“Il buio delle tre”. Autocoscienza e peripezie d’uno scrittore in cerca di editore
“Nella vera, buia notte dell’anima, sono sempre le tre del mattino” (Francis Scot Fitzgerald, L’età del jazz. 1931-1933, 1945)
Le tre di notte, l’ora del lupo e di fantasmi demoni streghe, l’ora più buia e pericolosa che scaccia il sonno e non fa più dormire. L’ora in cui ansia e solitudine angustiano l’animo e fanno battere più forte il cuore di chi veglia. Piombando al centro della notte, l’ora delle tre assedia con pensieri angosciosi un insonne che tenta di scrivere in attesa del mattino tardo ad arrivare… Dopo l’uscita di La Banda Brancati (2021), Vladimir Di Prima (Catania, 1977) pubblica Il buio delle tre (Cagliari, Arkadia, 2023, pp. 224, € 16,00), romanzo con cui l’autore, vocato per una letteratura di ricerca divergente dalle chiassose tendenze commerciali dell’editoria d’industria e intrattenimento, perviene a una maturità che ne fa il più ricco di talento della sua generazione. Scritto in una sorvegliata terza persona che finge o mima un’impersonale confessione, il libro, parodia e satira del mercificato contesto editoriale italiano contemporaneo dove all’artista si sostituisce la costruzione del ‘personaggio’, ha per protagonista lo scrittore Pinuccio Badalà impegnato, tra affannosi tentativi e patetiche contraddizioni, nella ricerca di riconoscimenti che, a suo parere, solo il Grande Editore Industriale dominus del mercato librario potrebbe garantirgli. Antefatti storici e successioni di eventi scandiscono l’esistenza di Pinuccio via via richiamato al disastro aereo di Ustica del 27 giugno 1980, alla strage del 2 agosto 1980 nella stazione ferroviaria di Bologna, al precario avvento (marzo 1985) del comunista democratico Gorbaciov alla presidenza dell’Unione Sovietica. Con la strage di Capaci (23 maggio 1992), il crollo delle Torri Gemelle (11 settembre 2001), fatti criminali culminati nell’arresto del capomafia Bernardo Provenzano (11 aprile 2006), l’attentato stragista a Parigi contro la rivista satirica “Charlie Hebdo” (7 gennaio 2015)… Tale il clima che avvolge l’esistenza di Pinuccio rappresentato in un romanzo quanti altri mai ‘di formazione’. È ancora bambino, Pinuccio figlio del sindacalista Michele Badalà quando questi rimane ferito e mutilato d’una mano nella carneficina di Bologna durante un viaggio e una sosta in quella stazione con Carmelo Cantalanotte, sopravvissuto all’attentato, e il cugino Salvatore rimasto ucciso. Ne deriva per Michele una forte depressione mista a sensi di colpa per essersi salvato che, nel corso degli anni, lo porteranno a un tentativo di suicidio ingoiando dapprima un’intera confezione di farmaci e, in seguito, lanciandosi contro un’automobile in corsa. Tornato in ospedale, da cui viene dimesso un 18 luglio 1994 (quando Pinuccio è sui vent’anni), non capita allo sfortunato Michele la malasorte d’un grottesco incidente provocato da una donna di notevole stazza che, gettatasi dalla finestra dello stesso ospedale, gli piomba addosso schiantandosi e morendo all’unisono con lui?!… Dove l’evento tragico viene filtrato dall’arte ironico-umoristica che Di Prima andrà sapientemente dosando in ogni sua pagina. Cambia, dopo la fine del padre, l’esistenza dell’orfano Pinuccio che aveva iniziato le elementari nel settembre del 1980 svolgendo i successivi cicli scolastici fino al diploma senza figurarsi un preciso avvenire. Ma, considerate le sue insorgenti, umanistiche aspirazioni, forse lo vediamo iscriversi a Lettere e Filosofia laureandosi brillantemente fino a diventare assistente di cattedra? Macché: conseguita la maturità scientifica, decide d’interrompere gli studi e prova a cercarsi un lavoro qualsiasi – contabile, assicuratore, improbabile collaboratore di falegnameria –, avanti di pervenire a un’abbagliante rivelazione…: vuol essere scrittore. “Voglio fare proprio lo scrittore” afferma. “Voglio scrivere per denunciare tutte le ingiustizie del mondo, ecco cosa voglio fare”. Certo, nessun proposito apparve più velleitario e bizzarro da parte di Pinuccio che, eccepisce sua madre, la pia e critica Santina, mai s’era visto a leggere un libro. Nessun problema: egli comincerà a leggere da quel momento, a leggere e pure a scrivere… “Questo, avviamento alla fame mi pare” commenta la scettica Santina con la sua sicula eloquenza asseverativa, usa a posporre il verbo ed escludere l’articolo indeterminativo. Come in funzione iperespressiva risuona il funzionale, caratterizzante ricorso dell’autore a lemmi del parlato natìo: piccirìddi (bambini), avàia (ma và, similmente all’ovvìa