Un uomo fugge lasciando la compagna precipitata dalla finestra, schiantata a terra, via verso la periferia a trovare rifugio nella palestra dove si allenava alla boxe da ragazzo. Scappa da “Mario, il pugile che allenava le giovani promesse, quello famoso per avere fatto da sparring a Nino La Rocca, campione europeo dei pesi welter alla fine degli anni Ottanta”. Porta con sé “il cattivo odore della colpa” insieme al diario di Marta su cui lei annotava i particolari di ogni giornata con una precisione maniacale. Lui è un insegnante, lei è stata sua allieva, hanno vissuto insieme da quando Marta è diventata maggiorenne, entrambi con un peso sulla coscienza, ma ciascuno garanzia di protezione dell’altro. La colpa di Stefano risale ai tempi della palestra quando la rabbia di essere stato tradito dal padre l’ha spinto a cercare gli amici peggiori, si è fatto di ecstasy e in palestra ha sfinito di colpi una giovane promessa della boxe. L’allenatore, un uomo che conosce gli errori degli uomini: «Io ti copro – aveva detto – però qui dentro non ti voglio più vedere. Se non perdi qualcosa, non imparerai mai niente». La grande assente dalla scena, che compare solo evocata dalle pagine del diario, è Ada, sorella di Marta, la bellezza e la perfezione fatte persona: “A scuola i ragazzi dicevano che Ada era da tachicardia. Niente le era impossibile, riusciva bene in ogni cosa”. Capace, intelligente, ammirata, in procinto di partire per l’Inghilterra per frequentare una scuola di danza, era precipitata improvvisamente di sotto mentre eseguiva un difficile esercizio che Marta le aveva chiesto, in punta di piedi sul tavolino davanti alla finestra: “Perché ero troppo poco rispetto a lei, una misura piccola e inutile, Ada poteva essere paragonata all’infinito e io al centimetro che sta tra le due tacche del metro. Avevo solo bisogno che mi considerasse degna di lei, che facesse una cosa perfetta e pericolosa per me, perché significava che allora valevo qualcosa, qualcosa di più grande di un centimetro”. Davanti alla sorella lei si senta brutta, inadeguata, uno zero: “Era di una bellezza alla Angelina Jolie, di quelle che ti fanno sentire brutta e deforme anche se sei una ragazza carina”. Marta è sempre risultata una perdente davanti a Ada, per questo ha cercato di uguagliarla ma “la fortuna stava dalla sua parte e io dovevo accontentarmi di giocare per perdere. Oggi, al cimitero, ho vinto per la prima volta”. Si parla di suicidio, come se Ada non avesse più sopportato di dover mantenere un così alto livello di perfezione, ma pochi lo credono: “Rispettosa e grata alla vita, consapevole delle proprie doti, determinata nel volerle mettere a frutto nel migliore dei modi. Impossibile che abbia commesso un gesto del genere”. Tanto perfetta che Marta ne ha quasi paura e cova una gelosia che la manda fuori testa: “Perché avrei voluto riuscire in ogni cosa come Ada, essere tanto brava da dividere con lei un pezzo di perfezione invece di lasciarla sola a portarsela tutta intera sulla schiena”. La morte di Ada lascia Marta al centro delle attenzioni parentali: “Cerca di proteggermi, papà. Il mio valore è aumentato, ora che sono l’unica figlia rimasta”. Tuttavia questo non le basta: prende il posto di Ada anche accanto al professore, quell’uomo che l’ha affascinata al primo incontro. Lui la accoglie: “Ero convinto che legando Marta, stringendola a me, avrei evitato di ritrovarmi sempre più spiazzato e smarrito davanti alle sue mosse. Mi sono illuso che la vicinanza estrema potesse garantirmi controllo e incolumità. «Se ti ho addosso non puoi farmi male», questa è stata la congettura che mi ha spinto al corpo a corpo con lei”. Scorre la notte nella palestra dove Mario, l’allenatore, prepara guantoni e fasce per chi arriverà a mattina, e intanto ascolta la storia che si dipana attraverso le pagine del diario che Stefano legge facendo luce sul male. Mario lo accoglie dopo tanti anni, come un padre farebbe con un figlio, come il saggio che porta a ragionare e non suggerisce la strada da seguire ma la apre davanti, passo passo. Lo fa attraverso la disciplina del suo sport, che è formazione alla vita. Marta è il male: nascosta dietro a un volto tranquillo c’è una mente crudele, malata, anaffettiva, determinata e lucida, perfettamente organizzata nella crudeltà, ossessionata da un confronto insostenibile, alla ricerca di tutto ciò che la faccia assomigliare alla sorella, fino all’impensabile. Lei è il male che si insinua nella vita di Ada e in quella di Stefano: “Lei era quella specie di male che io non sopporto, era l’inganno che dormiva nel mio letto e mi si svegliava accanto”. Come ha sempre dimostrato di saper fare bene, ancora una volta la Mearini scende nei nodi della mente, nelle ossessioni che la sconvolgono, e cerca e svela il marcio nascosto nell’uomo; questa volta lo fa con un noir dove luce e buio si contrappongono e dove il buio vince sulla luce. Dissemina sul percorso tracce di verità che sul momento si notano appena, ma alla fine si vanno a ricercare come rivelatrici, goccia a goccia.
