Gian Marco Griffi


“Racconto l’assurdo per apparecchiare la tavola alla realtà anzi, alla verità”

Gian Marco Griffi, direttore del golf club Margara ama scrivere e ha da poco pubblicato la gustosa raccolta di racconti “Inciampi”

Si presenta come «scrittore del lunedì» Gian Marco Griffi, perché è il giorno libero dal suo lavoro di direttore del golf club Margara. Dopo il romanzo «Più segreti degli angeli sono i suicidi» (Bookabook, 2017) ha pubblicato i racconti «Inciampi» (Arkadia). Recentemente ne ha parlato in un incontro con il giornalista Carlo Francesco Conti alla libreria Marchia Mondadori.

I mestieri della scrittura sono tra quelli che generano maggiormente nevrosi e conseguenti gastriti. Spesso con la letteratura non generano neppure profitto. Quindi, chi glielo l’ha fatto fare?

«Io scrivo e mi diverto. Per me la scrittura è una passione, un hobby, e per vivere ho un lavoro vero. Quindi niente nevrosi e niente gastriti (causate dalle scrittura – quelle me le procura il mio lavoro vero, come a tutti)».

Quando ha cominciato?

«Da piccolo, facendo dei fumetti. Però i disegni erano proprio brutti, così ho continuato a scrivere senza disegnare».

Proviamo un po’ a raccontare com’è l’officina letteraria Griffi. Come scrivi, come sceglie le sue storie?

«Ormai scrivo ovunque, in qualunque modo. Nello studio a casa, al bar, ma anche su telefono accostando mentre guido e in altri momenti stravaganti. Mentre sto scrivendo una storia le idee mi vengono in qualunque momento, e bisogna catturarle prima che si può (anche se, a dire il vero, quando un’idea è buona ti resta addosso anche senza bisogna di prenderne nota). Per quanto riguarda le mie storie, nascono osservando le persone che camminano per strada, che chiacchierano al bar, che fanno le loro cose da persone. Soffermandosi a osservare gli altri si scopre una quantità di storie possibili impressionante».

Jean Paulhan in “I fiori di Torbes” per parlare della letteratura utilizza la metafora dei giardini pubblici. Spiega che a Torbes, si legge: “Vietato entrare con mazzi di fiori in mano”, per indicare che uscire con fiori dai giardini può significare averli rubati. In letteratura, aver usato cliché. La parodia è il suo vaccino nei confronti dei cliché?

«I cliché in scrittura sono il male assoluto. Se vogliamo, la parodia è un modo alquanto elegante e furbo per aggirarli, ma in realtà non è questo lo scopo della parodia per me. Innanzitutto, per parodiare qualunque cosa, occorre essere in grado di reggere il confronto con l’originale, e questa è una delle cose più difficili. Per parodiare la Commedia di Dante bisognerebbe essere capaci di scrivere come Dante, e questa è una delle ragioni per cui qualunque forma di parodia di Dante è destinata all’insuccesso. Naturalmente questo vale anche con altri grandi autori; nel mio modo di intendere la scrittura, la parodia ha una doppia funzione: da una parte vuole essere una sorta di omaggio, dall’altra un modo per aggirare la tesi secondo la quale “tutto è già stato scritto”: naturalmente non è così, altrimenti potremmo fermarci ai poemi omerici, dove c’è già tutto. La scrittura, il modo nel quale si racconta una storia, fa sempre la differenza, e permette di raccontare la stessa storia in mille modi diversi. Per questo la letteratura non esaurirà mai il suo valore e la sua funzione di indagine sull’essere umano».

Sia in “Più segreti degli angeli sono i suicidi”, sia in “Inciampi” si nota una motivazione esistenzialista, evidenziata dalla sua prospettiva nell’evocare l’assurdo (che alcuni trovano bizzarro). Da cosa ha origine? Che cosa la spinge a cercare l’assurdo nella realtà o a costruirlo (come nella storiella delle lucciole in Monferrato)?