toscano), babbasunàzzu (babbeo), sfantasìa (fantastica – verbo), ammalignàre (guastare), scassàu (esplose), ascutàre (ascoltare), asséttiti (siediti), abbarruàto (impressionato) etc… Un saliente connotato dello stile dell’autore è il virtuosistico ricorso a intonazioni letterarie interagenti con la colloquialità dialettale. Non l’accumulo di cultura fa lo scrittore, ma naturali doti comuni a Pinuccio che comincia a leggere freneticamente i grandi classici e gli autori moderni facendosene ispirare e provando a metterli al proprio servizio. Così, dopo una serie di tentativi, brevi componimenti senza pretese, sarà nel 1998, esattamente a febbraio (i tempi sono scanditi secondo una mimetica biografia), che il ventiquattrenne neoscrittore completa il suo primo romanzo dal titolo Le memorie dello Stagno… Ma che è? – eccepiscono gli amici. “È una specie di topos”. “Ah” commentano, accomiatandosi perplessi. Ora, come imporsi all’attenzione dell’editoria nazionale? Magari cominciando ad andare in televisione per partecipare a qualche show?… Propostosi per un programma televisivo, quando viene telefonicamente invitato a presentarsi alla selezione dei candidati mette nello zaino tre copie del suo romanzo e prende un aereo giungendo a Roma. L’ufficio dei redattori è in un palazzo del rione Prati, ma Pinuccio non intende partecipare alla selezione proponendosi, piuttosto, di dare una copia del suo libro al conduttore dello show, “uno che conta”. Poiché la cosa risulta difficile, il libro è trattenuto da una segretaria di redazione che promette di passarlo a chi di dovere. Così Pinuccio riparte fiducioso per Catania sbarcando all’aeroporto di Fontanarossa dopo un volo che, all’atterraggio, è funestato dalla bufera… Poi di quel suo libro non saprà mai la fine. Quanto segue scandisce la fenomenologia dei tentativi d’uno scrittore fin troppo indocile alla propria condizione insulare quantunque conscio che la letteratura italiana, a partire dall’Ottocento, non possa prescindere dagli scrittori siciliani, da Verga a De Roberto, a Pirandello Borgese Tomasi di Lampedusa Sciascia Ripellino D’Arrigo e parecchi cosiddetti minori che tali non sono in confronto al genere stampato in Italia, romanzetti e sospirose rimembranze di autori adattati a figure buone per Tv, rotocalchi o inserti culturali regolatori di un consumistico mercato di massa escludente la sperimentazione innovativa e la qualità letteraria. Che fare? Dapprima Pinuccio s’affianca a un libraio che non gli lesina promesse: “Devi solo scegliere con chi vuoi pubblicare. Mondadori? E io ti faccio pubblicare con Mondadori. Einaudi? E sia Einaudi”. Oh, quando mai! Affidare allo scapato millantatore i propri scartafacci sarà destinarli al cassonetto della raccolta della carta. Spingersi allora a Torino, al famoso Salone del libro, centrale di spaccio e plausibile omologazione d’ogni tipo di stampa? Ci va in treno, fiducioso che qualcuno del Lingotto accoglierà il suo capolavoro per lanciarlo nel firmamento della meglio editoria. Avvicina una famosa scrittrice di mezza età, di cui acquista il libro che lei gli dedica ma sbagliandogli il nome (non Pinuccio, ma “Tinuccio” scrive), indi correggendolo e lasciando che Pinuccio, messosi a perorare la propria causa confidandole di essere siciliano per giunta orfano – e proditoriamente leggendole l’incipit del proprio dattiloscritto. “Caspita, lei scrive davvero bene!” lo gratifica la caritatevole scrittrice che lo presenta al proprio editore dimostratosi non avaro di promesse. “Le prometto che lo leggerò” gli dice, accomiatandolo e immantinente ignorandolo. Fallito un secondo tentativo di piazzare il suo scritto al bonario e “più grande scrittore siciliano” contemporaneo lì presente (Camilleri?), Pinuccio, comunque pago, se ne torna in treno in Sicilia convinto che sarà presto pubblicato. Segue spasmodica attesa d’una chiamata telefonica che non arriverà mai. Passa il 2001 segnato nel mondo dal crollo delle Torri Gemelle, ed è verso la metà del 2002 che Pinuccio prende a frequentare tale maestro Orazio Magazù con cui, se non altro, condivide l’interesse per un eterno femminino, da cui però, nel corso del suo apprendistato sessuale, ricaverà più volte invincibili idiosincrasie causate dal riscontro di malaugurate magagne fisiche, referti della natura maligna e penalizzazioni esiziali della libido. Sta indugiando sulle sue iniziali delusioni quando, a sorpresa, viene cercato dal direttore di una casa editrice catanese, identificabile “professore” dedito a promuovere ingegni meritevoli, che ha letto le pagine di Pinuccio e senza mezzi termini gli