Marisa Cecchetti
Il link alla recensione su TELLUS folio: https://bit.ly/3U1BRtD
Nel provare a parlarvi di questo libro parto dal titolo: “Corpo a corpo”. Non avrebbe potuto intitolarsi in modo differente l’ultima meravigliosa opera di Elena Mearini in corsa per il Premio Strega.
“Si chiama corpo a corpo una modalità di combattimento ravvicinato, a mani nude, disarmato tra due o più persone”.
Nonostante il ring e i vari riferimenti alla Boxe come scuola di vita, il combattimento descritto in queste pagine non coinvolge due avversari ma il tempo che scorre e l’anima e il malessere interiore degli stessi protagonisti.
Da un minimo di sei a un massimo di dodici sono i round di un incontro di boxe. Dodici sono i capitoli del romanzo. Nessun KO prima, senza fiato e bloccato alle corde il lettore si spinge fino alla fine. Tre minuti la durata di un round. Sicuramente più di tre i minuti che impieghiamo noi per incassare i colpi di questa scrittura chirurgica e precisa che ci spacca in due palesando guerre e mostri che ci vivono dentro. Non so dire esattamente quante volte l’autrice scrive parola tempo.
Il tempo è bastardo, piazza trappole ovunque, è un gancio che spacca la mascella e disarticola la parola, non ti aspetta, è un interrogativo puntato alla tempia, è sempre meno, passa e decide.
Ed è proprio il tempo scandito da un immaginario metronomo assordante che accompagna ogni sua parola. Il romanzo si svolge in poche ore e ci racconta di Ada e Marta, sorelle, e di Stefano Santi che è in tempi diversi il professore di entrambe.
Stefano, con un passato da pugile semiprofessionista interrotto da una tragedia che non aveva mai confidato a nessuno. L’unico a conoscenza del suo dramma è Mario, il suo allenatore, che aveva assistito impotente alla scena e lo aveva coperto, allontanandolo però dalla sua palestra per sempre. Ma è proprio in quella palestra, che aveva significato casa e riscatto, che si rifugia immediatamente il professor Santi dopo aver commesso il secondo errore fatale della sua esistenza.
E lì ritrova Mario che con biblica empatia, senza farsi confessionale, lo accoglie, lo ascolta e lo porta a decidere. Ada e Marta. La perfezione e la mediocrità. Mediocrità che a volte è più insopportabile dell’obbrobrio. Marta, vittima o carnefice? Un diario. Un fiume di parole che svelano e rivelano. La convinzione di sapere ciò che è giusto per l’altro facendo finta che sia amore, fino a togliere il respiro. Ciò che agiamo con consapevolezza e ciò che ci accade.
L’ipotesi di redenzione per Stefano è come un cavallo di Frisia con filo spinato piantato nel cuore che appare e scompare ciclicamente nello scorrere della sua esistenza.
