Storie di rivoluzioni su Ork: tra Vassilikòs e Barbini
Scrive Camus nel saggio dal titolo L’uomo in rivolta: “Ogni rivolta è nostalgia d’innocenza e anelito all’essere. Ma un giorno la nostalgia prende le armi e si assume la colpevolezza totale, cioè l’omicidio e la violenza”. La citazione posta in esergo al romanzo Vittime di pace, di Vassilis Vassilikòs, edito da Crocetti (traduzione di Gilda Tentorio), in realtà si presta perfettamente a esprimere il nucleo, o quantomeno uno di essi, di entrambi i testi che Ork ha scelto oggi di combinare e accogliere per un viaggio dentro l’anarchia e la sua possibile dimensione intima declinata in un’accezione più autarchica: non solo quello del narratore greco, ma anche un’altra storia che parte dalla ex Russia per giungere fino a Buenos Aires. Il fabbricante di giocattoli di Tito Barbini, pubblicato da Arkadia nella collana Senza rotta, è questo e altro ancora che proveremo a tracciare nel tentativo volto alla restituzione di un’idea di rivoluzione che passa dalla Storia e travolge le vite dei singoli. In fondo, Camus nel saggio citato già immette le coordinate propedeutiche alla distinzione tra un concetto più ampio, storico e collettivo di essa e una definizione metafisica, più personale, posta in quello spazio individuale in cui il rifiuto ideologico coincide con la legittimazione del reato, della violazione della legge ad opera dell’agire umano. Lo scrittore algerino, cosciente della limitazione dei due poli, laddove il primo, pur ancorandosi al valore della Storia che sacrifica il singolo, non esclude la violenza, poneva una terza via, in medias res, un percorso intimamente intriso della saggezza della cultura mediterranea, in cui fondere realtà e forma alla ricerca di una giustizia relativa dentro un perenne assestamento di umani equilibri che non offre soluzioni stabili e definitive. Giocano molto su questa dicotomia e, più o meno esplicitamente, su una ricerca di un’alternativa entrambi i romanzi, sebbene sia più corretto sostenere che il libro di Barbini si presenta al lettore in una veste più realistica, quasi un documentario che si nutre della componente romanzata esclusivamente per quegli spazi lasciati vuoti e liberi dalla mancanza di informazioni sufficienti a ricostruire il percorso di Simòn Radowitzky, assoluto protagonista del titolo di Arkadia, passato alla storia per avere ucciso il colonnello Ramòn Falcòn, capo della polizia di Buenos Aires. Tito Barbini, anche attraverso la forma narrativa, compie un tentativo di superamento del possibile sguardo singolo rivolto alla vicenda, generando un punto di congiunzione in cui la spiegazione storicistica della medesima offre una metodologia che dal particolare volge all’universale senza dimenticare le peculiarità intime e personali di un’anima errante quale quella di Radowitzky. Nato tra il 1889 e 1891 da una famiglia ebrea in una cittadina situata vicino a Kiev, capitale dell’Ucraina, all’epoca sotto il dominio dell’impero zarista, incomincia sin da piccolo a conoscere la condizione dell’essere perseguitati per una disappartenenza a una dimensione generale e radicata intorno al nucleo accentratore del potere politico, per una diversità che passa dal riconoscimento di un’identità culturale e che, in quanto tale, viene identificata quale minaccia all’ordine costituito. Scrive Barbini: “Era ebreo nel sentimento, nella solitudine del pensiero anarchico, nell’eccezionalità, nella riservatezza, nel fatto di non potersi radicare da nessuna parte. Ma era ebreo come lo sono gli ebrei russi, che non si sentono uguali a quelli degli altri paesi perché hanno il senso della persecuzione profonda”. Vivace, intelligente, abile nelle costruzioni meccaniche, così ci viene descritto, Simòn è costretto ad abbandonare la scuola, nonostante dimostri propensione per gli studi, dovendo contribuire alle necessità di sostentamento familiare. Le urgenze legate alla sopravvivenza e l’avanzare della Storia nella forma violenta della parola pogrom, la devastazione letteralmente, in concreto l’enunciazione delle sommosse popolari rivolte contro la minoranza ebrea, rappresentano la fine dell’infanzia