«L’assurdo è il mio modo di comunicare il disagio, il male, l’angoscia. Mi sembra che nell’ambito dell’assurdo si riesca a osservare la realtà, quasi mi verrebbe da dire la verità, di certi frangenti dell’esistenza che altrimenti sarebbero offuscati. Costruire l’assurdo è apparecchiare la tavola per questo genere di osservazione; si riesce a mantenere le distanze, a focalizzare meglio un concetto o un punto di vista e nello stesso tempo a distanziarsene, a trovare un approccio più oggettivo. Per me lo scrittore, ancor prima di essere un individuo che tenta di conoscere se stesso (cosa certamente vera), deve riuscire a raccontare una storia dal di fuori, senza contaminazioni personali che spesso fanno scadere il racconto».

Come è stato scelto il titolo “Inciampi”?

«A differenza del mio primo libro, che avrebbe potuto intitolarsi “Cadute rovinose senza possibilità di rialzarsi”, in questi racconti si intuisce una luce, una possibilità di redenzione, di una vita migliore, di qualcosa di buono. Da qui gli inciampi, brevi cadute da cui poi ci si può rialzare».

A proposito di “Più segreti degli angeli sono i suicidi” c’è chi ha evocato uno dei numi della letteratura postmoderna, Barthelme. Invece nella sua scrittura appare una volontà di superare il postmoderno, ammesso che se ne possa ancora parlare, sia nel romanzo che nei racconti. La sua idea?

«Sì, è così. Nel senso che i miei tentativi vanno in quella direzione. Il postmoderno è stato un momento divertente nella storia della letteratura, ma oggi non ha più senso, se considerato come unico scopo della scrittura. Ma la letteratura non distrugge ciò che è stato, lo ingloba, lo trasforma, lo arricchisce o lo diminuisce, trovando una nuova collocazione; in questo senso ho fatto tesoro del postmoderno e mi spupazzo a mio piacimento talune forme e taluni modi di scrivere postmoderni nel mio “stile”».  

Nella postilla a “Inciampi” lei ringrazia “Tutti i poeti del mondo, vivi e morti, avrei voluto essere uno di voi. Tutti”. Come influisce la poesia sulla sua scrittura? Come è giunto alla scelta del racconto, dimensione in cui si muove in modo ottimale? Quali sono i suoi poeti di riferimento?

«La poesia è una mia grande passione. C’è stato un periodo nel quale credevo che il mio mezzo di comunicazione fosse la poesia. Mi sono reso conto che non era così. Il racconto, viceversa, per me è ideale perché mi permette di inglobare elementi tipici della poesia e elementi della prosa; è perfetto per il mio tipo di scrittura, che è ramificato, non si fossilizza in un unico modo di narrare. Ogni storia pretende un suo tipo di scrittura, un suo linguaggio particolare, e il racconto permette di spostare l’attenzione su più fattori contemporaneamente, non nell’ambito dello stesso racconto, ma certamente nell’ambito di una raccolta di racconti, benché scritta per essere quanto più possibile omogenea (e infatti in Inciampi i personaggi sono ricorrenti, le storie si intrecciano). Un altro modo per dirla è: quando racconto una storia non sono un maratoneta, sono un centometrista, al massimo posso correre i quattrocento metri; in questo spazio e in questo tempo sento di dare il meglio della mia scrittura.  I miei poeti di riferimento sono tantissimi. Leggo e rileggo Eliot, per esempio, o Dylan Thomas. Ma il mio amore incondizionato va specialmente agli italiani, se non altro per una questione linguistica, per il mio grande amore per la lingua italiana, e quindi Zanzotto, Milo De Angelis, Raboni, Sanguineti e tanti altri».

Che effetto fa aver ispirato il conio del termine «virgola onnivalente»?