Vede l’espiazione della sua colpa nella confessione dell’altrui disfatta ma non è così che va la vita. Presto o tardi ognuno di noi è costretto a pagare, anche per ciò che ha commesso senza alcuna intenzione. “Incontriamo la fine e ci passiamo sopra senza nemmeno accorgercene” scrive Elena Mearini a pagina 8 e questa frase ci torna in mente a ogni capitolo anche se non la leggeremo mai più. Emil Cioran disse che “Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo” e questo libro fa talmente male da essere, a parer mio, letteratura.
Deborah Alice Riccelli
Il link alla recensione su Contorni di Noir: https://bit.ly/3ZxOePm
Corpo a corpo di Elena Mearini racconta un intreccio di vite complesse che si contrastano come in un ring. Amori distorti che diventano autentiche armi distruttive, il valore impagabile dei legami che nascono all’ombra della comune passione sportiva – in questo caso la boxe –, emblema simbolico dell’incontro-scontro della vita. Edito da Arkadia Editore e in libreria dal 24 febbraio.
La “nobile arte” qui è espressione di libertà dell’utilizzo del corpo da parte delle donne e al contempo è una forma di lotta all’eccesso di perfezione omologante indotto dalla società. Un atto rivoluzionario per sottolineare, e non nascondere, l’imperfezione che rafforza l’autenticità di ciascuno.
Un intreccio complesso di vite
Corpo a corpo si svolge nell’arco di diciotto ore, all’interno di una palestra della periferia milanese, luogo in apparenza illeso dal tempo, rifugio di vite disfatte e rimesse assieme a colpi di pugni sopra il ring.
Qui si rifugia Stefano, professore di liceo ed ex pugile promettente, dopo avere ucciso Marta, la compagna poco più che ventenne. Torna nel luogo che un tempo gli fece da casa e famiglia per raccontare la propria storia tragica a Mario, proprietario della palestra e suo ex allenatore.
Durante la confessione, Stefano legge alcuni estratti del diario di Marta, perché “serve conoscere la voce di lei per arrivare alla disfatta di lui”. Marta che ha cercato di salvare la sorella Ada dalla condanna della perfezione. Ada che quasi clandestinamente si allena tirando di boxe perché sente che il suo corpo ha bisogno di esplodere, di non essere ingabbiato nei canoni della perfezione ma di essere autentico, Ada che poi si è uccisa e nessuno ha mai capito il perché. Marta che era troppo normale per essere vista, troppo brillante per non vedere l’insopportabile, troppo esigente per non impazzire. Ada e Marta, il bene e il male che non possono essere divisi, pena la nascita del terribile.
Corpo a corpo: la cosa giusta da fare
Mario, attraverso le regole della boxe e il richiamo ad alcuni campioni del passato come Joe Louis, Willy Pep e James Walter Braddock – un vero e proprio omaggio alla storia del pugilato – e la concretezza dei fatti, aiuterà Stefano a comprendere “la cosa giusta da fare”, se cosa giusta esiste, a trovare un senso e una nuova strada alla sua esistenza irrimediabilmente segnata.
Elena Mearini racconta il bene e il male presenti in ciascuno di noi con grande precisione e crudezza; la metafora pugilistica si rivela perfetta per consentire al lettore di entrare pienamente nelle dinamiche emotive dei protagonisti. E sarà proprio la forza della parola e del racconto a svelare la verità su questa vicenda familiare particolarmente intensa e coinvolgente.