dice: “Le tue pagine svelano un grande artista […]. Io questo libro lo voglio pubblicare senza toccare una virgola”. E tu, Pinuccio scrittore fuori canone, vuoi davvero impegnarti con un editore siciliano privo di santi in paradiso? In tal caso sappi che “se decidi di affidarti a me […,] avrai chiuso per sempre con l’editoria nazionale”. Cosa che, al momento, poco importa a chi ha ricevuto il più lusinghiero dei giudizi. Sul professore, un riconosciuto riferimento per diversi prestigiosi intellettuali italiani e stranieri, girano a Catania strane voci. Alcuni dicono che al tempo della Guerra Fredda lui e la moglie intrattenessero relazioni spionistiche coi russi, altri che abbia filiazioni con foschi poteri. Seppure non manchino coloro che stigmatizzano le dubbie illazioni attribuendole all’invidia che sempre alligna tra certi frustrati della varia e ingrata provincia, “poeti, scrittori, assessori, docenti universitari, e persino direttori di premi nazionali”. Finalmente, alla fine del 2002, Pinuccio pubblica, appunto con la casa editrice del professore, il suo primo, sofferto romanzo Le memorie dello Stagno: che se lo consegna a un’effimera celebrità nell’ambiente locale, tuttavia non lo fa uscire dall’anonimato riservandogli nient’altro che “il disinteresse, o meglio, il fatale oscuramento che subivano tutti i libri pubblicati da piccoli editori. Nessuna recensione, nessuna condivisione…”. Dell’errabondo libro, poche librerie detengono due o tre copie, mentre altre negano la stessa esistenza della casa editrice del professore: il quale spiegherà all’avvilito Pinuccio che, al tempo dell’uscita dello sperimentale Ravenna (1962) del siciliano Antonio Pizzuto valorizzato dall’esimio critico e filologo Gianfranco Contini, quel romanzo vendette in Italia, in una libreria di Napoli, una sola copia: scambiata per una guida turistica e acquistata dall’Ente del turismo (!). Invece, una maieutica guida, durata vari anni, è per Pinuccio il professore che gli parla di viaggi in Russia, di quando voleva convincere Sciascia ad accompagnarlo e quello si schermiva ora con la scusa che “in Russia l’acqua è imbevibile”, ora facendo intendere di temere un attentato come, sicuramente ad opera del sovietico Kgb, era accaduto all’eurocomunista Berlinguer il 3 ottobre 1973 tornando dalla Russia e percorrendo in macchina la Bulgaria. Finché, all’inizio d’aprile del 2006, il settantaquattrenne professore scompare improvvisamente dopo avere lasciato, si suppone per una sosta d’emergenza, la propria macchina carica di libri e con un dattiloscritto dal derisorio titolo di Arrivederci all’anno prima, firmato “Smagoro o Smigoro” (uno dei tanti pseudonimi utilizzati dal professore). L’hanno rapito gli Ufo, l’ha sequestrato la criminalità che ha voluto fargliela pagare per le sue inchieste antimafia?… Dopo la morte tragica del padre, Pinuccio si ritrova nuovamente senza un altro ‘padre’ che a dir poco gli ha insegnato a essere libero. Per ora ha finito di scrivere il suo secondo romanzo, Fagioli, prodigiosamente scritto in soli dieci giorni: la singolare storia di un uomo che… dialoga con un computer. A chi proporlo? Riprendendo l’ordinaria prassi, si reca a Milo che sta ospitando il popolare Lucio Dalla dichiaratosi disposto a leggere il libro. Glielo porta durante una serata di tregenda, con l’Etna, la “muntagna”, che sta eruttando selvaggiamente; ma è costretto a lasciare il libro a un perentorio e malfido cerbero, custode della villa occupata dal cantante – e, fin da subito, Pinuccio si fa consapevole che quei suoi fogli non avrebbero avuto sorte propizia… Non c’è fortuna né felicità per chi vede ingannati i propri sogni, con Pinuccio intossicato dal sapore di fiele del fallimento. Né potrebbe confortarlo quel Beckett, Nobel per la letteratura nel 1969, che scrive: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio” (Molloy, 1951). Gli sopravviene un’angosciosa fase d’insonnia che ogni notte lo sveglia alle tre lasciandolo a fissare il soffitto della stanza e a meditare sui propri disastri, risolvendosi a uscire nel freddo notturno e mettersi a parlare alla luna… Ma è in una di queste disperate veglie che gli viene un’idea certo contorta epperò – crede – credibilmente risolutiva: inventarsi un’associazione culturale denominata “Il Vulcano”. A nome di questa, invita e ospita a proprie spese (per l’occasione, ha riscattato un buono postale intestatogli dalla famiglia “per la nascita e il battestimo”) un editore di Milano accolto a Catania insieme alla moglie e alla giovane autrice d’un recente libro di successo, accompagnata da