«Questa è un’espressione coniata dal (bravo) Mauro Maraschi nella recensione di “Inciampi” su L’Indice dei libri del mese, e riesco a comprenderne il significato, quello sì, ma più ci rifletto più mi rendo conto che è un’espressione che può voler dire tutto e niente. Comunque, basandomi sull’intuizione immediata dell’espressione “virgola onnivalente”, cioè una virgola utilizzata per mille scopi diversi nell’ambito della narrazione, ho utilizzato la virgola in questo modo perché sono convinto che le voci della narrazione ne emergano arricchite; naturalmente una delle questioni tecniche che più mi premeva approfondire nei racconti di Inciampi era il ritmo. Inciampi, almeno nella sua prima parte, “Notizie dalle colline”, è un’epica minima della narrazione orale. Per questo i racconti si intitolano tutti, o quasi tutti, “Storiella di”, è come se ci incontrassimo al bar, o per strada, e ti dicessi senti questa: e via con la storiella. Questo volevo fare con i racconti di Inciampi. E allora, i dialoghi, in questi racconti i dialoghi sono stati integrati nella narrazione, fusi insieme, in modo che quasi non si distingue la narrazione dal dialogo. Perché quando uno ti racconta una storiella mica si ferma per andare a capo, mica mette i due punti, mica mette i caporali. No, parla e parla e parla, racconta a ruota libera. Ogni tanto prende fiato, ci va una virgola, ogni tanto gesticola, ci va un’altra virgola, ogni tanto beve un sorso di amaro, ci va un punto e virgola, ogni tanto si scusa, va in bagno a pisciare e poi torna, ci va un punto, poi torna e attacca a raccontare un’altra cosa, o la stessa cosa ma da un’altra prospettiva, ci va un punto e a capo. Rendere questa oralità, in un racconto, è difficilissimo, mi pare, giacché il racconto orale è quello scritto, anche se lo scritto effettua una mimesi dell’orale sono due mondi completamente distinti. Lo scritto allora deve fingere di essere orale, e per farlo ha bisogno di un sacco di artifici, tantissimi davvero, per fare in modo che il lettore percepisca il racconto nel modo giusto. La virgola, onnivalente o non onnivalente, diventa un’arma fondamentale. È evidente che il risultato può essere ottimo oppure un vero schifo, dipende dalla padronanza che chi ha scritto il racconto ha delle armi a propria disposizione. E ancora, il risultato, per quanto ottimo, può risultare cacofonico al lettore, oppure può fare l’effetto appiattimento delle voci, e la tua domanda mi fa pensare che a te o a chissà chi possa aver fatto questo effetto qui. Pazienza. Sono ben cosciente che ci sono stili di scrittura che non vadano a genio ad alcuni, se volessi scrivere con lo stile piatto tipico di molte narrazioni, quello che piace a tutti e a nessuno, scriverei così, ma poi smetterei subito, perché per me la scrittura è prima di tutto approfondimento e ricerca sul linguaggio, e per linguaggio ovviamente intendo anche i segni di interpunzione, il parlato, il dialettale, e tutto questo mondo magnifico che è la lingua italiana».

Sul web (malgradolemoscherivista.wordpress.com) si può leggere la sua «Storiella degli impiccati». E’ un contraltare della «Storiella del sonno» e di «Insetti dalla Russia»? Come mai non compare in «Inciampi»?

«Purtroppo l’editoria ha regole che vanno oltre la volontà di chi scrive. “Storiella degli impiccati” è un racconto piuttosto lungo, e non c’era spazio. Però è giusto: nella “Storiella del sonno” un contadino di un piccolo paese del Monferrato (sono tutti piccoli paesi, quelli del Monferrato) viene gettato nel mezzo di una guerra della quale non conosce le ragioni, come quasi tutti i ‘soldati’ improvvisati della prima guerra mondiale, e reagisce a questa condizione estrema maturando una forma di letargia, di narcolessia, che non è una condizione patologica, non c’è medicina che possa guarirlo, è una condizione dell’anima, una reazione a quanto gli accade intorno. Nella “Storiella degli impiccati”, per contro, due soldati (questa volta siamo nella seconda guerra mondiale), decidono di disertare e iniziano un viaggio donchisciottesco che li condurrà a una fine già scritta, perché purtroppo la nostra società, da sempre, perdona tutto tranne l’ingenuità, la purezza, la voglia di cambiare le cose. Queste cose non sono ammissibili».

Marco Filoni fa notare: “Ci sono anche parole ambigue, disabitate, che possono diventare ostacoli, nei quali perfino i migliori narratori, prima o poi, finiscono per inciampare”. Quali sono queste parole per lei?

«Su questa domanda potrei scrivere sessanta racconti, e già sono ben oltre lo spazio concessomi».

Dopo gli “Inciampi”, cadute o balzi?

Balzi, sicuramente. Dedicati a Dante (mio figlio di un anno, non quell’altro).



