“LA VITA CI FA TROVARE IL NOSTRO POSTO IN PIEDI, SCOMODO PER TUTTI”. IL ROMANZO NERO DI FRANZ KRAUSPENHAAR, IN UNA MILANO LIVIDA E OSCURA, CHE PARE ESTRATTA DA “BLADE RUNNER”
Il ricco industriale Rossano Tommei si sveglia, entra in bagno e al posto della saponetta trova il cellulare della moglie Daniela. È già lì, nella prima scena, in quell’oggetto al posto sbagliato, quel senso di straniamento che accompagna dall’inizio alla fine La presenza e l’assenza di Franz Krauspenhaar, edito da Arkadia, collana Sidekar. Un romanzo incalzante, disperato, malinconico, a tratti grottesco, che prende spunto dal genere noir per raccontare il genere umano. È evidente che Daniela si era chiusa in bagno per parlare di nascosto con qualcuno, ma con chi? Tommei cerca l’ultima chiamata e si annota il numero. Un amante? Ma a quel numero non risponde nessuno. Poco dopo, la più feroce delle assenze: Daniela scompare nel nulla.
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Tommei a quel punto assumerà un investigatore privato, Guido Cravat, trovato per caso sulle pagine gialle elettroniche. Un moderno Philip Marlowe, uno che ha lasciato la polizia perché, una buona volta, vuole fare i soldi onestamente, e che si autodefinisce imprenditore della propria rovina. Un uomo sempre fuori posto, proprio come quel cellulare sul portasapone, che dopo un amore finito male e una lunga serie di situazioni sbagliate ha una tale fiducia nel prossimo da considerare gli assegni tutti a vuoto per principio. Eppure, lo scopriremo nel corso della narrazione, conserva ancora slanci di sentimento e momenti di profonda umanità.
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Cravat è io narrante, si alterna alla terza persona del narratore e spesso trasforma l’“io” in “tu”, rivolgendosi a un misterioso interlocutore, forse un fratello o un amico perduto, o semplicemente un’altra parte di sé. Di presenze-assenze, Cravat se ne porta dentro tante. Prima di tutto Francesca, la donna che amava e che ha sposato un altro – un altro poliziotto, per ulteriore beffa – e poi quel senso perduto di giustizia che l’aveva portato, tanti anni prima, a entrare in polizia per raddrizzare i torti, pulire la spazzatura, governare l’ingovernabile. In più lo accompagna un’entità non meglio definita, che chiama proprio “la presenza”: una specie di fantasma che lo visita di tanto in tanto, specie mentre è in macchina, e lo fa sentire tassista di un’anima in pena.
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Molti elementi ci fanno quindi presagire che non ci troviamo in un poliziesco deduttivo, e nessuno Sherlock Holmes rimetterà insieme tutti i pezzi del puzzle con la sola logica, salvando i buoni e assicurando i cattivi alla giustizia. Anche perché buoni e cattivi, in questa storia, sono davvero difficili da distinguere. Il requiem per il romanzo giallo positivista è già stato cantato da tempo e ora predominano il caso e il caos, negli accadimenti come nelle azioni dei personaggi, spesso irrazionali e istintive, come sono di frequente i comportamenti umani.
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Tipicamente impulsiva, ma destinata a innescare una notevole catena di eventi, è ad esempio la decisione di Rossano Tommei di togliere quasi subito il caso a Cravat e affidarlo a un altro investigatore, Dino Saluzzi, un figlio unico di madre vedova mai davvero cresciuto, incline alla violenza, privo di affetti. Uno che per il denaro era capace di uccidere due volte. Cravat però, per cui il denaro è importante ma non è tutto, continuerà a indagare ugualmente, anche gratis. Per noia, per ripicca, per voglia di avventura, persino, a un certo punto, per inseguire la speranza di un nuovo amore.
