Come osa, Badalà?
Intervista allo scrittore etneo Vladimir Di Prima
INTERVISTE
“Il buio delle tre” di Vladimir Di Prima, edizioni Arkadia, 2023, p.224
Pinuccio Badalà è uno scrittore. Uno scrittore vero, non come quelli che imbrattano fogli perché annoiati da uno spleen che non è neanche uno spleen, ma l’assenza persino del vuoto. Il personaggio, non la persona di Vladimir Di Prima, si muove tra la gente osservando e riflettendo fatti fantasiosi: attentati, abbandono, assassinii, negazioni, falsità. Cose da libri che non hanno nulla a che vedere con la vita. E per questo Vladimir Di Prima – il personaggio? – non potrà mai essere un vero scrittore. A differenza di Badalà. Perché “scrittori non ci si improvvisa. È un mestiere che parte da lontano, da quelle recondite pulsioni di emarginazione, di scarto, di rivalsa verso un prossimo ingrato e irriconoscente, e naturalmente, da una spiccata tendenza narcisistica”. Badalà conosce le tattiche del ministero, è vero, com’è vera la sofferenza dell’essere siciliano. Di Prima no, non lo sa, eppure osa. E scrive. “Noi editori siamo gente pessima, distratta, il più delle volte insensibile; questo è bene che lo sappia.” Eppure, Di Prima vive in “un offuscamento, uno slittamento temporale […] nella codardia di accettare l’idea che la bellezza potesse finire in quel modo, umiliata dal male e da una scienza che non sapeva difenderla”. Qualcosa di assolutamente irragionevole e perverso. A differenza di Badalà. Il quale, come tutti i grandi scrittori passa da tragici rifiuti. “Questo è un segnale” e nonostante “certuni pur di non vedere il trionfo di altri rinuncerebbero mille volte al proprio”, Badalà è lungometrista. Uno scrittore che sa il fatto suo. Perché sa come si fa. Conosce le regole del gioco, anche se la “natura non l’aveva dotato di quelle virtù selvagge e virili che agganciano prontamente l’interesse di una donna”, o di un editore. Perché Badalà ama. Ama la scrittura e l’altro da sé. Ama la giustizia, come Sciascia. E ce ne fossero come Sciascia, si sa. Che poi quando qualcuno ne percorre le orme, lo si manda via. Ma Badalà sa che “chi muore nel cuore degli altri o chi non c’è mai stato, prima o dopo, è destinato a scomparire definitivamente”. Badalà lo sa perché è uno scrittore. E lo ha sempre saputo, anche se “il coro delle disgrazie non risparmia mai la vita a uno sciagurato finché non riesce a rovinargliela per sempre”. Badalà è uno che non si dà per vinto, perché ha la stoffa del campione. Perché il campione, a differenza del viziato, del debole, del raccomandato, si rialza sempre. E continua, continua, continua a colpire e a essere colpito. E picchietta, picchietta, continua a picchiettare su quella sua dannata tastiera. Ah, ecco Badalà, “seduto accanto a una grande vetrata osserva con riaccesa curiosità il viavai dei vivi. Gente con passo rapido, sempre in direzione di qualcosa, lontana dalla lentezza, dall’immobilismo del fico in Sicilia sotto il quale trascorreva giornate intere a pensare e a leggere”. Badalà si scontra con l’editoria Italiana del disinteresse per se stessa e per il prossimo. L’editoria dell’avarizia o dell’incoscienza. L’editoria dell’oblio della civiltà. Cosa grave nel Duemila. Come se la storia non fosse stata storia. E l’uomo non fosse stato uomo. Badalà si scontra con l’editoria piccolina – spesso ricca – che disprezza il significato profondo della parola letteratura. Perché, nella storia, “i figli di falsi comunisti che s’erano mangiati il Paese con posti di sottobanco, ministeri, cattedre universitarie, appalti ospedalieri. Oppure gente all’opposto: fascisti di lungo corso governati dagli aberranti miti del passato. L’Italia delle lettere era definitivamente caduta in mano a un branco di fighettini viziati.” E in tutto questo, svicolando e, cristicamente, andando avanti sotto la croce della sua macchina da scrivere, Badalà ci racconta la vita di Vladimir Di Prima. Un personaggio in cerca di editore, che si muove in una terra bruciata, la Sicilia. Dove una massa di “bambini biondissimi, bambine biondissime, tutto biondo nell’aragosta di Taormina” fa ancora i conti con le monarchiche oligarchie della cultura-noncultura-checulturanonè. Perché cultura vuol dire bene, progresso e amore. Oltre il tempo. Oltre l’aperitivo e la bottarella dell’oggi. Ma Badalà lo sa. Il problema è Di Prima. “Uno scrittore deve sempre metterlo in conto [il tempo] e sapere che non è mai corrispondente alla durata della propria esistenza. La letteratura è la macchina del tempo” e Badalà