Gli inciampi della vita tra lucciole. bialberi autodifettose e sidecar

Il nuovo libro di Gian Marco Griffi, una raccolta di racconti ironibi, poetici, con punte di virtuosismo

Un malcostume tipico delle patrie lettere è quello di relegare il racconto tra i generi minori e non dargli la stessa importanza del romanzo. Di conseguenza l’autore di racconti rischia di passare inosservato, non degno di attenzione. Questa convinzione è purtroppo alimentata, in deteriore circolo vizioso, sia dagli editori sia dai lettori. Il risultato è che in tal modo si rischia di perdere bei libri, pensando infondatamente che la letteratura sia altrove.

L’anima dello scrittore

Il preambolo serve per cercare di allontanare il pregiudizio nei confronti del racconto almeno davanti al nuovo libro di Gian Marco Griffi, «Inciampi» (Arkadia Editore, Cagliari, 228 pag., 16 euro) che di racconti ne propone ben più rispetto ai 15 titoli nell’indice. «Tutte le riviste della mia vita» di fatto è un romanzo breve costituito da una cornice (il taccuino di un autore di reportage per le riviste più assurde di questo mondo) che racchiude una vera prova di bravura, ovvero un racconto per ciascuna rivista, con temi e stili completamente differenti l’uno dall’altro, con punte di virtuosismo come nei testi ispirati a Gadda e Bolaño. È qualcosa che si era già trovato nel primo libri di Griffi «Più segreti degli angeli sono i suicidi» (pubblicato due anni fa da Bookabook).
Questa però non è la cifra principale della scrittura di Griffi. Fa parte della sua formazione, un lungo apprendistato nutrito da letture forti e orientato da una forte curiosità. È una delle poche concessioni a una «letterarietà» che aggiunge piacere alla lettura, ma che non nasconde mai il fatto che Griffi è uno scrittore in ogni sua cellula. Ciò che fa non è mostrare che sa scrivere, bensì trovare delle storie che ti prendono per il collo e non ti lasciano fino all’ultima parola.

Scherzi dell’esistenza

A differenza del romanzo, la trasfigurazione surreale in questi racconti è parziale. Griffi non rinuncia a trasformare alcuni eventi o personaggi in chiave grottesca o onirica (come il felliniano «Un sogno col mal di sidecar», con la gustosa allegoria delle case editrici) ma l’ordito della narrazione è legato a luoghi, personaggi e vicende reali, a partire dall’alluvione del 1994, o l’ironica insistenza sul «bialbero della felicità», o il terremoto in Irpinia. Il suo Monferrato (Griffi ha vissuto a lungo a Montemagno, dove ha ideato l’hemingwayano bar «Un posto pulito illuminato bene», dove ha scritto anche alcune pagine di questo libro) anche se assume dimensioni mitiche o fantastiche, è quello che conosciamo.
Ciò che Griffi propone è altro, come indicato dal titolo: sono gli inciampi dell’esistenza, scherzi del destino che ti fanno incontrare un tasso morente sul ciglio della strada, una guerra mondiale in cui diventare narcolettici oppure entomologi improvvisati, oppure improbabili scienziati del Cnr che fanno esperimenti gravitazionali con le lucciole, oppure malattie terminali o indisposizioni momentanee, oppure piccoli imbrogli da social media per rimediare una serata a letto o la morte di un amico che spinge una combriccola fino in Bielorussia. Anche in «Le riviste della mia vita» i racconti gravitano su qualcosa che causa un sussulto sul cammino esistenziale, che sia una calamità illustrata o una delicata favola paurosa per bambini, una parabola horror alla Stephen King o una storiella morale sull’invidia irrefrenabile di uno scrittore, un miracolo disastroso o una spia accesa sul cruscotto che diventa metafora della vita stessa.
Griffi è uno scrittore che vorrebbe essere poeta (tra i dedicatari della raccolta ci sono «Tutti i poeti del mondo, vivi e morti; avrei voluto essere uno di voi. Tutti») e tuttavia riesce a esserlo in innumerevoli passi di ciascun racconto, e in particolare nella Storiellla delle cartoline, che può richiamare alla memoria i modi dell’«école du regard», ma imbocca presto un’altra direzione arrivando senza fatica nelle regioni della poesia.

