalle colpe di un giudizio rigoroso e carico di sofferenza (“Aspettavamo la luce uno dall’altra, non sapevamo crearcela, non sapevo prendermela. Volevo che tu mi salvassi offrendoti la mia innocenza. Non volevi la mia innocenza e non sapevi salvarmi, non te ne importava niente.”), quella stessa che la collagista ammette di avere trasposto nei suoi lavori e di avere incarnato col suo corpo, nelle scelte e nei tracolli, negli eccessi e negli abbandoni. Eppure c’è lo spazio per un angolo di luce: talvolta il ricordo dell’innamoramento che è “la paura di morire mascherata”, “lo splendore di due destini che si aggrovigliano per un tempo che nessuno sa”, il principio di tutte le sue storie, ma anche quella duratura dell’amica a cui riconosce l’amore verso il compagno “dall’occhio con cui ritrae i loro momenti, che si stacca dal reale e dipinge una loro realtà isolata e preziosa”. E c’è lo spazio per le città in cui si svolge la sua vita: Parigi che, avvolta “in una nebbia bianca e porosa”, porta con sé un’inconsistenza che è di impedimento al tracciato emotivo che si scioglie nello scrivere acquistando identità quasi materica, e, poi, Zurigo a cui sono dedicate tra le pagine più dense dell’intero romanzo e che, in qualche modo, è lo specchio geografico dello spirito che anima l’intero libro. Città perfetta e geometrica, città di cose e oggetti preziosi, di banche e cristalli, di silenzi “bianchi” e di sigari, di fiumi, di laghi e di “donne veloci con le caviglie gonfie”, ma è anche, ci dice la collagista, “un impaccio, un errore, un segno obliquo sulla mappa della vita”, che “inizia dove deve e finisce dove decidi”. Dunque, quasi una dipendenza sotterranea sotto le uniformi del controllo finanziario e umano da cui occorre “solo” scegliere di uscire assecondando, in un paradosso funzionale, una volontà che, facendosi pigra, si affievolisce, cede nell’incontrollato in cui risiede l’eros, oltre le barricate geometriche. Sono città che hanno la forza degli amanti, che sanno pretendere la nostra presenza, che, nell’essere attraversate dall’anima che sappiamo porvi dentro, rivelano, nel meccanismo degli opposti caro al libro, la nostra libertà e la nostra solitudine, i nostri bisogni e la nostra inquietudine. Quella stessa che trova respiro e diventa forma e sostanza attraverso l’arte del collage e che potrebbe in futuro rinvenire infiniti altri modi di raccontare lo spazio irrequieto ed esteso di Francesca.
Mindy