“La collagista”, vita in bilico di una donna in fuga dal passato Ritorna Francesca Mazzucato
Un mistero che si svela seguendo l’inquietudine della protagonista, tra luoghi provvisori, camere d’albergo, oscure brasserie, conversazioni con sconosciuti
Pubblichiamo un brano dal nuovo romanzo di Francesca Mazzucato, pubblicato dalla casa editrice cagliaritana Arkadia.
* * *di FRANCESCA MAZZUCATO
Mi chiamo F. e sono una collagista. Non c’è molto altro da dire. Da anni cerco di scrollarmi via ogni identità. Sono italiana, abito a Parigi e vivo nell’albergo più economico che ho trovato, dopo averne cambiati almeno cinque, in una strada-capolavoro, la rue d’Avron. Qualsiasi artista dovrebbe conoscerla: è un fermento di tutto ciò che genera bellezza, c’è abbondanza di ogni cosa, basta uscire senza meta, ci sono occhi rotondi di gatti rossi magri e spioni, ci sono venditrici clandestine di pizzi, pulsioni impreviste, vita, corse in monopattino, urla di chi vince a giochi dai nomi incomprensibili, grandi seni esibiti sotto maglie a fiori, alte donne transgender che cercano chi sedurre come solo loro sanno fare, mercati improvvisati, piccoli spacciatori di sostanze che sembrano gomme da masticare, ragazze con i capelli blu, le mie vecchiette curve come gnomi che bevono genziana, venditori di fiori in cestini di vimini, c’è tutto questo e molto altro in questa rue dove sto, dove abito, mangio e lavoro. Guardando dalla finestra, riesco a vedere il mondo. Parlo di me solo quando riescono a farmi bere abbastanza vino, o almeno tre delle famose birre alla spina di Gilbert, quelle che serve nel bicchiere del suo zio tedesco con la vodka e qualcos’altro dentro che nessuno può sognarsi di chiedere perché è un segreto. Si beve e basta da Gilbert, discutere sarebbe di cattivo gusto e poi si consuma al bancone, stipati l’uno accanto all’altro e, se le birre fanno girare la testa, qualcuno che ti sorregge, ti tiene e magari ti porta a sedere in uno dei divani di simil-plastica, lo trovi. Ne ho passate molte di serate così. Qualche volta mi hanno solo detto «dai vieni qui, ti aiuto io», mi hanno portato verso il divano e baciato a lungo, e fatto salire le mani lungo le cosce, e sussurrato le parole che placano gli incubi degli ubriachi facendoli ridere. Mi hanno toccato, offerto ancora da bere, e raccontato storie sconnesse in un francese dagli accenti e dal sapore di vari luoghi del Mediterraneo («Fammi sentire il sapore del tuo francese», sussurravo sempre prima di baciarli)… Altre volte, non molte, li ho fatti salire da me, perché ci sapevano fare talmente bene che volevo arrivare in fondo e volevo che quel momento non si interrompesse bruscamente lì al bar, lasciandomi ancora più sola di prima. E anche loro lo volevano e insistevano. Desideravo godere, gemere, lasciarmi andare. Pensavo alle mie vecchiette e alla loro genziana, il vero piacere di quei loro anni sdentati e fondamentali. Un po’ di sesso era lo stesso per me, e quel sesso-genziana non lasciava troppe conseguenze. Qualche conseguenza la lascia sempre, non riusciamo a smettere, a non lasciare appiccicate parti di noi sugli uomini con cui stiamo; nella saliva, nei nostri umori, c’è sempre molto più di quello che ci viene dato. E va bene così, questa generosità, poi, cerchiamo di tenerla dentro, di farne un motore creativo, io ci provo. Qui, dove non conosco nessuno. Dove ho amori così, visitatori della notte più che altro. Nel mio albergo, nei corridoi dei piani, qualche gemito, qualche brusio e rumore non solo sono concessi, ma fanno compagnia a quelli che invece vanno a dormire da soli. Al mattino ci si incontra sulla scala a chiocciola, si arrossisce, ci si fa l’occhietto perché lo sappiamo che è capitato qualcosa. Io sento i passi di chi se ne va silenziosamente prima che il compagno di Locita la Brasiliana ritorni dal suo turno notturno, li sento quando sto lavorando a qualcosa di particolarmente impegnativo, so che non è sempre lo stesso uomo, e questo rende Locita particolarmente affascinante ai miei occhi, la sua energia erotica e non solo erotica è come una palla di fuoco, Locita è calda di voglia, di rosso sulle labbra e sulle guance, di fucsia sui vestiti, di macchie sul reggiseno, Locita è calda di tutto e io, che ho sempre freddo, la ammiro. Sono alcune delle storie e degli incontri capitati in questo lungo periodo parigino, in cui preferisco sempre toccare, annusare e bere che parlare. In cui cerco la potenza dei sensi che mi aiutino a creare, come un tempo mi hanno aiutato a riempire la crepa o almeno a sistemarla in modo che non si rompesse, che non si frantumasse quando non doveva. Dico a tutti che vengo da una terra di frontiera. Non è del tutto esatto e nemmeno del tutto sbagliato. Lascio che l’equivoco non sia chiarito, perché quando dico frontiera, di solito tutti ammutoliscono. Non so cosa si aspettino, un passato sconnesso, una fedina penale segnata da qualcosa su cui è meglio sorvolare, una vita da bandito. Essere “di frontiera” qui, a Parigi, vuol dire “misterioso e intangibile”, che genera rispetto e ci tengo. Sono una collagista, come vi ho già detto. Forse questa è già una frontiera. Aggiusto il mio mondo risistemandolo come voglio, distruggendolo e ricomponendolo. Uso ritagli di carta, spartiti, cartoncini, pezzetti di vecchi giornali, vecchie foto, mappe, carta, e utilizzo tecniche diverse che sperimento per periodi in cui è la tecnica stessa, solo quella, l’azione artistica di applicarla sul supporto scelto, il fare quotidiano, la sola cosa che conta. Sono una collagista, ho un account Instagram, ho amiche e amici artisti sparsi in tutto il mondo e ci sono case in cui i miei lavori sono esposti e ammirati. Dovevo arrivare a questo, occuparmi esclusivamente di conservare i pezzettini di carta, i dettagli e tutte le minuzie che ripongo nei miei cassetti ordinatamente divise per genere, tema, situazione. Dovevo capire cosa conta, il gesto nel suo svolgersi indipendentemente dalla propria volontà, dove nasce e dove sorge il mistero creativo, la vibrazione magica che tutti portiamo dentro (l’ho cercata ovunque e male, in passato, sapevo che c’era, ma ero inerme di fronte alla confusione della vita e venivo tratta in inganno.