Scuola di vita

Tutti gli inciampi vengono raccontati da Griffi con ironia, talvolta autoironia, anche un po’ di sarcasmo. È il necessario distacco per non cadere nel patetico, per non lasciarsi travolgere dall’ostacolo. Traballare, annaspare magari, ma non cadere. È un modo per trarre lezione dagli accadimenti, anche quelli che toccano più nel profondo e lasciano tracce indelebili. Non necessariamente una «morale», ma la presa d’atto di una realtà che può apparire assurda. E che, dopotutto, vale la pensa di essere raccontata.

 

Carlo Francesco Conti



Gian Marco Griffi

INCIAMPI

Arkadia nasce a Cagliari nel 2009 dall’incontro tra Riccardo Mostallino Murgia e altri professionisti del mondo della comunicazione. L’anima della casa editrice è subito divisa tra saggistica e narrativa, legate da un’attenzione al territorio sardo e alla sua cultura, ma “con lo sguardo sempre rivolto verso il mondo”. Presente ai principali saloni del libro, negli ultimi anni Arkadia sta conquistando maggiore visibilità grazie anche a diverse scelte felici: Fratello minore. Sorte, amori e pagine di Peter B. di Stefano Zangrando è stato finalista allo European Union Prize for Literature 2019, mentre L’ambasciatore delle foreste di Paolo Ciampi è stato tra i candidati al Premio Strega. Per quanto riguarda la saggistica, una delle collane di punta è Historica Paperbacks: “Un viaggio nel tempo che spazia dallo studio della civiltà nuragica a quello della religione dell’Antica Roma e della diffusione del Cristianesimo nell’impero romano, dalla Spagna Visigota alla Battaglia della Meloria, fino alle vicende della Prima Guerra Mondiale”. Per la narrativa, a parte la collana madre Eclypse, vanno segnalate Xaimaca, dedicata alla letteratura ispanoamericana (ospita Eugenio Cambaceres, César Vallejo e Ricardo Guiraldes) e Senza rotta, dedicata alla narrativa di viaggio. Nel 2019 si è aggiunta SideKar, diretta da Ivana e Mariela Peritore e nata “con l’intento di ospitare autori che si potrebbero definire outsider”. Da Stato di famiglia, di Alessandro Zannoni (autore amato da Luigi Bernardi), ai racconti di A pelle scoperta di Francesca Piovesan, “il viaggio della collana è all’insegna di una scrittura trasversale, e appartenente a differenti generi, che fa dell’originalità e della ricerca il suo tratto distintivo”.