quale dimensione felice delle infinite possibilità e l’ingresso in un mondo adulto che, per essere legittimato, necessiterà di un passaggio ulteriore, una sorta di riaffermazione di un’anima del passato, in fondo la nostalgia di innocenza di cui scriveva Camus, che, rinnovata, potrà offrire l’illusione non perduta del tutto e il recupero dello spazio onirico nella forma più ampia di un mondo da cambiare. Non più ingenuo perché diventato “grande”, Simòn osserva la realtà con lo sguardo critico che la lettura, compagna fedele e assidua negli anni, gli garantisce e si muove tra rivolte e abbandoni, tra fughe e ricerca, in uno stato di coscienza che, pure aperto alla comprensione sottesa delle cose dallo studio e dall’esperienza, assurgerà a una rivendicazione di indipendenza estrema nelle forme anarchiche, collocandolo fuori da ogni dimensione politica organizzata in forme rigide e assolute. Simòn cerca se stesso all’interno di un mondo dentro cui fatica a riconoscersi introducendo inevitabilmente, col suo percorso, le premesse per un’adesione conseguenziale all’ipotesi rivoluzionaria: se tutto intorno crolla, se l’oggetto della nostra osservazione è mutato perché l’infanzia è volata via per ordine naturale delle cose, mentre dentro sentiamo che ne esiste traccia, non resta che non tradirla negli spazi liberi dal potere, dove l’illusione si traveste da futuro sognato, sperato nel gesto possibile di una rivoluzione di là da venire, ma necessariamente anche nostra. Dunque, cambiare il mondo e rivoluzionare sé stessi nel processo con cui non rinunciamo a sperimentare ciò che non conosciamo e attraverso di esso portiamo a galla, scopriamo, definiamo, circoscriviamo un ambito che sono i contorni degli uomini e delle donne che saremo in grado di generare, che avremo portato nel mondo, origine del primo movimento e spazio divenuto più simile a noi o, più realisticamente, trasformato nella clausola compromissoria sottoscritta per vivere ancora. Radowitzky si pone nel campo libero di una ricerca: colpevole di avere fabbricato artigianalmente la bomba che ucciderà il colonnello Falcòn (e Alberto Lartigau, suo segretario privato), responsabile della morte di centinaia di manifestanti scesi per difendere i diritti dei lavoratori in piazza a Buenos Aires, dove Simòn giunge in fuga dalle persecuzioni russe, finisce confinato a Ushuaia, nella Siberia argentina dove subisce ogni genere di violenza per uscirne solo nel 1930 per merito di un indulto da parte del presidente Yrigoyen. Storia complessa, dunque, che parte dalla Russia per giungere fino in Argentina, dove il tempo della detenzione diviene un tempo in qualche modo vissuto e mai subito non perché profondamente animato dalla convinzione di un futuro libero, ma perché trascorso nella coscienza della riconducibilità del gesto compiuto a uno stato di necessità, quasi in un’assenza di alternative pacifiche, nel rispetto di un processo di responsabilità rispetto a cui Simòn non cerca sconti. Non mancheranno i tentativi di fuga, ma saranno offerti dai compagni o dalla sorte, quasi non fosse ritornare ad essere libero, senza poterlo essere fino in fondo, la meta ultima, ma l’idea di avere contribuito a rendere il mondo fuori un posto più accogliente dentro un sogno avverato di una maternità esistenzialista in cui fondere il piano globale con quello intimo. Tornare ad essere libero, più esattamente tornare a muoversi nel mondo, conoscere l’amore sincero e complice di una donna e riprendere in mano l’infanzia perduta e mai tradita, reinventarsi fabbricante di giocattoli, tornare alle mani, non più per le meccaniche necessarie al sostentamento o per la messa in atto della potenza distruttiva di una bomba, la devastazione di risposta a quella originaria dei pogrom, ma per dare forma ai sogni dei bambini. Lì dove tutto è iniziato. La peculiarità di un personaggio storico come quello de Il fabbricante di giocattoli è nell’esser partito da un’origine di persecuzione e di dominio subìto per giungere a un approdo di sogno libertario più ampio attraverso una crescita che risponde a una ragione più alta, inseguita, cercata, lungo una serie di