Il link alla recensione su Il cappuccino delle cinque: https://bit.ly/3Z1HVmM
Si apre con un uomo in desiderio di riparo, Corpo a Corpo: è Stefano, un insegnante, un tempo pugile semiprofessionista. La boxe l’ha abbandonata in seguito alla prima delle due tragedie della sua vita, ma la palestra resta casa per lui: è solo tra i suoi odori, le corde tese del ring, le movenze rituali ripetute, precise, che può trovare sollievo, comprensione e perdono. Soprattutto nelle parole di Mario, che fu suo preparatore tecnico, mentore e padre putativo. Soltanto a lui, che conosce il motivo del suo allontanamento dal pugilato (si rese colpevole di una sequela di colpi dati per rabbia e sotto extasy che resero invalido un altro giovanissimo boxeur), può confessare di essersi reso protagonista ancora di un peccato grave, l’uccisione di Marta, la sua ragazza. Con il diario di lei in mano, Stefano si presenta prima dell’alba in palestra sotto la pulsione irresistibile di confessare ogni sua responsabilità: ma dalle pagine del diario, la cui lettura è indispensabile per far comprendere a Mario ogni gesto esasperato del protagonista, la trama si allarga come un’onda nera e magmatica, pronta a sommergere ogni cosa, come nell’illustrazione di copertina di Stefano Bonazzi. Marta, la vittima, nel piccolo quaderno blu racconta il rapporto con la sorella, Ada, creatura di inarrivabile perfezione: una ragazza da tutti amata, avvolta in un’aura quasi angelicata, con la quale Marta instaura un corpo a corpo – uno dei tanti del romanzo – sfibrante. Perché Ada è naturale luminosa purezza, toccata da una grazia a cui Marta non ha accesso: bellissima l’una, carina l’altra, ricca di ogni talento Ada, figlia e studentessa di medie qualità Marta, che tutto cerca pur di essere finalmente vista, compresa, apprezzata. Succederà, forse, ma solo alla scomparsa tragica di Ada, trovata inspiegabilmente suicida. È a questo punto che i non-detti usciranno allo scoperto, tra cui un legame insospettabile con Stefano: Ada, perfetta come un vaso prezioso, aveva difatti iniziato a prendere da lui lezioni di boxe, quasi a volersi distruggere, coprendosi di lividi, sporcandosi di vita. Ada entra dunque nella storia di Stefano, dove poi entrerà Marta come sua fidanzata, in un congegno ad orologeria che rifugge lo scontato, in una corsa verso l’irreparabile che prenderà giri di vento del tutto sorprendenti, inattesi. Compressa in sole diciotto ore, la trama di Corpo a corpo (Arkadia editore, collana di narrativa SideKar a cura di Ivana Peritore, Mariela Peritore e Patrizio Zurru) è una conferma del talento di Elena Mearini, che anche in questo terzo romanzo maneggia con maestria materiale incandescente, consegnandoci un libro che è sì noir psicologico ma è anche romanzo sull’amore e le sue declinazioni talvolta malate, deviate. Un libro di amore, senso di colpa e rancori: è acutissima Mearini nel cogliere le sfumature delle pulsioni distruttive, il sentimento dell’invidia di cui molto si tace. Così come della pressione di doversi presentare perfetti in un mondo che richiede perfino un modellamento plastico dei nostri corpi per aderire a canoni di uniformità, per una sorta di accettazione sociale. È profondo il suo sguardo nel dettaglio straniante: esemplari le pagine dedicate al funerale di Ada, con le immagini che in un momento che dovrebbe essere di solo raccoglimento si sovrappongono, e Marta nota le compagne che hanno i capelli in ordine, appena lavati, però non sono truccate, così si sentono meno in colpa per essere vive, e poi l’ostia che le si attacca al palato (Cristo non è convinto di scendermi in gola, dovrei essere più buona, bella e intelligente per invogliarlo. Ma io non sono Ada, mi dispiace. Amen. La messa è finita. Invidio chi può andarsene in pace). Omaggio alla boxe, alla lotta fisica e alle sue regole come metafora di vita (vi si citano noti campioni e il libro stesso è suddiviso in round, non capitoli) Corpo a corpo, tra i candidati al Premio Strega 2023, è anche un libro sul potere e i suoi pericoli, l’ambizione di rivalsa, il desiderio umano di occupare un posto nello sguardo di genitori assenti, di compagni di scuola attirati come mosche al miele da un’incorrotta bellezza, del mondo che si ferma all’attrattività di superficie. È così che nel romanzo la fragilità si trasforma nel suo contrario, l’innocenza in manipolazione, il desiderio di vita in quello di provocare la morte in un piano che sovverte i destini, gestito da un burattinaio impensabile. Terso e preciso come sempre, il linguaggio di Elena Mearini si fa valore aggiunto ad arricchire una trama semplicemente impeccabile, sorretta dal gioco intersecato delle voci, una scritta, quella delle pagine del diario, scorticanti; l’altra orale, sofferta, disperata. Meravigliosamente.