Inciampi di Gian Marco Griffi (Alessandria, 1976) corrisponde a questa definizione. Già al suo esordio, Più segreti degli angeli sono i suicidi (Bookabook, 2017), Griffi aveva dimostrato consapevolezza, riconoscibilità e originalità nei temi, nelle trame e nell’immaginario: in Inciampi queste caratteristiche tornano potenziate. Pur confermando ambientazioni e toni, l’autore ha quasi cambiato stile: da densa e lineare che era, la prosa si è spostata verso flussi di testo più sperimentali e dominati dalla virgola onnivalente, una formula che può ricordare Nori o Bernhard, e che produce simili effetti comici. Di norma, l’applicazione di questa modalità a tutte le voci narranti di una raccolta comporta che le voci tendano a somigliarsi (minando la sospensione dell’incredulità) e a dispensare riferimenti culturali più idonei a un narratore onnisciente; Griffi, però, sa gestire la sua materia, e con esiti spesso sorprendenti.
L’incipit del primo racconto è forte quanto sgradevole: “Suppongo che una donna possa reagire in molti modi alla nefasta notizia che annuncia un cancro al seno, non so, ma so che Alma reagì maturando un inconsueto desiderio sessuale, e che lo appagò facendo l’amore con ogni uomo il cui odore le andasse a genio”. Griffi apre con intenzionale cattivo gusto, ben determinato a disturbare il lettore, ma basta procedere affinché la mortificazione di un dramma si trasformi in tutt’altro, con sottotrame squallide quanto tenere (Delmo), per poi passare alla commozione (il personaggio del figlio di Alma è notevole) e concludersi con un siparietto tragicomico. Fin qui si potrebbe sentire l’eco di un raccontista italiano doc come Paolo Zardi, spesso incline a raccontare sardonicamente il male. Ma Griffi dà il meglio di sé nel secondo pezzo, come ogni volta che parla di animali (già fondamentali in “Più segreti”): forse non tutti si commuoverebbero davanti a un tasso moribondo, ma in questo caso è difficile non rimanere invischiati in dinamiche emotive inattese. Il passaggio che segue, autonomo quanto un micro-racconto, esemplifica il controllo e la tecnica dell’autore: “Bruno mi ha guardato e ha detto che ero una mezzasega, io l’ho guardato e gli ho detto non capisco cosa mi succede, non ho pianto neppure al funerale di mio padre, lui ha detto no, ma avresti dovuto, io ho detto sì, avrei dovuto, lui mi ha strappato il fucile di mano e l’ha puntato sulla testa del tasso, io mi sono tappato le orecchie e ho chiuso gli occhi, ho sentito che diceva fanculo, ha sputato e ha messo il fucile in terra, io gli ho detto che era una mezzasega, lui ha detto che gli sembrava di sparare a mio padre, io ho chiesto che cosa c’entrava mio padre, lui ha detto c’entra, cristo, ne abbiamo appena parlato, poi ha guardato il tasso e si è messo a piangere anche lui”.
Il terzo racconto, Una storiella post-sismica, richiama la tecnica del cannibale Galiazzo, e stupisce il lettore spostando l’inquadratura da un dramma universale all’epopea di un individuo che non ha lo stomaco per affrontarlo (anche se il genio si rivela nella sottotrama “morire di buio”). I racconti che seguono, per quanto sempre brillanti, ben scritti e originali, lasciano spesso l’impressione che manchi un passo alla quadratura. Storiella delle lucciole in Monferrato è intelligente e sagace nei limiti di una parabola sull’italianità. Suggestivo ed elegante, Insetti dalla Russia sarebbe un gioiello se non mancasse di finalità. Cipolla cafè, su un club virtuale per persone con l’alluce valgo, devia verso un equilibrato umorismo demenziale, risolvendosi però nei territori di un monologo d’autore. L’appassionante e ipnotico Storiella del sonno, parodia di Mattatoio N°5, racconta il dramma della guerra da un punto di vista inedito, senza riuscire a concludersi quando dovrebbe. Forse questi racconti sono troppo buoni, carichi e creativi per una sola antologia: la scrittura di Griffi è talmente vivida e libera dai cliché che viene voglia di scoprire cosa produrrebbe tanto talento se applicato a un romanzo. Non c’è dubbio che quando Griffi si dedicherà a un lavoro lungo e strutturato, accettando un compromesso tra autorialità e convenzione, a quel punto ci troveremo di fronte a un autore compiuto. Nell’attesa, Inciampi va letto da chiunque preferisca l’arte pulsante all’impersonale efficacia dei racconti minimalisti.

Mauro Maraschi



Inciampare lungo il percorso di Gian Marco Griffi

Mi chiamo Remo, pulisco i bagni al Mercato Coperto di Asti e ho creato un profilo su Facebook per potermi conseguentemente iscrivere a un gruppo Facebook per gente che ha l’alluce valgo, anche se non ho l’alluce valgo. Spiego: il mio amico Bruno (su Facebook si chiama Brad Pittbull, anche se è brutto come il peccato e odia i cani) è iscritto a Cipolla Cafè da quattro mesi e dice che le donne con l’alluce valgo hanno una voglia di scopare pazzesca. Poiché io, come Bruno, ho una voglia di scopare pazzesca, ho inviato la richiesta di iscrizione a Cipolla Cafè. (p.87)

