“La lingua è la sola arma che abbiamo per contestare la realtà”
A colpire subito fin dalle prime frasi, nel romanzo “Con tutto il mio cuore rimasto” di Rosario Palazzolo, così come nel precedente “La vita schifa”, entrambi editi da Arkadia, è la lingua. Un misto di espressione dialettali siciliane e geniali trovate linguistiche d’invenzione, spesso riconducibili al mondo dell’infanzia – ridanchino, mutozitto, scricchiamacigno – e una sintassi a volte giocosa e a volte ossessiva, ricca di ripetizioni volute che seguono il ritmo del pensiero. Eppure questo non toglie freschezza e leggibilità, anzi crea un mondo, un ambiente, che poi è la mente del protagonista: Concetto Acquaviva, tredicenne di Palermo che si sveglia in una stanza buia, prigioniero di due misteriose figure femminili, e per combattere la paura e la solitudine inizia a scrivere una lunga lettera a Gesù. Una lettera cruda quanto arguta, sul filo dell’umorismo e della purezza, in cui Concetto narra la propria storia fino allo svelamento finale, quando la “ragionevole verità”, quella condivisa e accettabile ma non necessariamente vera, viene rivelata in tutta la sua vergogna.
Spesso si dice che oggi la lingua dei romanzieri è standardizzata dagli editor e dalle esigenze commerciali, eppure sperimentare con il linguaggio, da Gadda a Camilleri, porta spesso risultati interessanti. Secondo te cosa aggiunge e cosa toglie ad un romanzo il fatto di parlare una lingua che non è quella corrente? Se “Con tutto il mio cuore rimasto” fosse scritto in un italiano comune, sarebbe un romanzo diverso?
La lingua è la sola arma che possediamo per contestare la realtà, per prenderla a cazzotti, a gomitate, per afferrarla dal bavero, per masticarla con i denti aguzzi dell’invenzione, per costringerla a riesaminare ciò che crede di aver dimostrato, e del resto il concetto di lingua corrente è così desueto, così instabile, così pernicioso che mi farei una bella risata se non fosse che sono comunque un uomo ben educato, poiché l’idea di un italiano comune è un’astrazione puerile, insincera, architettata da pensatori comuni, i quali, ovviamente, sguazzano nell’acquitrino del loro luogo comune, e certo tradisco una certa superbia, lo ammetto, e vorrei tanto rispondere alle domande con l’eleganza stucchevole di chi intende compiacere il proprio interlocutore affinché possa tramutarsi in lettore, eventualmente, ma purtroppo appartengo a quella razza barbara che opta per una scrittura anarchica, che sia soprattutto in grado di generare avversione, dissenso, una scrittura che s’immagina un destinatario indomito, pretenzioso, che impugni le parole dalla lama, assumendosi il rischio della disfatta.
Concetto Acquaviva per sopravvivere durante la prigionia si attacca al suo immaginario infantile: le favole, i personaggi dei cartoni animati. Ad un certo punto affiora la figura di Berto l’incerto, ricordo di un’antologia scolastica (ma esiste davvero o è una tua invenzione?), una sorta di asino di Buridano con “i ragionamenti impazziti dal dubbio”, che indeciso sulla direzione da prendere rimane tutta la vita immobile. Il triste esempio di Berto sembrerebbe un invito al coraggio, alla responsabilità, all’iniziativa, ma siamo davvero noi a decidere la nostra storia? In questo romanzo, come anche nel tuo precedente, La vita schifa, i personaggi sembrano preda di un destino inevitabile di sconfitta, cui tentano invano di opporsi. Ineluttabilità della tragedia greca, pessimismo, semplice realismo?