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La sfida tra Cravat e Saluzzi non è solo tra due metodi investigativi, ma tra due concezioni dell’etica. Mentre Cravat, pur compiendo azioni moralmente discutibili o addirittura illecite, ha ancora un’etica personale, una dimensione umana, Saluzzi si mostra completamente amorale e privo di ogni empatia. Di fianco a loro si muovono gli altri personaggi, lo sfuggente e grigio Tommei, la sua bella e devota segretaria Carla, capelli fulvi e occhi da leopardo, l’informatore detto “la grande scrofa”, parrucca rosso fuoco e centocinquanta chili di omosessualità dichiarata, l’ambiguo Gemmò, avvocato di grido con la faccia da urlo di Munch, e tutti insieme, ognuno con i propri peccati e le proprie nevrosi – tra cui particolarmente rilevante e ricorrente il complesso edipico – tingono il noir di altri colori, raccontano tutte le declinazioni dell’animo umano e dei suoi abissi.
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Lo stile è il più grande punto di forza, scorrevole sì, ma non come un lungo fiume tranquillo, più come un torrente ricco di cascate e mulinelli, a tratti un fiume in piena, un treno in corsa che sbatte sui binari e non deraglia, ricco di metafore, giochi di parole inconsueti e guizzi d’ironia. Uno degli esempi più riusciti di quell’uso funambolico della lingua che i lettori di Krauspenhaar già conoscono bene. Lo sfondo è una Milano decadente, non più da bere, forse nemmeno da fumare – e infatti Cravat ha smesso – ma potrebbe essere qualsiasi odierna metropoli. Bagnata da una pioggia battente, che di continuo la lava e di nuovo la sporca, ricorda a tratti la Los Angeles distopica di Blade Runner, e anche Cravat a suo modo è un cacciatore di replicanti, tutti ignari di quanto avranno ancora da vivere.
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Ma il vero filo conduttore non è fatto di pioggia, quanto di fumo. La nostalgia di Cravat per la nicotina accompagna la storia e si fonde con tutti gli altri suoi più nobili rimpianti: l’onestà, la giovinezza, l’amore. E lo sa fin dall’inizio, Cravat, che finirà per cedere, che prima o poi smetterà di smettere. Resisterà per centoventisei pagine, poi deciderà che si vive e si muore una volta sola e sprofonderà di nuovo nel suo vizio preferito. Proprio in quel momento il mistero sembrerà dipanarsi, per riavvolgersi poco dopo in una più fitta coltre di fumo.
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È qui che più che mai il romanzo da noir si fa esistenziale, tanto da riportare alla memoria l’archetipo di tutti gli antieroi, Zeno Cosini. Ma se per il protagonista del romanzo di Svevo l’Ultima Sigaretta ha un gusto più intenso proprio perché è l’ultima, e l’intento sempre tradito ne aumenta il piacere, Cravat trova in quella nuova prima sigaretta, fumata in completo abbandono, senza promesse né alti propositi, una consapevole sconfitta ma anche un nuovo slancio vitale. Oltre tutte le disillusioni, vuole ancora vivere.
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Di seguito un estratto.
“Esiste un mestiere che non sia duro? Un mestiere molle? O perlomeno croccante? No che non esiste. La vita ci fa trovare il nostro posto in piedi, scomodo per tutti. Coloro i quali hanno il privilegio di trovare i rari posti a sedere devono poi vedersela con le responsabilità. La comodità costa. La tribuna centrale costa. La prima fila costa. […] Così questo Rossano Tommei – ho fatto subito le mie ricerche – è un cosiddetto uomo di successo. Chi è un uomo di successo? Un uomo che s’illude di vivere una vita diversa. Diversa dalla maggioranza. Una vita alta. Seduta comodamente ma alta. Anzi eretta. Una vita in erezione. Il cazzo duro perenne della vita. Il priapismo dell’uomo di successo. L’uomo di successo è un illuso, perché il successo non esiste. Non è mai successo. Il successo è l’estrema illusione prima dell’estrema unzione. Il membro rimane eretto, ma è solo rigor mortis.”
Viviana Viviani