Anna Vallerugo
Il link alla recensione su Satisfiction: https://bit.ly/42x8cft
Raramente capita di leggere una storia mentre lei ti legge e questo riconoscimento è accaduto con il nuovo libro di Elena Mearini, Corpo a corpo. L’incipit è una catapulta che ti scaglia dentro il racconto che mi limito a fare affiorare (come consiglia Stefano Bonazzi attraverso la copertina), perché ognuno possa avere l’opportunità di scegliere la strada per scendere nella profondità del romanzo. Stefano Santi un ex professore di liceo vive una storia sentimentale disfunzionale con Marta, innescata dall’avere entrembi una ferita primordiale mai curata; il romanzo, che si svolge nell’arco di una giornata, comincia con un reato che obbliga Stefano a rifugiarsi in una palestra alla periferia di Milano, un luogo che gli fece da casa, dove incontra il suo vecchio maestro di boxe, Mario, nel quale desidera riporre una domanda. Non conoscevo la scrittura di Elena Mearini che ha saputo rapirmi nell’immediato e condotta in un luogo autentico dove c’è il coraggio di essere fragili e guidata dentro una storia raccontata con uno stile che ho sempre amato, caratterizzato dalla musicalità di brevi periodi, costruiti con la cura delle parole e numerose metafore di cui fa uso l’autrice, che nella vita si nutre di poesia. «Servono poche parole, quindi quando smetto tu non domandare altro. Eri forse appena nato, fresco di mondo, quando io la incontrai. Il mio opposto, lei una grazia, io una dannazione. Ci univa quel mistero che spinge il sole a sorgere ogni giorno, nonostante il disastro che gli si presenta sotto. Avrei potuto tirare in piedi un mondo, con lei, forse anche un universo intero. Invece me ne andai, la lasciai così, al termine di una notte, senza un fiato, come se ne vanno i fantasmi. Perché io ero fatto per buttare giù, mandare al tappeto, mettere a segno le cadute. Altro che tirare in piedi mondi, lì avrei fallito. Lo sapevo fin dall’inizio. Ma serviva il coraggio del male duro, per ascoltare quello che già sapevo. Un male di cane morto per fame». La poesia della boxe è la metafora della vita, forse la più importante del libro, utile a restituirci la complessità della propria esistenza, il match non prevede due persone che si azzuffano ma la scelta volontaria di praticare uno sport da combattimento ad alto rischio, controllato dalle regole. Non è un gioco perché è necessario colpire un avversario con un confronto diretto, in una gabbia chiamata ring. In questo spazio il tempo è rallentato dalla sfida, scandito dai colpi, dal proprio affanno e soprattutto da quello dell’avversario. Durante il combattimento scopri risorse che non pensavi di avere e spesso solo mentre incassi, dimostri che non le hai esaurite. Attraverso questa storia è possibile comprendere che il combattimento è nella natura dell’essere umano e che si differenzia dallo sport perché la boxe va contro l’istinto, in natura l’alternativa più frequentata è la fuga, soprattutto di fronte ad un grande dolore e quando non abbiamo il coraggio di attraversarlo ci costringe ad indossare la maschera della sopravvivenza. Nello sport da combattimento invece resti perchè la consapevolezza che puoi dare più colpi di quelli che incassi ti permette di sostenere le difficoltà impartite dalla lotta e dalla quale ricavi la forza per proseguire. Quando combatti sei nudo, solo con le tue capacità (o incapacità!) e mostri il corpo come un abito, di fronte a chi è pronto a farlo proprio come te, in un corpo a corpo. Immersa in questa lettura senza protezione ho potuto sentire quanto sia importante mantenere le promesse che facciamo sottovoce a noi stessi, invece di spenderci dietro la ricerca affannosa della perfezione che diventa un ostacolo alla propria capacità di essere vivi, solo così possiamo smettere di pensarci vivi dentro la morte perché «il buio è una rogna e un dono. Possiamo essere usati da lui, oppure adoperarlo per vedere».
Giovanna Pietrini
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