Disincanto, nella sua apologia, e per me il disincanto è necessario, e anzi credo sia uno dei pochi antidoti per sopravvivere il tempo che ci rimane, e principalmente per l’artista che intende ancora porsi criticamente nei confronti di ciò che osserva, e l’osservazione sovversiva è deontologica, credo, soprattutto perché viviamo in un’epoca in cui le cose osservate possiedono un significato ancor prima che le osserviamo, come se l’oggetto esaminato – e per oggetto intendo anche il soggetto quando si fa oggetto incarnato – portasse già nel nome il suo inventario ben articolato di emozioni, di esperienze, di identità misurate con gli algoritmi dell’ineluttabilità, e pertanto è davvero dura cavarne pensieri nuovi, o perlomeno personali, poiché la memoria dei significati è di per sé una determinazione formidabile, ovvero qualcosa di indotto con lentezza e perentorietà, di profondamente incerto eppure così assodato, e pertanto credo che lo scrittore debba innanzitutto osservare il mondo deprivandolo del significato che il mondo gli ha imposto, e inforcare degli occhiali nuovi, o perlomeno in buono stato, e disincantare la realtà, e mi rendo conto che è un processo che fa traballare tutte le fondamenta, un processo che per il solo fatto di concepire una cosmogonia innesca il movimento della distorsione, col rischio che si finisca addosso al già disincantato o peggio al disincantato di proposito, ma è un rischio che occorre assumersi, del resto siamo esseri infilati a forza dentro l’evoluzione, e l’evoluzione, a guardarla con gli occhi dell’evoluzione non è mai piana, e spesso pare persino andare a ritroso, o forse è semplicemente un gioco di incastri misteriosi, di invenzioni spudorate, di dubbi sproporzionati, proprio come il povero Berto che mi sono inventato: resta immobile per tutta la vita, guarda il tempo passare, il suo corpo invecchiare, ed è felice così, come tutti.
A un certo punto Concetto inizia a riempire le sue giornate da prigioniero scrivendo lettere a Gesù, perché ha bisogno “di un amico silenzioso e immobile, di un fratello invisibile, di un santo che è il più migliore santo di tutti i santi del cielo ma che è anche un uomo fatto di carne e schifezze”. Eppure nel corso del romanzo incontriamo passaggi ricchi di umorismo e anche di satira feroce nei confronti della religione cattolica. Il Gesù cui scrive Concetto è quello della Chiesa e dei Vangeli o è un altro, un suo Gesù personale (parafrasando i Depeche), creato in una dimensione interiore, come una sorta di alter ego?
È senza dubbio un altro, è qualcuno che è davvero in ascolto, che non ti costringe a seguire precetti, che non pretende pentimenti, è ciò di cui abbiamo bisogno quando abbiamo bisogno di un amico che si limiti ad ascoltare, è la nostra pretesa di un interlocutore perfetto, è una bellissima utopia, un deserto nel fiore, è quella canzone che adesso non mi ricordo come fa quella canzone in cui c’era qualcosa di irraggiungibile e un tizio che però ci provava, è una specie di ricamo del pensiero, ordito bene, uscito storto.
Concetto racconta sé stesso come un ragazzino sensibile e delicato, facile a commuoversi, attento a non ferire gli altri, inadeguato alla lotta per la sopravvivenza che la realtà gli impone, e ad un certo punto rimprovera Gesù di aver sempre preferito il ladrone, il figliol prodigo, in generale i peccatori pentiti, rispetto a quelli come lui “che fanno la retta via senza manco un briciolo d’indicazione, che anzi ogni poco gli tocca scazzottare col mondo intero”. Ho trovato davvero arguto questo ribaltamento. Secondo te questa preferenza per i “cattivi”, purché redenti, trova riscontro nella nostra società attuale?
Ne è la regola, una specie di poetica del fallimento, e difatti non c’è politico, uomo di potere, catechista degli ultimi, consolatore di vedove che non abbia avuto perlomeno uno scheletro nel suo armadio, e che non abbia aperto quell’armadio, un giorno, e mostrato lo scheletro, esposto il proprio pentimento, ma siamo sinceri, ammettiamolo senza mezzi termini, il risultato che abbiamo raggiunto è un rincrescimento con le paillettes, trasfigurato, che serve a colui che serve come un monito per tutti gli altri, affinché non si montino la testa, e che anzi la smettano di comportarsi a modo, afferrino il loro male e siano dimostrativi, perché la mitezza è un’illusione, il bene un fraintendimento, è invece il delitto il migliore spettacolo della nostra vita, è l’unico modo che abbiamo di finire qualsiasi cosa pensiamo d’aver cominciato, per poi riprovarci.
Anche Ernesto Scossa, il protagonista de La vita schifa, così come Concetto si ritrova una figura materna piuttosto dura. “Nel gabinetto mia madre mi scassò la testa a forza di cazzotti, me la sbatteva sul lavandino addirittura, anche se si capiva che non mi voleva ammazzare ma solo sbattere, come succede con le cose che si sono rotte e se uno le sbatte può essere che ripigliano a funzionare.” Da cosa proviene questa visione inconsueta e violenta del materno? Credi che oggi, che i ruoli di genere sono messi continuamente in discussione, maternità e paternità stiano evolvendo in direzione positiva o negativa?