Immaginate di essere in macchina con un amico: siete partiti da Roma, Napoli, Pisa diretti verso la Svizzera o da qualche altra parte in Piemonte, e a un certo punto decidete di fermarvi a un autogrill. Mentre il vostro amico va in bagno e voi state prendendo un caffè al bar, un tizio attacca bottone. Parlando del più e del meno, dopo avergli spiegato il motivo del vostro viaggio, l’uomo comincia a raccontarvi una storia, un aneddoto, qualcosa che è capitato non proprio a lui ma a un suo conoscente tempo fa, e che è successa da quelle parti, nella zona del Monferrato anche se non dove siete adesso bensì in una cittadina dal nome particolare ed evocativo, o forse no, era da un’altra parte ancora. È una storia senza senso, che comincia con delle persone che neanche conoscete ‒ Fausto, Bruno, Carlo, figure che nella vostra testa non hanno forma o dimensioni ‒ e terminano con una poesia dedicata a un tasso morto, con un’uscita a quattro che comprende due amici che fanno finta di avere l’alluce valgo e due donne che hanno veramente l’alluce valgo, o infine con una cittadina della Bielorussia, davanti alla casa di una donna sconosciuta ma che in teoria era la ragazza di un amico di un amico del vostro interlocutore, da poco deceduto.
Immaginate che la storia che il tizio davanti a voi sta raccontando sia farcita di intercalare piemontese, che quell’uomo abbia una mitraglia al posto della lingua e tiri fuori luoghi, persone, eventi senza un preciso nesso, che la storia devii qua e là come un ubriaco appena uscito dal bar, e che nel mentre vi siate distratti perché obiettivamente quello che state ascoltando vi suona assurdo.
Immaginate infine che il vostro amico ritorni dal bagno mentre la storia è sul finire, in quell’interregno fra la conclusione e le successive spiegazioni del motivo che hanno portato a raccontarla, e vi costringa ad alzarvi per rimettervi in marcia perché è veramente tardi. E voi salutate l’uomo, lo ringraziate (?) e tornate alla guida. Usciti dall’autogrill vi chiedete cosa è appena successo, chi diamine fossero Fausto, Bruno e Carlo, cosa c’entrassero il Cipolla Cafè e Umberto Tozzi, se per caso non abbiate bevuto del caffè corretto con troppa grappa.
Ecco, leggendo Inciampi di Griffi questa è la sensazione che si mantiene salda nella propria mente a ogni fine racconto. Le storie, poco credibili quando non addirittura surreali, iniziano e finiscono senza un perché, come se il narratore parlasse per il puro gusto di parlasse. Le trame dei racconti non sembrano essere l’elemento centrale della narrazione: quello che appare come un gioco auto alimentato ha come fulcro nodale l’atto stesso del raccontare. Raccontare qualsiasi cosa ‒ accaduta o meno è indifferente, verosimile o meno ancor più irrilevante ‒ nella forma più variegata, basta che sia possibile proseguire, e vadano a farsi benedire i temi, i messaggi, i racconti edificanti, le regole stesse della lingua.
Gli inciampi linguistici di Griffi sono qualcosa di indefinito, a metà fra la parodia del nostro mondo e un divertissement fine a sé stesso, che nessun senso ha se non quello di andare oltre e proseguire nella narrazione stessa. Chi approccia questo testo con l’idea di seguire un filo logico e una trama solida resterà deluso; chi invece gli si avvicina con l’intento di esplorare le possibilità e i confini della lingua italiana, di sperimentare diversi stili letterari e mettersi in gioco superando la propria concezione sull’uso della punteggiatura, troverà nel secondo testo della collana SideKar di Arkadia una sfida notevole, soprattutto nella sezione “Tutte le riviste della mia vita”, nella quale l’autore si diverte a gettarsi a capofitto nei diversi stili di scrittura, e a gettarvi anche il lettore, senza peraltro fornirgli una bussola durante la navigazione nelle acque nere.
Il che non vuol dire necessariamente qualcosa di soddisfacente, anzi: la soddisfazione nella lettura di Griffi è qualcosa che sembra essere sempre qualcosa di là da venire, un bagliore visibile ma lontano e pertanto inavvicinabile. Il titolo della raccolta è in questo senso adeguato: è come quando si cammina per conto proprio e si inciampa su una radice non vista. In quell’attimo di spaesamento e di vuoto, quando tutto il corpo si protende per un antico istinto di conservazione per evitare la caduta, sta il senso di questa lettura.

David Valentini



Gian Marco Griffi, INCIAMPI

Gian Marco Griffi è uno scrittore geniale, ignorato dalle case editrici maggiori. Il suo primo libro, Più segreti degli angeli sono i suicidi, uscì nel 2017 per Bookabook. Il secondo, Inciampi, è uscito ai primi d’estate 2019 per Arkadia. Griffi è un narratore tra il sovrabbondante e il torrenziale; un nipotino di Gadda, ma di quelli buoni; in Inciampi racconta storie di paese e di campagna da fare invidia a Stefano Benni o a Giovannino Guareschi – ma con una lingua, con una lingua!… Splendido.

Giulio Mozzi



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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