un’ambigua amica. All’organizzazione del programma s’accompagna l’idea che quei milanesi appartengano all’infausto genere degli ‘snob di sinistra’ cui Pinuccio, figlio d’un comunista di vecchio stampo, s’adatta fare buon viso. Una sala addobbata di fiori ospita la presentazione della ‘promettente’ scrittrice da marketing, alla quale Pinuccio ha garantito la vendita d’almeno trenta copie del libro in realtà pagate da lui stesso e ritirate dai presenti esibendo un tagliando fittizio. Presentatore è il facondo insegnante di Lettere Ennio Santostefano, parlatore logorroico che entusiasma l’editore ancora più lieto allorché, col suo codazzo e un servizievole Pinuccio, potrà poi godere di piacevoli gite in ameni luoghi siciliani, di pranzi tipici, dolci di pasta reale, granite di gelsi, cannoli e altre prelibate specialità… Pinuccio non si è soffermato pensando a cosa mai stia facendo fino al momento in cui, di notte, gli viene in sogno qualcuno identificato con una dissolvente immagine dell’eclissato professore che lo ammonisce di non fidarsi di quegli scrocconi meneghini dai quali non c’è da aspettarsi nessuna gratitudine. “Pinuccio, non sappiamo come ringraziarti” gli dice l’editore nel giorno della partenza, consegnandogli un presente tutt’altro che munifico: “Un temperamatite, una matita, un’altra matita colorata, un tappetino per il mouse e un piccolo quaderno per prendere appunti con il marchio della casa editrice”… Pinuccio, che aspettava l’occasione, ricambia prontamente rimettendo il suo Fagioli e spiazzando l’ammutolito editore cui si sostituisce la moglie a garantire una sollecita lettura: e, come sempre si dice, ‘gli faranno sapere’. Ma quando, e quando leggeranno? “Non ti promettiamo di leggerlo subito […] abbiamo un sacco di dattiloscritti di autori importanti”. Ah – commenta tra sé Pinuccio – “e io che sono, il figlio della scrofa?”. Trascorrono sette mesi dal dispendioso abboccamento e quando Pinuccio decide di contattare l’editore, questi dapprima si nega al telefono. Se, date le ansiose insistenze di Pinuccio, finalmente gli risponde, manco più si ricorda d’un romanzo dal titolo Fagioli e, in breve, si congeda: senza mancare, dopo qualche mese, di spedirgli una e-mail con gli scontati, perifrastici convenevoli e la chiusa: “Il suo romanzo non rientra nella nostra programmazione editoriale. Cordiali saluti”… E lui che, per porre in atto il suo piano stolidamente suicida, ha bruciato trent’anni di risparmi! Si arrende? Macché: ripiega su una piccola casa editrice marchigiana e chiede all’editore un appuntamento personale. Stabilito l’incontro, ancora una volta si mette in viaggio con manoscritto in resta da consegnare all’editore apparsogli bendisposto e che assicura la lettura del libro nei prossimi venti giorni: quanto basta a Pinuccio per tornare alleviato in Sicilia. Si ritrova una volta in casa con la mamma Santina che, dicendosi ormai vecchia e di più preoccupata per quel suo figliolo con la testa tra le nuvole, spiega d’avergli trovato una ragazza da marito, la cara Enzuccia… Non sia mai, lui è impegnato a scrivere libri. “Libri, libri, libri…” si danna Santina “tutti ca scrìvunu libri… Che poi mi chiedo: ma ppi cui? […] cercati un lavoro come si deve, sposati con Enzuccia Nicolosi e fatti una famiglia”. Eh, Enzuccia brutta è: “Manco i cani la guardano”. Fantasticando sulla sua immanente, gloriosa vita di scrittore celebre, lui agogna ballerine dai grandi seni, sguardi vogliosi, bocche insaziabili e cosce dischiuse… Se ne va a dormire. Di giorno, andando per librerie, considera con sufficienza le novità esposte, “romanzetti insulsi, senza lingua, senza scrittura”… S’imbatte in una tipa, procace alquanto, che vorrebbe rifilargli un contratto di telefonia mobile. Si chiama Galatea e lui, che trova il modo d’imbroccare, accetta un invito a casa della donna per un caffè. Finiti a letto, lo incuriosisce un contenitore lì vicino contenente qualcosa di strano. Cos’è? – chiede. Se proprio lo vuol sapere – ribatte la donna contrariata dall’impropria distrazione di Pinuccio – si tratta di “un chilo e trecento grammi di fibroma in formaldeide”… Ma come?! Urtato dalla notizia, si scusa correndo in bagno e, uscendone, dichiara, mentendo sfacciatamente, d’avere dimenticato di fare la prescritta, salvifica iniezione d’insulina. Lei non lo sa che lui è diabetico? Ma io l’insulina l’ho in casa – dice Galatea. “Oh madonna,” invoca lui “ma perché, sei pure diabetica?”