guarda “all’incorruttibilità dell’idea”. Le sue mani ci “fanno capire molto della venerazione che ha per la letteratura. È un uomo sacro […] e purtroppo gli uomini sacri oggigiorno sono vittime di un sistema che non li difende.” In Sicilia, a Milano, come a New York. Ma il povero Di Prima è qualcuno “inviso agli editori italiani”, qualcuno che scrive trame non originali con una “scrittura ambiziosa ma la storia così come il personaggio non evolvono”. E si incazza pure. Non ci siamo Di Prima. Lei non sa cosa e come deve evolvere un personaggio. Chieda a Badalà. Lui evolve. E smetta di sognare “settori coinvolti nell’industria editoriale: giornali, libri, televisioni.” Nessuno sta cercando “di tenere costante un livello di bassa coscienza, evitando che qualcuno provochi accidentali risvegli”, nessuno, nostro caro Di Prima. E “se il potere è il mantenimento di un equilibrio, il controllo crea quell’equilibrio”, lei non sa nulla, e non osi, Di Prima. Ascolti Badalà. La trama del libro s’infittisce, la notte si fa candela, s’incomincia a ragionare, i personaggi e la storia evolvono. “La mediocrità è narcotica, genera ignoranza, modella appiattimenti, annulla il giudizio critico diffondendo dogmi e legittimandoli. Il governo superiore si serve proprio di questa mediocrità per ridefinire assetti politici, manovre economiche e persino guerre”. E se è vero che ci sono “autori da evitare”, allora ci viene da chiedere “chi sono questi autori?”. La risposta non può essere che una: i veri scrittori come lei, nostro caro Di Prima. Un plauso alla casa editrice Arkadia.
INTERVISTA A VLADIMIR DI PRIMA
La prima domanda è d’obbligo: quanto di autobiografico si cela nelle vicende di Pinuccio Badalà? Chi è Vladimir Di Prima?
La domanda corretta sarebbe: quanto di autobiografico non c’è nelle vicende di Pinuccio Badalà? Allora potrei rispondere molto poco e quel poco è solo funzionale alla storia. Chi è Vladimir Di Prima? Uno che spero di incontrare prima o poi; è una vita che lo cerco.
Quanto, secondo lei, la deriva dell’editoria italiana, così come la descrive, seppur sardonicamente, nel suo “Il Buio delle tre”, influenza la società italiana di oggi?
Più che di deriva parlerei di miopia programmatica. La società italiana di oggi è il prodotto di uno sgretolamento identitario che parte da lontano. L’espressione culturale del Paese non può che essere figlia di questo processo. Non so in che misura le grandi case editrici possano intimamente influenzare la società di un Paese che legge pochissimo, ma è sicuro che regolano il mercato e regolando il mercato indirizzano opinioni, modellano fenomeni e non per ultimo spacciano per qualità ciò che a malapena è mediocre. Bisogna avere il coraggio di dire “Basta” e io con questo romanzo ci provo.
Lei inserisce le vicende di Pinuccio Badalà in un contesto storico e culturale sottolineando come la storia influenzi gli scrittori che la vivono e come gli scrittori che la vivono influenzino la storia. Quale dovrebbe essere il ruolo dello scrittore e dell’artista oggi?
Non diverso da quello che per definizione è il ruolo dell’intellettuale in ogni epoca, e cioè una figura capace di tenere in vita le coscienze attraverso due principi fondamentali: il pensiero critico e il dubbio costante.
Nel suo romanzo mette alla berlina tutta l’editoria nazionale, anche in maniera parecchio diretta, eppure non vengono fatti nomi precisi. Timore di essere querelato o scelta consapevole?
Fare i nomi non serve. Non serve al discorso in generale e non serve perché il singolo non ha colpe superiori rispetto all’establishment in cui è collocato. Certo, molti mancano di quella sensibilità artistica e intellettuale necessaria per ricoprire il ruolo, ma proprio per questo il colpevole va intercettato altrove.
Cosa si può fare per far tornare la scrittura a ciò che era prima – cosa era prima? – affinché si torni a crescere socialmente, valorialmente, abbandonando la deriva commerciale dello scrivere solo per intrattenere, non far pensare, e vendere?
La soluzione è molto semplice: si dovrebbe smettere di scrivere per almeno vent’anni istituendo viceversa una rete capillare di scuole di lettura con obbligo di frequenza. Bisogna educare le coscienze alla sacralità della scrittura quale atto ultimo, e non declassabile, dell’evoluzione spirituale. Solo un popolo di grandi lettori può sperare in un futuro migliore perché di scrittori o presunti tali ce n’è fin troppi.
Francesco De Luca
Il link alla recensione su Delufa Press: https://bitly.ws/35rUm