Non m’intendo di ruoli di genere, specie di quelli architettati da altri, io con l’identità ho sempre giocato a modo mio, confezionando le regole che mi occorrevano per far funzionare le regole, e per cui scarto veloce la seconda parte della domanda e mi sposto sulla fascia centrale del campo, quella che ha a che fare col materno, e certo anche il concetto di materno potrebbe procurarmi pruriti per i quali non intendo grattarmi in pubblico, e dire che per fortuna ho avuto una madre che mi ha amato come fanno le madri e che ho amato come amano i figli, una madre che è stata al mio fianco senza mai reclamarlo, una madre buona, gentile, che se ne è andata senza rumore, e per cui le madri a cui mi riferisco sono il contrario di ciò che è capitato a me, forse una sorta di paura occulta verso l’imponderabile che mi sarebbe potuto toccare in sorte, oppure è semplicemente una allegoria, un riassunto di tutte le puntate, e in effetti la patria è madre, la chiesa è madre, la guerra è madre, la terra è madre, la scuola è madre, la casa è madre, la vita è madre.
Sia Concetto che Ernesto appartengono alla categoria degli “ultimi”. Chi sono, nella società di oggi, gli ultimi?
Tutti coloro che non sono i primi.
Ad un certo punto compare Gioni di Happy Days, come fosse una persona reale, di cui Concetto si innamora e con cui interagisce come fosse in carne ed ossa, vivendo i primi turbamenti amorosi. Perché proprio questo personaggio televisivo? Una questione generazionale o rappresenta altro?
Un gioco, semplicemente, perché in effetti avrei potuto scegliere altri personaggi e invece ho scelto proprio lei, e l’ho scelta perché è il personaggio protagonista del mio ultimo testo teatrale, Eppideis (tra l’altro magistralmente interpretato dall’attore Silvio Laviano), e io ho questo vezzo di portarmi qualcosa dietro ogniqualvolta imbastisco una nuova scrittura, è una prassi che spesso sfiora l’ossessione, lo ammetto, e difatti c’è stato persino chi si è divertito a scovare tutti gli intrusi, e lo ha fatto con dovizia, nientedimeno, imbastendoci tesi di laurea, analisi critiche, dietrologie.
Sappiamo che sei anche uomo di teatro, in che misura i tuoi romanzi, e in particolare gli ultimi due, La vita schifa e Con tutto il mio cuore rimasto, sono anche opere teatrali?
Lo sono nel loro senso ontologico, poiché pensati per un pubblico che non è mai passivo, ma che sta lì, in mezzo al dipanarsi degli eventi, ne è parte in causa, e in effetti propendo sempre per un’arte che abbia come criterio comunicativo quello della responsabilità, mia nei confronti di coloro che leggeranno, e di costoro nei confronti dell’opera, viceversa sarebbe solo un vezzo, l’arte, magari una delle forme più sublimi di vanità, l’esibizione di una capacità, e invece io la intendo come un supplizio, un osservare il mondo lì dove fa più male, e del resto le mie creazioni partono sempre dal disgusto, da qualcosa che sento sbagliata, corrotta, fraintesa, millantata, e certo esistono altri modi di immaginare la scrittura, e per esempio credo che stiamo vivendo un momento pregno d’immaginazione, e di molteplici fatti epocali che accadono sotto i nostri occhi, e per cui è un proliferare di scritture forti e idee interessanti ma purtroppo mi pare che ci sia una certa tenacia nel proibire che le macerie dei fatti diventino rovine, e dunque manca spesso l’analisi vera e l’approfondimento reale, e intendo dire che abbiamo sempre premura, costantemente, di mordere e deglutire qualsiasi cosa capiti, e per cui credo che il vero problema sia individuale, siamo colpevoli di pressappochismo, e proseguiamo nella strada della sciatteria ideologica, del qualunquismo culturale, infischiandocene della nostra vita, tanto non è mai nostra, in effetti, e insomma ti rispondo che lo sono, i due romanzi, sono anche opere teatrali, o vanno verso, o provengono da, in un lunghissimo discorso con me stesso che mi strema e mi avvince, che parte dalla necessità dell’approfondimento per arrivare alla consumazione, al dileggio di sé, alla patologia.