. La donna va a preparare la dose, ma lui ha già deciso di battersela: rivestitosi in fretta, mette i calzini in tasca e, appena uscito, parte in macchina a tutta velocità. Frenando la folle corsa, si arresta in uno spazio deserto davanti a una fontana pubblica, si spoglia e vi s’immerge lavandosi furiosamente ma ricavandone una brutta febbre che lo prostra a letto per la successiva settimana, curato della sempre più dolorosa mamma Santina. È in tali dispersi giorni dell’anno 2007 che Pinuccio ha un ricorrente sogno di smarrimento. Vaga in una campagna d’alberi di limoni, ammira l’Etna innevato e il mare, una rupe, un sentiero, altri alberi, alti, infine una grande, fatiscente villa di colore rosa con portali di legno. Vi entra e incontra una ragazza in jeans e “un maglioncino verde e bianco” che lo guida tra le grandi sale della villa, buone – lui valuta – per presentare libri. Sa – si gloria con la ragazza –, “io sono uno scrittore famoso”: ha scritto, mica poco, Le memorie dello Stagno e Fagioli. Lei sorride ironica seppure intenerita, e scompare. Lui la cerca e domanda perché sia sparita a qualcuno apparso da dietro lo stipite d’un uscio, il “sedicente direttore” della villa, calvo e cortese, che vuol sapere se per caso si stia cercando Enzuccia Nicolosi. Ma no, Enzuccia è brutta e la ragazza scomparsa è invece bellissima. Certo che è bellissima – è la replica –, ma si chiama Enzuccia, caro signor Badalà. “Come fa a conoscere il mio cognome?” “Qui sappiamo tutto di chi entra”. Lo conduce in una stanza che custodisce il busto, scolpito da Canova, di Madame Juliette Récamier, celebre bellezza preottocentesca dall’uomo paragonata a Enzuccia. “Ma cosa c’entra?” interroga Pinuccio svegliandosi col fiato corto e madido di sudore. Un altro realistico e nefasto sogno è quello vissuto da Pinuccio quando, trascorso ben più d’un mese dall’accordo con l’editore marchigiano, telefona per sapere del manoscritto lasciato in lettura. L’editore risponde dicendogli di richiamarlo nel pomeriggio. Per quell’intero pomeriggio continua a telefonare, ma gli dicono di chiamare tra una settimana – e, quando lo fa, il direttore, cambiando voce, gli dice che “il dottore non è in sede” e, nuovamente, di richiamare “la settimana prossima”. “Aspetti, ma questa è la sua voce!” reclama Pinuccio. “Le ripeto, il dottore non è in sede” s’infastidisce il direttore, attaccando di botto… Dopo ciò, Pinuccio, digitando con un altro numero, richiama l’interlocutore tanto per mandarlo francamente “affanculo”. È per orgoglio e disperazione, per contrastare un gravoso sentimento d’ingiustizia e confermarsi di non avere complessi d’inferiorità, che poco dopo prende protervamente a spedire il romanzo a serie di editori che non gli rispondono, anzi no: c’è qualcuno, uno strafottente confusionario, che gli dice di non essere convinto del romanzo dal temibile titolo Inferno e memoria, da Pinuccio mai scritto né tampoco inviato. Starebbe a crogiolarsi nell’accidia dell’orgoglio se non fosse che la mamma gli chieda d’accompagnarla a una gita di pellegrinaggio in autobus a San Giovanni Rotondo. “Alle volte padre Pio ti fa qualche miracolo… pensaci a mamma tua, pensaci…”. Miracolo? Quelli del recalcitrante Pinuccio “sono tutti santi che non sudano”. Della compagnia farà parte Enzuccia – e da cosa può nascere cosa. Piuttosto, sostando durante il viaggio presso una libreria, ciò che nasce è una spiecevole lite col ribaldo “professorino Lanzafame” che insulta Pinuccio, lo chiama “fallito” e lo prende pesantemente in giro. Quando Pinuccio risponde per le rime, Lanzafame lo appella “Fìgghiu di comunista fìtùso [schifoso]”, rincarando: “Qui, il tuo nome, amménzo a [tra] questi libri, non ce lo vedrai mai!”. Nasce uno scontro a calci e manate; e ci vogliono cinque persone per bloccare l’offeso che vorrebbe quasi uccidere il profìssurìttu. Il viaggio prosegue tra i rimbrotti della madre per la malacumpàssa (malafigura), la rabbia non sopita e il proposito di lasciar perdere lo sfuggente editore marchigiano, probabilmente uno di quelli che sostiene la propria attività editoriale soltanto col denaro degli stessi autori pubblicati. Rivaluta Enzuccia: chissà che non possa rendere di più, magari “truccata e vestita a dovere”… Nascerà una relazione, seguita da fidanzamento con pratica di sesso selvaggio, miseramente conclusa quando dalla bocca di Enzuccia fuoriesce la capsula di un dente finito sullo schizzinoso palato di Pinuccio. Comunque – sarà stato un miracolo di padre Pio? –, a San Giovanni Rotondo ha scoperto un editore che, interpellato, gli pubblica senza difficoltà il romanzo Fagioli; ma ben presto fallendo a causa d’un malfamato distributore che, al pari di tante librerie, ha l’abitudine di non pagare