passaggi che si innestano su una base importante, ma anch’essa consolidata con la determinazione di chi sceglie di essere soggetto attivo della Storia. Diversa la condizione dei giovani protagonisti del romanzo Vittime di pace, dove lo stato di sospensione generato dalla guerra fredda che falcia ogni aspettativa, in un nulla incombente, genera un’altra forma di rivoluzione, dentro cui non cessa, però, di avere il suo ruolo la nostalgia di innocenza con cui abbiamo aperto la riflessione odierna. Il gruppo di giovani è sapientemente tracciato dallo scrittore greco attraverso l’individuazione primaria delle loro caratteristiche che consente di porre le premesse per seguirne l’evolversi in funzione di eventi che, nella loro dissonanza emotiva rispetto alle loro vite, quasi non avessero in esse alcuna cassa di risonanza, alludono all’origine e, forse, al senso di un’inquietudine che anima il romanzo sin dalle prime pagine, oltre le apparenze stantie (“Vivevamo una sorta di scompenso assoluto. Le mura della nostra città, di cui un tempo eravamo così fieri, ora torreggiavano spietate intorno a noi e ci stringevano dolorosamente nel loro abbraccio dentato. Unico nostro sollievo era di aver raggiunto, dopo tante sofferenze, una sorta di immunità. Non parlavamo, non piangevamo, non ce la prendevamo con la sorte. Avevamo guadagnato quell’impassibilità che, sotto la vernice della sopportazione, traspare nelle icone dei santi e nelle chiese, dove le cupole si chinano ad accogliere cristianamente l’insopportabile dolore umano.”). Parrebbero compiute le esistenze di questi giovani, ma ciascuno reca in sé un’insoddisfazione, un traguardo mancato, una ferita mai rimarginata, una caduta, un incidente. Eppure manca loro il desiderio, la forza del desiderio. Quasi la paura di una nuova guerra avesse prodotto la desertificazione di ogni forma di vita, anche solo nell’idea immaginativa di un futuro di là da venire. Non hanno speranze Andreas, Byron, Gheràssimos, Dimitris, Eftichios, Zissimos, Ilias, sebbene quest’ultimo con un accenno di eccezione potenzialmente salvifica: vivono il loro tempo in un’apatia alla quale Vassilikos ci introduce perfettamente attraverso la descrizione della neve che scende sulla città di Atene in un fermo immagine in cui tutto è ufficialmente sospeso, anche l’agire dei giovani protagonisti in un rispecchiamento esterno di un immobilismo che genera il movimento successivo, la loro rivoluzione metafisica, potremmo dire alla Camus, all’interno del libro e non legittima più al’inazione. Rubare la Nike di Samotracia, riportarla in patria, diventa la loro meta, quella per cui arrivare ad uccidere un uomo in un’ebbrezza emotiva che, sola, li scuote dall’apatia di un presente in cui domina “lo scompenso assoluto” della fine di un inizio felice, quasi la Storia e la vita in essa avessero negato loro il diritto a una felicità matura dentro il mondo. Il passato è in qualche modo presente, nella conoscenza acquisita e nella memoria, in un sogno di libertà incarnato dalla Nike da portare a casa, ma assume le liquide fattezze nostalgiche di un tempo perduto per sempre e accede nell’istante successivo, pertanto, ai territori più aspri dell’ira e della violenza confusi nella vitalità possibile di una rivoluzione personale in cui fare ordine nella Storia o, forse, solo nelle loro storie personali. Qualcuno, però, il desiderio non lo ha perso per sempre: Ilias sogna di scrivere quello che non c’è, quasi la letteratura fosse il rifugio ultimo degli ideali, quello in cui immaginare l’inesistente, quello che si nutre di quella porzione di inesistente in cui la potenza del divenire delle cose può ancora prendere tutte le strade e salvarci dalla fine. Esattamente come l’amore che giunge inaspettato su un treno e chiude capitoli esauriti e ne apre altri. Quelli di un’altra rivoluzione, l’unica rispetto a cui possiamo nutrire la speranza di riuscita, dove siamo noi e, non dimentichi del passato, congiungiamo i fili e sappiamo di non essere mossi da alcun burattinaio che non sia il nostro personale sensato stare al mondo.
Mindy
Il link alla recensione su Mork Mindy Ork: https://bit.ly/3hhHL8f