Pensi che potrebbero essere riadattati e rappresentati in quanto tali?
Potrebbe capitare.
Nello stanzino in cui è prigioniero, Concetto osserva i santi sulle pareti. San Patrizio, con “la solita espressione un poco scura di un santo all’incontrario, di un santo che butta bestemmie”, San Francesco con il lupo ammansito, un lupo che “imbroglia la sua natura” e che “spero che prima o poi il lupo ci ripensi, e se lo sbrani tutto intero”. Santi che raccontano un mondo falso, ingannevole. Poi racconta l’assurdo della confessione dei bambini, come creata per instillare il senso del peccato dove non ha ragione di esistere, “e difatti certuni disperati avevano preso in prestito dei peccati familiari per non sembrare troppo sguarniti”. Anche ne La vita schifa, il protagonista vedeva nella religione un modo di “inventarsi una vita eterna felice per giustificare la schifa disperazione dell’ognigiorno”. Che ruolo ha secondo te oggi la religione, nel nostro mondo secolarizzato? Ci condiziona ancora o ce ne siamo liberati? Ed è possibile a tuo parere conservarne il senso profondo al di fuori delle ipocrisie e degli inganni?
La religione ha il solito ruolo di sempre, e anzi con un impatto ancora più forte, mi pare, e certo la religione a cui mi riferisco non è quella secolare, la religione religiosa che dal battesimo alla tomba segnava parte delle nostre scelte infarcendoci di sensi di colpa e genuflessioni, di domande esistenziali e risposte bacate, la religione a cui mi riferisco è quella che abbiamo scelto a cuore aperto, da un po’ di tempo a questa parte, una religione che scalza continuamente la realtà, che irrompe e plasma e condiziona scelte e opinioni, che genera illusioni e poi pretende addirittura di metterle in pratica, una religione che ci assoggetta all’immagine, all’epica della quotidianità sputata sulle piattaforme mediatiche, dispositivi a orologeria congegnati come specchi magici che riproducono ciò che sembriamo, che desideriamo, che detestiamo, e tutte le artefazioni che propone questa nuova religione, tutte le patinature, sono una norma alla quale abbiamo smesso di contrapporre l’etica e l’etica è divenuta ciò che solitamente l’etica avversava, un’etica antitetica che ci fa sentire liberi di esprimerci come vogliamo, e per cui abbiamo imparato a ritualizzare qualsiasi evento della nostra vita, fornendogli un corredo di immagini, di sfondi pacificatori, di moine al cuore di panna, e così la libertà individuale gongola, come se si fosse davvero emancipata da ogni imposizione morale, e certo alcuni diritti acquisiti sono meravigliosi, o perlomeno così ce li raccontano, così ce li raccontiamo, ma io ritengo che nel nostro prontuario esistenziale la libertà conti poco, e a ogni modo, io, a questa libertà cartonata, preferisco di gran lunga il mistero della fede, e tutti i padrepio e i sanfrancesco e i peccati e i miracoli e persino le estreme unzioni.
Non è facile raccontare la trama di “Con tutto il mio cuore rimasto”, che è in realtà un enigma, un puzzle da ricostruire, solo all’apparenza lieve e ironico ma in realtà denso di fatti tragici, per arrivare ad un finale sorprendente in cui finalmente la verità, vera e tutt’altro che ragionevole, viene svelata. Senza rivelare nulla, puoi dirci qualcosa sul significato profondo del tuo enigma?
Senza rivelare nulla non credo di poter rivelare nulla.
“È stato giusto così, mi pare, ché la storia mia per forza si doveva concludere sbagliata, uguale uguale a come è iniziata, e io l’avrei dovuto sapere, cretino, e perciò mi sarei dovuto restare di marmo, di ferro, di niente, a godermi la mia santa infelicità, perché nella mia vita, ora che ci penso, l’infelicità ha funzionato sempre come quando c’hai una macchia sopra un vestito, una macchia piccina, tu vedi la macchia e ti arrabbi per la macchia e ti fissi sulla macchia e a un certo punto esiste solo la macchia e la macchia diventa la normalità e il vestito intorno l’eccezione, ma la maledetta speranza c’ha il brutto vizio di acchiapparti il cuore a tradimento, di smacchiartelo immediato, di non lasciarti neanche uno spiraglio aperto per la sporca realtà.”
Viviana Viviani
Il link all’intervista su Pangea: https://bit.ly/3wgtgZz