gli introiti delle copie vendute. Corrono gli anni 2012 e 2013, con Pinuccio che finisce di scrivere il suo terzo romanzo. Bene: ora, per piazzarlo, sarà indispensabile trovare un agente letterario, un “padrino” che lo affranchi dal proliferante, purgatoriale “sottobosco”. Paga, per il servizio, un’agenzia veneta, ma lo si avvisa che il romanzo non è “editorialmente collocabile”. Non si arrende ma cerca, dapprima senza successo, altre agenzie a Roma e a Torino. Gli risponde da Milano un’assai nota e influente agente letteraria svedese stabilitasi da molti anni in Italia, convocandolo per un colloquio. Ci va dopo un viaggio in treno durato diciassette ore, cominciando a restarci male per sentirsi dire che, tra i suoi dichiarati modelli, Sciascia sarebbe “un po’ obsoleto” e Brancati non si sa chi sia. Piuttosto, per capire “come si scrive un plot”, lui dovrebbe leggere American Psycho (1991) dell’americano Bret Easton Ellis. Il libro, acquistato da Pinuccio appena congedatosi, viene scorso solo fino a pagina otto in una cuccetta del treno per la Sicilia. L’agente gli telefona dopo tre giorni ribadendogli che il libro manca appunto di plot e che la trama risulta debole. La scrittura non sarebbe male, ma lui si sentirebbe d’aggiungere “un capitolo dove ci sono dei bambini ammazzati? Sa, i bambini ammazzati è un argomento molto glamour”(!). Declinato sdegnosamente il turpe suggerimento, Pinuccio ha una nuova paradossale trovata: si spersonalizza, sarà un ‘altro’, l’agente editoriale… di sé stesso. In equilibrio sulla siciliana ‘corda pazza’, s’inventa una pirandelliana ‘maschera’ assegnandosi il nome di Carlo Medaglione e un ufficio nel borgo marino di Donnalucata: proporrà agli editori l’ultimo romanzo – di chi se non di Pinuccia Badalà? Un editore accetta di leggerlo, ma dopo vexata lettura: “Mi dispiace Medaglione, ma il romanzo non funziona”. Con Badalà bollato “autore da evitare”… Insomma non tanto il libro, ma l’autore sarebbe da evitare. Senonché torna a chiamarlo da Milano l’“editor più chiacchierata e bizzarra d’Italia”, la svedese cui, stavolta nella veste di Medaglione, aveva mandato alcune pagine del nuovo romanzo. “Questo pezzo è un capolavoro […] Cosa aspetta a inviarmi l’intero testo?”. Le sbrigative parole sconvolgono Badalà alias Medaglione, che riceverà una lapidaria e-mail con scritto “Firmiamo il contratto”. Ma quando, orribilmente, gli fanno sapere che l’e-mail non era per lui (avevano sbagliato?), sconvolto, digita febbrilmente il numero telefonico personale della signora. La risposta è registrata: “Il numero da lei selezionato è inesistente”. Finisce qui il vano inganno/autoinganno del malavventurato Pinuccio e del suo ‘Doppio’. Ricomposta la propria identità, all’inizio del 2013 rieccolo a Roma e ancora nella zona Prati, determinato ad abbordarvi un direttore di casa editrice. Lo avvicina fingendosi un addetto alle pulizie della sede editoriale, quindi rivela la propria intenzione: desidera proporre il suo libro. Il direttore resta sorpreso e, quasi commosso dal disarmato approccio, non nega la propria attenzione: leggerà senz’altro il romanzo. Purtroppo e per iella, s’ammalerà di un male incurabile inducendo anche in Pinuccio il ‘vizio assurdo’ di Pavese, “un desiderio di morte”, un suicidio che culla e non sa realizzare per “la paura di rimanere vivo e difettoso”… Sono quattordici anni che si sbatte senza concludere alcunché. Si dà uno pseudonimo per avviare un blog ingegnandosi d’attaccare i metodi di editori responsabili d’avere saturato il mercato con superflue caterve di libri: riscuotendo immediato successo, tanto da essere citato dal “maggior quotidiano nazionale”, e suscitando l’attenzione d’un professore del Massachusetts, l’ebreo di origini toscane Amedeo Pitigliani, “entusiasta del modo di prosare di Pinuccio”. Il blog, durato all’incirca un anno, cessa per la morte improvvisa della sessantasettenne mamma Santina nello stesso giorno dell’assalto musulmano al giornale satirico parigino “Charlie Hebdo”. È un lutto che sconvolge Pinuccio improvvisamente caricato di responsabilità mai avute, compreso il problema del sostentamento economico. Trovarsi un lavoro? Cosa difficile a quarant’anni suonati. A sua insaputa e per fortuna, la previdente Santina gli aveva pagato un’assicurazione sulla vita, sufficiente per garantire all’imprevidente figliolo un’esistenza abbastanza sicura seppure modesta. Ancora si sposta nel macrocosmo romano, stavolta presso un cugino trasferitosi di recente nella Capitale. Ci vivacchia tra passeggiate a Villa Borghese, pomeriggi in qualche libreria dannandosi vieppiù a osservare scaffali squillanti di osannati scrittori esordienti che trova perlomeno mediocri; innamorandosi della banconista di un Caffè, pure lei siciliana; infine incontrando e stringendo amicizia con un vecchio scrittore dall’aria dimessa conosciuto in precedenza su Facebook… Parlano di letteratura, no, per lo più di donne parlano, talora dei letterati romani e dell’influenza esercitata dai Moravia Pasolini Enzo Siciliano… “Pinuccio,” gli propone l’amico “tu dovresti scrivere un memoir con protagonista qualche scrittore siciliano, chi meglio di te?” (e lui, tramite il suo autore, non sta forse scrivendolo?). Sarà un memoriale che, senza meno, lo stesso anziano vorrà presentare al proprio editore nella certezza d’una sollecita stampa. Il ritorno di Pinuccio in Sicilia è sull’ala d’un miraggio: pare che a raccomandarlo ci sia stavolta uno “scrittore importante”. Rasserenato, si concede una vacanza sessuale con una ventisettenne che, hoc erat in votis, lo delude al primo amplesso rivelando a un lato della colonna vertebrale “una verruca molle e arricciata”… Riprende a scrivere, concludendo in modo soddisfacente, nell’estate del 2016, il memoir commissionatogli. “Come minimo te lo deve pubblicare Bompiani” ottimizza l’amico scrittore. Ma come si fa? “Tu mandaglielo […,] muoviti indipendentemente da me”. L’amico, insomma, pur consentendo di avanzare il suo nome, non seguirà personalmente il libro… Non faranno discorsi quelli della Bompiani comunicandogli senza indugi che il libro “non rientra nella loro programmazione”, ovvero non sarebbe buono per il ‘mercato’. Oltre a fargli capire quanto per loro irrilevanti le intercessioni di chicchessia… Basta, non spedirà “il romanzo più a nessuno”. Non vuol demordere; ed è nella primavera del 2017 che perseguirà l’ennesima temeraria impresa: intercetterà “un recente premio Nobel per la letteratura” in vacanza a Taormina… Lo incontra: “Posso rubarle cinque minuti?”. “Che siano cinque però” […]. “Com’è vincere il premio Nobel?”. “Bah…”… Il discorso tra uomini vira inevitabilmente sulle donne, sulla loro bellezza, sulla “corruzione della carne” e sulle compensazioni dell’“amore che cancella ogni insidia di corruzione”. Ma ora – conclude benignamente il Nobel –, “vuole favorirmi il dattiloscritto?”. Ciò che Pinuccio fa, con mani tremanti. “Le sue mani…” lo guarda l’attento Nobel cogliendo nel gesto l’assoluta devozione dell’interlocutore per ciò che lo anima, la venerabile letteratura; e, come a consegnargli un viatico, continua ispirato: “Lei è un uomo sacro”… Una granita è tutto ciò che Pinuccio riuscirà a offrire per corrispondere a quel sommo scriba dotato della gentilezza senza sofisticherie dei ‘grandi’. Passa un anno dall’incontro a Taormina, ma il glorioso amico non si è fatto vivo: si capisce, avrà troppo da fare; eppoi è uno che gira il mondo… Ma quando il Nobel si ricorda d’inviargli una e-mail, finita nello spam e fortunosamente recuperata (“Caro amico italiano, ho letto il suo bel romanzo. In bocca al lupo per tutto. Suo compagno di granita”), quanto accade a Pinuccio è di prorompere in un isterico groppo di risa: cosa mai s’aspettava, di essere ‘lanciato’ da un Nobel?! Né lo confortano le successive uscite notturne, con l’utilitaria dell’ipocondriaco maestro Magazù, per stradine recondite, chiesine sconsacrate, cimiteri sperduti nei boschi. Parlando a caso, perfino di letteratura, una mattina vagano per impervie zone d’una Sicilia antica e misteriosa finendo per imbattersi, nella contrada di Puntalazzo frazione del comune di Mascali, in una villetta apparentemente abbandonata, sita in fondo a un viottolo e con davanti un cartello recante la scritta “Si prega di non tagliare i fiori”. Frase incongrua o inesplicabile visto che intorno non si vedono fiori. Chiedono a un uomo in passamontagna se conosce gli abitatori dell’edificio, ma quell’omertoso: “Ah niente sacciu… li padruni la vìnnunu e la svìnnunu [vendono e svendono] ogni sei misi”. L’episodio, che denota l’arcano cartello sui fiori alludente a qualcos’altro misterico, si sospende tra paranoia e distopia introducendo più tardi la cronaca di un incubo e una specie di scesa agli inferi… A notte, ritratti nel penultimo, ipnotico capitolo del romanzo, Pinuccio e il maestro Magazù tornano alla villa di Puntalazzo che, immersa nell’ombra, ora mostra il cancello spalancato e una porta aperta. Entrano in una stanza dalle vecchie pareti coperte d’una sbiadita carta da parati floreale. Nel contempo, la porta si chiude sbattendo alle loro spalle. Appare un nano dal tratto di maggiordomo che, torvo, impone ai visitatori di consegnargli i cellulari e seguirlo verso l’ingresso d’una botola. Scendono una scaletta di ferro ed entrano in una stanza malamente illuminata da candele, attesi da un essere dall’aspetto alieno che preme un pulsante avviando una voce registrata: “… Eh ma insomma, bisogna stare attenti con le definizioni: la cultura è una mentalità, mentre l’erudizione è un atteggiamento… […] Le vecchie puttane quando finiscono in disarmo per ragione d’età ed altro non si dedicano che a educare le giovani leve col bel corpo a fare quello che adesso loro non possono più fare”. Ma questa – esclama Pinuccio – “è la voce del professore”, parole che lui aveva già sentite dall’indimenticato, socratico precettore. Anche Magazù è d’accordo: quella voce non gli sarebbe ignota. Presto l’ospite inizia a incrudelire denigrando Pinuccio e chiamandolo “aspirante scrittore dallo stile pretenzioso”, un modo per bollare chi, scrivendo, esponga uno stile personale. “Cosa vuole da noi?” gli si chiede. Noi gestiamo un potere – annuncia l’alieno –, “principalmente l’industria editoriale: giornali, libri, televisioni. […] ci occupiamo di tenere costante un livello di bassa coscienza, evitando che qualcuno provochi accidentali risvegli”. Loro compito è imporre “canali di comunicazione sempre più poveri, limitando l’uso del linguaggio a non più di cinquecento parole”. Badalà, ha dimenticato l’aperto “monito del suo mentore. Non fu forse lui a metterla in guardia che, se avesse pubblicato con la sua casa editrice, nessun grande editore l’avrebbe più presa in considerazione?”. “Allora siete voi che manovrate gli editori”. “Agiamo esclusivamente per il bene del governo superiore”. “Non la passerà liscia, denunceremo tutto alla polizia, ai giornali e alla televisione, racconteremo ogni cosa su Facebook”. “Suvvia Badalà, non mi faccia ridere. Pensa che qualcuno le crederebbe? […] Lei da stanotte è uno scrittore senza speranza” è l’ustionante verdetto. “Scommetto che siete stati voi a far sparire il professore”… È vero che lo si voleva eliminare, ma il professore li ha anticipati e “in questo momento sarà da qualche parte a godersi i suoi novant’anni”. I due amici, mesti anti-eroi, escono dall’infernica magione allontanandosi nella notte sorvegliata da una luna beffarda, e c’è Pinuccio che si scervella – “… allora ecco perché”. Tutto gli diviene supremamente chiaro pensando che quel potere, se non ha eliminato il professore, ha voluto neutralizzarlo come ha fatto con lui: in combutta con l’ingrato editore di Milano e la perversa svedese agente letteraria dal cuore di iena, venditrice di storie con bambini trucidati; e pure il premio Nobel che l’aveva giubilato con una banale e-mail… È arrivato ai quarantacinque anni, Pinuccio, e si sente “un uomo finito”. Viaggi, attese, sogni vacui e notti insonni. Giovinezza sprecata… Arriva pure a prendersela con l’incolpevole maestro Magazù: “Cosa ti hanno promesso per portarmi da loro? […] Tu lo sapevi…” lo accusa, facendolo trasecolare. Insieme a Magazù, si risveglia fradicio di sudore in ospedale: hanno avuto un incidente. C’era un ubriaco che ha tagliato loro la strada mentre correvano in macchina dalle parti di Miscarello nelle vicinanze di Giarre; e, per evitarlo, hanno sbattuto contro un muro… Ehi, in quella casa ci sono effettivamente stati? “Ma quale casa e casa” blatera il frastornato Magazù. Allora “non è vero niente?” si rincuora Pinuccio, scusandosi per avere, in sogno, dubitato dell’amico. Nell’ospedale c’è un signor Valente che vuol presentare a Pinuccio la nipote Antonietta, “l’alliteràta [letterata] di casa”, cinquantenne timida, silenziosa e dai dolci lineamenti. Lei ha già pubblicato e vuol consigliare Pinuccio di ricorrere a un affidabile agente, “molto ammanicato con alcune case editrici importanti”. Va bene…: e lei, comunque, lo leggerebbe il libro di Pinuccio? “Ma certo, volentieri”. Dopo essersi sentiti più volte al telefono, si rivedono sei mesi dopo. “Tu scrivi bene, sei bravo” lo rassicura Antonietta. Lui ha spedito il suo romanzo all’agente consigliatogli, ricevendone un’assai positiva scheda critica. Con in aggiunta una richiesta di pagamento per “spese di rappresentanza”, ciò che desta nella donna qualche perplessità anche notando una sorta di resa manifestata dall’amico rassegnatosi a pagare. A ogni modo, pervasi da speranze senza nome, si dispongono a un brindisi: pressoché convinti che, finalmente, sicuramente, “di Pinuccio Badalà se ne sarebbe sentito parlare”.
Francesco Sasso
Il link alla recensione su Retroguardia 3.0 – Miscellanea: https://tinyurl.com/4mrw8k43